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La Forgia del Destino
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La Forgia del Destino

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About this ebook

(La Compagnia del Viandante - Vol.II)

Il Regno sanguina, martoriato da una crudele guerra fratricida, ma la ricerca del Bianco Viandante deve continuare, contro ogni avversità!

Tra le ombre del Grande Tempio di Silon, Raduan cerca il cammino che conduce alla Valle della Luna, una flebile traccia d’inchiostro sulle pagine ingiallite degli antichi tomi della Biblioteca. Per farcela, dovrà opporsi all'invidia e al tradimento, e regolare i conti col proprio passato.

Dorian, il cuore pieno d'odio, affronta incubi senza nome nelle paludi di Draslund. L'Addestratore di Serpenti lo attende nella sua tana, per plasmarlo con l’illusione e col fango, per tramutarlo nel suo abietto Campione.

Ma la giovane Kyra non si darà pace finché non avrà riabbracciato suo padre.
Per innumerevoli leghe lo insegue attraverso le lande del Regno, finché il suo cammino incrocia quello di Zimri, l'esotica danzatrice Shamir, e del grottesco circo dei Girovaghi del Sol Nascente.

Nel frattempo, sotto la piramide della Città Morta nel cuore della giungla, un male antico quanto il mondo striscia verso la luce...

Se non l'hai ancora fatto, leggi il primo volume della saga, "La Città degli Automi".
La grande avventura continua nei volumi successivi: "La Fiamma Eterna", "L'Eredità di Ys" e "Le Sabbie Nere".
La raccolta dei cinque volumi è anche in vendita in un unico ebook dal prezzo davvero vantaggioso!

LanguageItaliano
Release dateJul 13, 2012
ISBN9781476258041
La Forgia del Destino
Author

Francesco Bertolino

Sono nato a Ivrea la Bella, che i Romani chiamavano Eporedia.La prima cosa che ho letto è stata: "Lettera D: Dimmi Dunque Dove Devo Andare".La prima cosa che ho scritto solo io riuscivo a leggerla. Peccato, era un capolavoro: dinosauri, robot e raggi fotonici, intrecciati in un melodramma dai risvolti kafkiani...La mia infanzia è volata via come un sogno colorato.Ho fatto il Liceo Classico, mi piacevano da matti le versioni ed ero il tipo da cui copiare i temi, in cambio di una sbirciata al test di mate.Poi il grande salto: Ingegneria Informatica. Ne sono uscito senza troppi danni cerebrali.Un paio di stagioni a Torino, poi la voglia di cambiamento mi ha spinto nel mezzo della Bahia brasiliana. Tre meravigliosi anni di volontariato, dove gente scalza dagli occhi di sole mi ha insegnato a sorridere davvero.Di più ancora, ho trovato l'amore! Celene, la mia luna...Continuiamo a vivere in Brasile, su un'isola chiamata Florianópolis - che non è per nulla vicina a Paperopoli, ma in compenso vanta quarantadue spiagge, due lagune, e un imprecisato numero di discendenti italo-brasiliani con i loro dialetti insensati!Oggi vivo di software, anche se il mio sogno è quello di tanti altri: scrivere, scrivere, scrivere, e di scrittura sopravvivere.Come i Quendi, guardo spesso il mare. Chissà che Valinor non compaia all'orizzonte...​

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    La Forgia del Destino - Francesco Bertolino

    Prologo

    I suoi occhi, assuefatti all’oscurità quasi completa, sprizzarono schegge di dolore quando spiò il luminoso mondo esterno.

    Eppure non poteva fare a meno di guardare, di godere anche solo per un istante del fresco alito di vento sulla pelle. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter camminare all’aria aperta, nel mezzo della lussureggiante vegetazione che intravvedeva al di là della feritoia nella roccia.

    Ma sapeva che non sarebbe mai accaduto.

    Era prigioniero, e tale sarebbe rimasto per molto, molto tempo.

    Si accovacciò in un angolo, disprezzando il giaciglio dove passava buona parte del giorno e della notte, a rivivere i tristi eventi che l’avevano spinto fin dentro a quella grotta. Era un supplizio costante.

    E il colpo di grazia glielo avevano dato qualche giorno prima.

    Al solo sfiorare col pensiero la rivelazione del suo carceriere, provò un dolore tanto intenso da trascendere le barriere del corpo e della mente. Chinò il capo tra le ginocchia, si passò le mani magre e pallide nella folta cascata di ricci non più dorati.

    La Compagnia, distrutta. Le sue ceneri disperse al vento.

    Ancora non poteva crederci. Non voleva crederci, o sarebbe impazzito.

    Soltanto una piccola parte di sé, nel profondo dell’anima, gli diceva di continuare a lottare, di sopportare il dolore: forse non tutto era perduto. Sesto senso o pura ingenuità che fosse, era l’ultima speranza che gli restava, una corda da stringere con tutte le forze per non affondare.

    Lo Stendardo, però... Lo Stendardo della Compagnia, nelle mani del nemico! Il maledetto l’aveva esibito con un sorriso perverso, mentre si dilungava nei particolari del suo racconto. Era la prova tangibile della sua sincerità, purtroppo. Piuttosto che cedere il simbolo della Compagnia al nemico, Dorian e gli altri l’avrebbero protetto fino alle estreme conseguenze.

    Fino a soffrire una morte orribile e ingiusta…

    Digrignò i denti, gemette. Era colpa sua, e delle sue scelte sbagliate. Fin dall’inizio.

    Alzò lo sguardo sulla parete di roccia umida.

    «Perdonatemi…» sussurrò, come se potesse scorgere dinanzi a sé le anime tormentate dei guerrieri della Compagnia, fluttuanti nel buio.

    Quasi non udì la chiave che girava nella toppa, e la porta di ferro che si apriva sui cardini ben oliati.

    Abbassò gli occhi. Sapeva chi era venuto a fargli visita, ma non se la sentiva di affrontarlo a viso aperto. Non quel giorno.

    Represse un brivido quando l’oscurità nella grotta si infittì, assumendo una consistenza quasi liquida. Tentacoli di pura tenebra gli sfiorarono il volto, e lo accarezzarono con morbosa insistenza. Girò la testa, pur sapendo che era inutile.

    «Guardami» disse una voce cavernosa.

    Non le diede retta.

    «Guardami, ho detto.»

    La tenebra assunse forma di braccia, e gli serrò il capo in una morsa, costringendolo ad obbedire. Quando i suoi penetranti occhi celesti si fissarono sul volto dell’aguzzino - non un volto in realtà, ma un vortice nero privo di fattezze - avvenne una reazione improvvisa: un’aura di luce abbagliante prese forma nella grotta, sciogliendo la presa delle tenebre, ricacciandole indietro. Per un istante parve che il vortice scuro perdesse d’intensità e fosse sul punto di fermarsi.

    Non fu che un attimo: la luce si affievolì e si spense, l’oscurità tornò a regnare, più forte di prima.

    L’Oscuro rise, un suono cupo e insolente che rimbombò tra le pareti della grotta. Poi parlò di nuovo, compiaciuto:

    «Ti ho portato un regalo, o meglio, una visita.»

    Il buio fluttuante che lo avvolgeva si agitò come fumo, e tra le sue dita d’ombra venne alla luce una sfera di metallo lucido. Il prigioniero la osservò stupito: da molto tempo non vedeva uno di quegli strumenti.

    L’Oscuro fece pressione su un polo della sfera. Vi fu uno sfrigolio, e un sottile reticolo di linee luminose prese forma sulla superficie sferica, fino ad avvolgerla per intero. Per alcuni istanti la luce non mutò, un blu elettrico che feriva gli occhi. Poi una sagoma affiorò dalla luce, espandendosi e arricchendosi di colori, dettagli e profondità. Un attimo dopo, l’immagine di un volto sorse a occupare l’intera curva di metallo, reale e tangibile come se l’uomo a cui apparteneva si trovasse lì con loro.

    Il volto strinse gli occhi dal taglio obliquo, scrutando nell’oscurità, finché riuscì a mettere a fuoco la figura del prigioniero. Un sorriso beffardo gli curvò le labbra.

    «Dunque non mentivi! Il Bianco Viandante, ai miei piedi!»

    Abel distolse lo sguardo, disgustato. Aveva riconosciuto senza sforzo quel volto dai tratti maligni: Hiram, figlio primogenito del defunto re Feldnost. Un folle ambizioso, che stava per trascinare i Principati in un’insensata guerra civile. Non si stupì che il principe fosse in combutta con l’Oscuro, anzi lo sospettava da tempo. Ora ne aveva la conferma.

    «Dubitavate della mia parola, maestà?» domandò il carceriere, rivolto al simulacro del principe. Il suo tono era di scherno, ma Hiram non parve accorgersene.

    «Non ne avrei motivo. Hai sempre mantenuto le tue promesse» concesse il principe.

    «Seguirete dunque il mio consiglio? Darete il via alle ostilità?»

    La domanda aleggiò nell’aria, gravida di morte. Abel scorse la sagoma di un sorriso dentro al vortice d’ombra. Il suo odio crebbe a dismisura.

    «Si, lo farò» disse il principe, puntando gli occhi allucinati su qualcosa che soltanto lui riusciva a vedere. Un miraggio forse, o un sogno di grandezza.

    «È l’unica scelta sensata» annuì l’Oscuro «Ed io sarò al vostro fianco, come sempre.»

    «Non ritardare, allora, o comincerò senza di te!» disse Hiram, senza risparmiare ad Abel uno sguardo sarcastico, che diceva tutto.

    «Sarò puntuale, maestà, non temete» concluse l’ombra.

    Fece un gesto fluido con la mano, e la sfera si spense, fagocitata dal suo manto.

    Abel continuò a fissarlo, con un’accusa dipinta negli occhi limpidi. L’Oscuro resse quello sguardo senza sforzo: nessuna traccia di rimorso increspava la nera superficie del suo volto.

    «Un altro fantoccio con cui divertirti» commentò Abel, amaro.

    «Un fantoccio che mi sta servendo nel migliore dei modi» confermò il carceriere, ridendo piano.

    «Non ti fermerai dinanzi a nulla, vero? Affonderai l’intero Regno nelle tenebre pur di raggiungere il tuo scopo…» Si morse le labbra. «Ti disprezzo, con tutto il cuore.»

    L’ombra non lo degnò di una risposta. La massa di tenebre avanzò nella grotta, fino a lambire la sua figura accovacciata. Si arrestò a un passo da lui, come un monolito silenzioso.

    Quando parlò, la sua voce era intrisa di sarcasmo:

    «Il Bianco Viandante, dunque. È un bel nome, davvero appropriato. Raccontami come te lo sei guadagnato.»

    «Perché mai dovrei?»

    «Perché lo voglio. Hai forse di meglio da fare? Su, parla!»

    Abel sospirò. Che senso aveva rifiutarsi, a quel punto? Se non altro, parlando, avrebbe potuto ingannare il tempo, invece di continuare ad affondare nel pantano della prigionia e dei rimorsi.

    E c’era anche un’altra ragione.

    Voleva che l’aguzzino rivivesse la sua storia attraverso i suoi occhi, fin dall’inizio, e che intendesse le ragioni del suo cambiamento. Che le abbracciasse, forse.

    Ma questo era praticamente impossibile.

    Distese le gambe sul suolo umido, e si stropicciò le palpebre.

    «Come vuoi» disse «È una storia che comincia da lontano…»

    L’Oscuro continuò a fissarlo in silenzio.

    Cominciò a narrare.

    I - Verso Draslund

    L’acqua, tinta di rosa dall’incedere del tramonto, scorreva placida sotto la chiglia del vascello, mentre una coppia di delfini si esibiva per il diletto dei passeggeri.

    Dorian, al contrario degli altri, li osservava senza davvero vederli, perso nei pensieri che l’avevano condotto fin lì, e che si rifiutavano di abbandonarlo. Chinò il capo e si scostò una ciocca di capelli biondo cenere dagli occhi. Era forse l’unico a bordo dell’imbarcazione che non fosse così ansioso di raggiungere la meta.

    Draslund…

    La grande palude, e l’enigma che vi abitava: Nahash, noto come l’Addestratore di Serpenti. Era a causa sua se si trovava su quella barca, diretto ai confini delle terre civilizzate.

    A causa delle sue menzogne, avrebbe detto Raduan. Con un mesto sorriso, Dorian rivide dentro di sé il volto contrariato dell’amico, il giorno prima che i loro cammini si separassero. Raduan aveva cercato di dissuaderlo in tutti i modi dal compiere quel viaggio - a ragione forse - ma lui aveva scelto di non dargli ascolto.

    Che altro gli restava?

    Non era cieco alle menzogne e alle mezze verità che impregnavano le parole di Nahash, eppure fin dal primo istante sapeva di non aver altra scelta se non quella di seguirlo fino alla sua tana. Sapeva anche di correre dei rischi, ma in che altro modo avrebbe ottenuto le risposte che bramava come nient’altro nella sua vita?

    La sua nuova vita, partorita dal folle eccidio dei compagni d’armi. Per l’ennesima volta ripercorse nella mente il cammino che aveva trascinato la Compagnia del Viandante verso quell’orribile destino: l’infinita lotta contro i Demoni, la scomparsa di Abel, l’imprudente decisione di separarsi dai suoi guerrieri. Al ritorno nella fortezza di Bezer, una pira di corpi in fiamme era tutto ciò che restava del suo passato. Da quelle ceneri era nato il suo odioso presente.

    Si abbandonò su una scomoda panca di legno, fedele compagna di quegli interminabili giorni di viaggio, e una volta di più provò nostalgia del suo cavallo, delle pianure erbose, di ampi spazi dove sgranchirsi le gambe. Già detestava lo stretto e instabile ponte del vascello.

    Rimuginò sul percorso di viaggio per scacciare i cattivi pensieri: si era imbarcato parecchi giorni prima nella città di Aiden, per navigare verso Nord attraverso il Mare Interno, sempre costeggiandone la sponda orientale, sino alla foce dell’Udan. Avrebbe poi risalito il corso del fiume con una barca più piccola, per raggiungere i confini delle paludi di Draslund. A partire da lì, non aveva idea di cosa lo aspettasse.

    Osservò la piatta distesa del mare, sempre uguale a se stessa. Era un gran tedio, ma il viaggio per via di terra sarebbe stato ben più lungo e disagevole, nelle gravi condizioni in cui versavano le province del Regno. Lo spettro della guerra tra i Principati assumeva di giorno in giorno contorni sempre più reali, posti di blocco e fortificazioni spuntavano come funghi lungo le vie maestre. Come risultato, qualsiasi tragitto fra i Principati rischiava di trasformarsi in un’odissea tra barriere artificiali, deviazioni inattese, e squadroni di soldati eccitati e nervosi. Molto meglio la tranquilla monotonia della traversata per mare.

    Un bambino corse verso prua, inseguito dalla madre, inciampò nella sacca da viaggio di Dorian e cadde lungo disteso sul ponte. La madre accorse, lo sollevò da terra e ne soffocò le lacrime in un abbraccio. Dorian le fece un cenno di scusa e si sistemò la borsa tra le gambe, per evitare altri incidenti. Era un bagaglio ridotto all’osso, tanto che a volte si scordava persino di averlo con sé: un cambio di vestiti, acqua, qualche provvista, e poco più.

    Portava con sé un solo oggetto di valore, un oggetto che risvegliava in lui tristi ricordi, ma dal quale non si sarebbe mai separato, poiché rappresentava il suo ultimo legame col passato. Slacciò le cordicelle che chiudevano la sacca, e sbirciò all’interno senza dar troppo nell’occhio.

    Era ancora lì, indisturbato: un guanto da battaglia rivestito di tessuto candido, ornato da una filigrana di ricami dorati che contornavano dita e mano, sino a metà avambraccio. Non si trattava di un guanto comune, né i ricami costituivano un puro dettaglio estetico: era uno strumento dai poteri speciali, un manufatto intessuto di magici manàlorin, creato dalle mani dello stesso Abel che gliene aveva fatto dono.

    L’ultima volta che aveva dovuto farne uso, rammentò con una fitta di rimorso, era stata quando il guerriero Iarmin si era tramutato in Demone sotto i suoi occhi: la luce scaturita dal guanto aveva posto fine al tormento dell’uomo, che un tempo aveva chiamato amico e compagno, e aveva liberato la sua anima dalla morsa della carne corrotta. Uccidendolo.

    Ripensando a quella notte nella fortezza di Bezer, Dorian si rese conto che proprio quello era stato il primo anello della fatale catena di eventi che aveva trascinato la Compagnia del Viandante dentro l’abisso. Era stato a causa delle parole del moribondo Iarmin, se lui e Raduan si trovavano lontani dai compagni nell’ora del massacro, lungo il cammino di ritorno dalla Torre Grigia e dall’infruttuosa ricerca di informazioni sulla Valle della Luna.

    Loro due tra tutti erano sopravvissuti.

    «Non proprio» si corresse, stringendo gli occhi dinanzi ai riflessi rossastri del sole che affondava nelle acque.

    Kyra…

    Il pensiero di lei lo corrucciava spesso, perché la loro separazione non era avvenuta nel migliore dei modi, anzi. Eppure era grato agli Dei che fosse accaduto: grazie a quel diverbio, sua figlia era ancora viva. In qualche luogo, facendo chissà cosa, ma viva! La speranza di poterla un giorno riabbracciare era una delle poche cose che illuminavano il suo cammino.

    Sospirò. Avrebbe voluto essere qualcun altro. Avrebbe voluto credere in qualcosa di grande e luminoso, come Raduan, la cui fede nel Dio Abidan era seconda soltanto all’incrollabile lealtà con cui ancora seguiva le tracce dello scomparso Abel. Raduan era convinto che non tutto fosse perduto, che il Bianco Viandante potesse essere ritrovato e messo in salvo, e che ci sarebbe stato un nuovo inizio, per tutti quanti loro.

    Ma non per sé stesso, Dorian ne era certo.

    Al rivivere nella memoria il massacro della Compagnia, al risentire le aspre parole di Nahash sui misteriosi esseri che nell’ombra giocavano con il loro destino, Dorian sentì il desiderio di vendetta scorrergli come lava rovente nelle vene. Era un fuoco che gli consumava il cuore, e che stentava a controllare, anche lì, in quell’oasi di acqua salata, circondato dal movimento calmo delle onde. Era un grido angosciante che gli feriva i timpani, squarciando il silenzio della sera.

    Si alzò dalla panca con uno scatto repentino che spaventò gli altri passeggeri. Borbottò qualche parola di scusa, si gettò la sacca in spalla e si fece strada verso poppa, maledicendo il proprio stato d’animo. Uomini e donne si scostarono al suo passaggio, tenuti a distanza dall’alone ostile che emanava dalla sua figura.

    Andò a sedersi all’estremità del ponte, seguendo con lo sguardo la scia senza fine lasciata dall’imbarcazione, spinta a Nord da venti deboli ma costanti. Si accovacciò sul ponte e prese a sgranocchiare un tozzo di pane stantio estratto dalla sacca. Quella sera doveva bastargli: non avrebbe tollerato altro pesce. Possibile che la cambusa del vascello non avesse altro da offrire?

    Poco male. Se i suoi calcoli erano esatti, e se la monotonia del tragitto non gli aveva fatto perdere il senso del tempo, l’indomani avrebbero raggiunto la foce del fiume Udan, dove sarebbe cominciata la seconda tappa del suo viaggio.

    «Domani» ripeté tra sé e sé, con un misto di ansia e speranza.

    Sì, un altro giorno sarebbe venuto. Un altro lungo giorno di cupe riflessioni e scarsi passi avanti. Ma perlomeno l’oggi stava giungendo al termine, e i pensieri non l’avrebbero martoriato ancora per molto.

    Si levò in piedi, si stirò, e si diresse sottocoperta, anche se le stelle non erano ancora apparse in cielo. Con un po’ di fortuna, la comoda amaca e il rollio della barca gli avrebbero donato un sonno quieto e senza sogni.

    -----

    Così avvenne, e Dorian dormì della grossa sino al mattino successivo, come non gli riusciva da giorni, settimane forse.

    Il risveglio però non fu dei migliori: un urto, seguito da un’oscillazione dell’amaca, quasi lo sbatté a terra. Imprecò, la mente ancora annebbiata dal sonno, ma riuscì goffamente a recuperare l’equilibrio. Un attimo dopo era già in piedi, cercando la spada a tentoni. Gli ci volle un po’ per rendersi conto di essere l’unica persona sottocoperta, a parte un marinaio barbuto che lo fissava con occhi pieni di sconcerto.

    «Signore…» disse costui «Siamo arrivati. È il capolinea.»

    Dorian si sentì uno sciocco: tanti giorni di aspettativa, e quando il momento finalmente arrivava, lui se ne restava a dormire!

    Si riassettò i vestiti e raggruppò in fretta le sue cose, avvertendo su di sé lo sguardo ironico del marinaio intento a far pulizia. Lo salutò con un cenno del capo e salì all’esterno.

    La luce del sole già alto gli ferì gli occhi, e dovette farsi schermo con una mano. Il ponte del vascello ferveva di attività: i passeggeri carichi di sacchi si accalcavano sulla stretta passerella che conduceva alla banchina, accolti dal vociare dei portatori e dei venditori ambulanti. I marinai, spronati dalla voce tonante del secondo, avevano formato una catena umana per trasportare pacchi e merci a terra, mentre altri già rientravano caricando sulle spalle enormi ceste di rifornimenti. Pecore, galline e addirittura un paio di buoi scorrazzavano sul ponte tra le pile di cordame, in attesa che venisse il loro turno di scendere.

    Sulla banchina, Dorian notò la presenza degli stessi personaggi che accorrevano ogni volta che il vascello faceva scalo lungo il percorso: bande di bambinetti cenciosi, mendicanti in cerca di qualche spicciolo, donne di malaffare, e su tutti lo sguardo minaccioso delle guardie, appostate dove meglio potessero controllare la situazione.

    Sibilò un’imprecazione. Proprio lì, al capolinea della prima tappa del suo viaggio, si notava a colpo d’occhio che le maglie della sicurezza erano più strette. Non che quello sparuto gruppo di case fosse un centro abitato di rilievo, ma, in tempi di guerra, un fiume di lungo corso come l’Udan acquisiva enorme importanza strategica, sia come via di trasporto, sia come barriera naturale contro un’invasione. Era perciò di cruciale importanza rafforzarne la difesa della foce e delle aree limitrofe con guarnigioni di soldati, per prevenire un’offensiva nemica, oltre che per evitare infiltrazioni di spie. L’Udan faceva da confine tra i Principati di Hiram e Gomer, alleati nell’invasione contro il Principato di Feledan, più a Sud. Per quanto Dorian ne sapeva - grazie a un fortuito incontro nella Torre Grigia di Zontar - l’alleanza tra i due Principati era cementata da un sano terrore del principe Gomer nei confronti di suo fratello maggiore e del suo misterioso alleato.

    Comunque stessero le cose, non poteva dare nell’occhio, o avrebbe avuto seri problemi a proseguire verso la sua destinazione. Si accodò alla fila dei passeggeri lungo la passerella, e si guardò alle spalle una volta soltanto: la grande vela era ammainata, il vascello riposava in attesa della prossima traversata. Si augurò di poter evitare per un bel pezzo un altro tedioso viaggio come quello.

    Quando posò piede sulla terraferma, calpestando la coda di un imprudente cagnetto randagio, percepì che molti occhi si fissavano su di lui: la sua mole, il suo portamento e la lunga spada che portava al fianco finivano per tradirlo ogni volta che cercava di rendersi anonimo. Ma aveva previsto che sarebbe successo, ed era pronto a togliersi d’impiccio in caso di guai.

    I guai gli vennero incontro prima di quanto avesse immaginato: aveva mosso sì e no una decina di passi dalla banchina verso gli edifici del porto, quando un paio di guardie coi colori dell’esercito di Gomer gli si fecero incontro. Si fermò e chinò il capo in segno di rispettoso saluto.

    «Cosa ti porta da queste parti, straniero?» investigò una delle guardie, senza preamboli. Da come i suoi occhi lampeggiavano sotto lo spesso arco delle sopracciglia, Dorian intuì che l’uomo si era già fatto una pessima idea della sua persona.

    «Affari» rispose, senza scomporsi «Vado a Nord, alla ricerca di pelli.»

    «Draslund, eh?» replicò la guardia, sputando in terra con disgusto «Non esiste posto peggiore sulla faccia della terra, né feccia più lurida di quella che ci abita!»

    «Né pelli di rettile di migliore qualità, per mia sfortuna» continuò Dorian, esibendo un sorriso candido.

    «Che te ne fai in tempi come questi?» apostrofò l’altra guardia, un uomo alto e magro come uno stecco, grondante sudore «Non lo sai che c’è una guerra in corso? Perché mai dovresti preoccuparti del tuo stupido commercio di pelli? Sarebbe molto meglio se te ne tornassi a casa!»

    «Vi ringrazio per il buon consiglio, ma le pelli mi servono adesso più che mai. Sono un fabbricante di armature, capite? Per me una pelle di kreel vale tanto oro quanto pesa! È perfetta per creare corazze resistenti come l’acciaio, ma infinitamente più leggere e flessibili. Qualsiasi soldato sarebbe disposto a pagarmi una fortuna per indossarne una! Farebbe anche al caso vostro.»

    «Perché straniero, cos’ha la mia che non va?»

    «Nulla, a parte farvi soffocare di calore e impedirvi i movimenti. E poi, un arciere nemico potrebbe facilmente colpirvi qui, o qui, dove queste giunture malfatte vi lasciano scoperto» proseguì Dorian, indicando i punti deboli dell’armatura della guardia. Un compito assai facile per un veterano di guerra come lui, addestrato a sfruttare ogni minimo varco nelle difese di un avversario.

    «Uhmpf, se lo dici tu…» sbottò la guardia.

    La conversazione fu interrotta da uno strepitio improvviso e dalle urla di una donna: i tre si voltarono all’unisono, e videro un portatore maldestro intento a correre dietro a due galline, sotto una pioggia di insulti. La guardia dalle sopracciglia folte si girò preoccupata: banali incidenti come quello potevano tramutarsi in risse e disordini in un batter d’occhio. Alzò lo sguardo su Dorian, valutando come comportarsi, poi scosse la testa un paio di volte.

    «Va bene, mi hai convinto. Buona fortuna con le tue pelli. Ma vedi di non restartene troppo da queste parti, o potrei pensare che ti sei inventato tutta la storia.»

    «Partirò oggi stesso per Draslund, parola mia» affermò Dorian, spingendosi ad abbozzare un inchino.

    I due gli rivolsero un’ultima occhiata dubbiosa, poi corsero via per sedare il disordine. Dorian non si fermò a guardare, e ne approfittò per mischiarsi alla folla. Gli era andata bene, la storiella che aveva preparato durante il viaggio era caduta a pennello con quei due. La prossima volta poteva non essere così fortunato. Meglio lasciare quel luogo al più presto.

    Si allontanò dal porto a passo svelto, lasciandosi alle spalle il centro abitato e dirigendosi dove il fiume sfociava nel mare. Non dovette camminare molto per raggiungerlo, e si stupì di quanto la foce del fiume Udan fosse ampia: calcolò oltre mille passi da una sponda all’altra. Avrebbe dovuto immaginarselo, visto che era considerato uno dei fiumi più importanti del Regno. Ciò che invece non lo stupì fu il colore delle acque: limacciose e dense, un chiaro indizio del luogo da cui avevano origine. E se in quel punto, a molte leghe di distanza dalla sorgente, non mostravano che un pallido riflesso del putridume delle paludi, Dorian non osò pensare a cosa lo attendesse alla fine del percorso.

    Dirimpetto a lui, ai piedi del promontorio, c’erano parecchi uomini, che a quella distanza parevano insetti laboriosi: due squadre di soldati, spogli e madidi di sudore, erigevano una palizzata di tronchi sulla sponda del fiume, come misura preventiva contro l’attracco di imbarcazioni provenienti dal mare. La bandiera blu notte del Principato di Gomer era stata issata in alto su un’asta, ma la totale assenza di vento le dava l’aspetto di un vecchio panno steso al sole, piuttosto che di un orgoglioso simbolo di battaglia. Sull’altra sponda, gruppetti di soldati montavano barriere dello stesso tipo. Ma lavoravano in gruppi ben organizzati, e le loro uniformi avevano il colore della terra bruciata. Uomini di Hiram.

    Dorian si grattò la sommità del capo. Le cose sarebbero state migliori, se Gomer avesse avuto il coraggio di sottrarsi all’influenza di suo fratello. Eppure, quel giorno alla Torre Grigia, era parso a dir poco terrorizzato dalle ripercussioni. Neppure Zontar era riuscito a fargli cambiare idea, benché fosse chiaro a entrambi che il progetto di Hiram era folle e inutile. Riunire i tre Principati in un unico Regno, come ai tempi di re Feldnost, ma usando la violenza e lo spargimento di sangue come collante… Quanto sarebbe durato un nuovo Regno eretto su fondamenta del genere?

    Si scosse i pensieri di dosso, rendendosi conto che per lui non avevano alcuna importanza, almeno per il momento. Tutto ciò che contava era trovare un modo rapido e sicuro di risalire la corrente del fiume fino a Draslund. Nel frattempo, il mondo con le sue guerre e i suoi capovolgimenti di fronte poteva aspettare.

    Scese a valle lungo un sentiero di terra battuta, poi tagliò in mezzo all’erba alta per tenersi alla larga dai soldati al lavoro sulla palizzata. I suoi stivali affondavano con sgradevoli risucchi nella terra fradicia, tentando di evitare le zone più fangose. Scelse come meta un gruppo di baracche di legno sistemate su palafitte, là dove il corso d’acqua rallentava e disegnava un’ampia curva.

    Erano abitazioni di pescatori, scoprì, scorgendone alcuni intenti al lavoro: immersi nell’acqua fino alla cintola, maneggiavano piccole reti a ventaglio. Le scagliavano lontano con una torsione del busto, poi le recuperavano a poco a poco, trascinandole sul fondo. Dorian non era un esperto in materia di pesca, ma aveva già visto utilizzare quella tecnica altrove, per la cattura di piccoli pesci, gamberetti e crostacei d’acqua dolce.

    Quando si avvicinò alle modeste case dei pescatori, buona parte di costoro si voltarono a fissarlo, interrompendo le proprie attività. Dorian continuò a camminare verso di loro con passo tranquillo, e alzò un braccio in segno di saluto. Due o tre gli risposero, prima di tornare a concentrarsi sulla pesca, rassicurati. Uno di loro però abbandonò la rete e gli venne incontro, scalzo, asciugandosi le mani sui pantaloni arrotolati fino alle ginocchia.

    «Salve, straniero» salutò, mentre copriva la breve distanza che li separava «Cosa ti porta da queste parti?»

    «Pensavo che poteste aiutarmi» rispose Dorian, rivolgendogli un sorriso amichevole.

    «In che modo noi pescatori potremmo esserti d’aiuto? A parte pesce e gamberi, abbiamo ben poco da offrire…»

    «A dire il vero, amico, avete tutto quel che mi serve: una barca, dei remi, e magari qualcuno disposto a condurmi a monte, fino alle paludi.»

    Il pescatore rimase interdetto, arruffandosi i capelli grigi con una mano. Strinse gli occhi, e una miriade di piccole rughe si formarono sul suo volto abbronzato e scavato dal vento.

    «È una strana richiesta, e non credo di volerne conoscere il motivo.»

    «Né io avrei intenzione di rivelartelo» ribatté Dorian, senza smettere di sorridere «Puoi aiutarmi? Sono disposto a pagarti bene.»

    L’altro fece spallucce: «Perché no? La pesca non va troppo bene di questi tempi. E a dirla tutta...» guardò di sghimbescio nella direzione dei soldati «Vorrei stare alla larga da quelle brutte facce per un po’. Oggi siamo quasi venuti alle mani. Si credono padroni delle nostre acque, ma sono dei poveri sciocchi, coi loro ordini e tutto quanto!»

    «Però la barriera servirà a proteggervi da un’invasione, no?» indagò Dorian.

    Il pescatore aprì la bocca guasta in una smorfia.

    «Credimi, non ci interessa in quale regno o principato si trovino le nostre case. Il fiume è il nostro unico signore. È lui che decide se vivremo un altro anno, oppure no.»

    Dorian vide riflesso negli occhi dell’uomo un rispetto reverenziale per il fiume Udan, e credette alle sue parole. Di fronte alla forza senza tempo della natura e ai capricci degli elementi, le ambizioni degli uomini sembravano davvero poca cosa.

    «Dunque vuoi risalire il vecchio Acqua Gialla. Fino a dove? E quando vorresti partire?» continuò il pescatore.

    «Quanto prima» rispose Dorian, ben impressionato dalla sua schietta praticità «Intendo risalirlo fino alla fine. Fino a dove puoi portarmi.»

    «C’è un villaggio, ai confini della grande palude. Ci sono stato una sola volta nella vita. Un postaccio, se dai retta a me. Metà dei criminali e farabutti di queste terre hanno trovato rifugio là, dove la legge non esiste. Ma se proprio vuoi andare a Draslund, dovrai farci una tappa: oltre quel punto, non troverai altri villaggi. Soltanto i cacciatori di pelli si spingono fin dentro agli acquitrini, e anche quella è gente che è meglio evitare, duri e scagliosi come le loro prede…»

    Dorian sorrise a quell’immagine dei Cacciatori. Sorrise meno all’idea di doversi soffermare in un luogo come quello. Se non altro era un punto di partenza: fin dall’inizio aveva saputo che non sarebbe stata una passeggiata.

    «Per me va bene» confermò.

    Si misero d’accordo sul prezzo, che Dorian scelse di pagare in anticipo. Il pescatore sembrava un uomo fidato, e intendeva guadagnarsi fin da subito la sua lealtà.

    «Ottimo!» gioì l’uomo, incapace di nascondere l’allegria di stringere monete di solido metallo tra le dita «Partiamo subito, dammi solo il tempo di preparare la barca.»

    L’attesa di Dorian non fu lunga: sedette sull’erba umida della riva, sbocconcellando un po’ delle sue provviste. Svuotò la mente da ogni pensiero, e lasciò che il lento scorrere delle acque limacciose gli infondesse calma. Poco dopo la barca dalla forma affusolata era pronta per il viaggio, così come il barcaiolo.

    «A proposito, mi chiamo Berial» disse questi, mentre afferrava la mano di Dorian e lo aiutava a salire a bordo. Il guerriero ricambiò col proprio nome, e si sedette al centro dell’imbarcazione, dove gli parve più stabile. Non amava viaggiare sull’acqua, ed ebbe un triste déjà-vu dei lunghi giorni passati sul vascello. Era destino, doveva farci il callo.

    Berial spinse la barca in mezzo al fiume con l’aiuto di una pertica, poi si sedette e impugnò i remi. Dorian si offrì di fare la sua parte, ma si rese presto conto che il pescatore non aveva nessun bisogno di aiuto: le sue braccia erano più forti di quel che sembrava, e la corrente era piuttosto blanda.

    Il paesaggio non cambiò durante le prime ore di lenta avanzata: rive sabbiose ed erba verde smeraldo a perdita d’occhio, da un lato e dall’altro. Poi l’ampiezza del fiume prese a ridursi, man mano che la vegetazione si infittiva sulle sponde. Prima di sera, le piante erano tanto fitte e sviluppate da formare un arco continuo sopra le teste dei due viaggiatori, soltanto di rado baciate dai raggi del sole. In alcuni tratti, cascate di foglie enormi e lucide pendevano dalle fronde fino a sfiorare i loro capelli, accompagnate da fiori carnosi, vivacemente colorati e più grandi della testa di un uomo. L’aria era satura dei canti degli uccelli, del frinire degli insetti, e di mille altri suoni che Dorian non aveva mai udito prima. Stormi di volatili dalle stupefacenti livree facevano la spola da una sponda all’altra, riempiendo gli occhi del guerriero con il loro incanto.

    Nell’espressione di Berial era evidente l’amore per quella terra straripante di bellezza. Il pescatore percepì fin da subito quanto Dorian fosse rimasto folgorato dalla profusione di suoni, colori e profumi che avvolgevano i suoi sensi, e gli rammentò di stare sempre sul chi vive, perché quel paesaggio idilliaco nascondeva più di un’insidia.

    Ne ebbero una prova al calare delle tenebre, quando scese un momentaneo silenzio e i colori attorno a loro cominciarono a fondersi in un’unica massa impenetrabile. Berial affermò che di lì a poco la visibilità sarebbe stata così scarsa da impedir loro di proseguire. Avrebbero dovuto passare la notte in barca, ancorati nel mezzo del fiume: era senza dubbio la scelta più prudente.

    Mentre il pescatore gettava l’ancora, Dorian si sporse dal bordo per allontanare un grosso tronco che galleggiava accanto alla barca. Ma quando lo toccò con la punta delle dita, l’ostacolo cedette mollemente. Il guerriero ritrasse la mano all’istante, e capì con disgusto che non era un tronco, bensì il cadavere di un essere spaventoso.

    Pur sfigurato dalla decomposizione e dai morsi di altri animali, il colossale corpo di rettile testimoniava l’esistenza di creature che Dorian stentava a riconoscere come reali: la forma era simile a quella di un alligatore, ma lunga almeno sei metri, e col cranio irrobustito da più strati di protuberanze ossee.

    «Un jakantor» commentò Berial con un mezzo sorriso «e nemmeno di quelli grossi. Le correnti devono averlo trascinato fin qua dalle paludi. Ti auguro di non incontrarne mai uno vivo, si dice che non abbiano un carattere socievole…»

    Il pescatore spiegò che le fauci membranose e piene di zanne della creatura potevano aprirsi a fisarmonica nelle quattro direzioni, e che erano in grado di inghiottire per intero una preda delle dimensioni di un cervo. Dorian gli credette sulla parola, incapace di distogliere lo sguardo dalle orbite vuote del jakantor, che parevano fissarlo da un altro mondo.

    Nemmeno di quelli grossi…

    Si chiese che altro genere di creatura fosse riuscita a por fine all’esistenza di quel terrificante esemplare. Si chiese cosa avrebbe fatto, se si fosse trovato dinanzi a una belva simile.

    Si chiese se era davvero necessario andare dove stava andando.

    Notò che Berial lo studiava con lo sguardo, scavando nei suoi pensieri, i due occhi ridotti a globi bianchi sullo sfondo nero della notte. La sua debolezza era così evidente?

    Scosse la testa un paio di volte. Ricordò a se stesso perché stava percorrendo quel cammino irto di pericoli: l’Addestratore di Serpenti lo attendeva, e con lui tutte le risposte che cercava. Non poteva esitare adesso, non poteva mettere in gioco i motivi e le speranze che lo spingevano nel cuore di tenebra di Draslund.

    Nel buio, la foresta prese vita coi versi dei suoi innumerevoli abitanti.

    Mangiarono qualcosa, cercando di ignorarli, poi Berial si sdraiò da un lato, sul fondo della barca, e chiuse gli occhi.

    «Buona notte» disse.

    «Lo spero» rispose Dorian.

    Si sdraiò a sua volta, senza false speranze. Quella notte non avrebbe chiuso occhio.

    II - Il Villaggio

    Per tre lunghi giorni la barca di Berial risalì la corrente del fiume Udan, perdendosi nella selva sempre più rigogliosa. I due uomini - probabilmente gli unici nel raggio di molte leghe - non conversavano con frequenza. La natura selvaggia parlava per loro, con l’incredibile varietà di forme di vita che la popolavano: non passava ora senza che Dorian si sorprendesse di fronte a un nuovo tipo di uccello, pesce o pianta, e senza nemmeno dover abbandonare gli stretti confini dell’imbarcazione. Si chiese quale mirabolante spettacolo gli avrebbe offerto la foresta, se vi si fosse addentrato a piedi. Poi ripensò alla carcassa senza vita del jakantor, a tutte le altre creature dall’aspetto poco rassicurante scorte lungo i margini del fiume, e decise che lasciare la barca sarebbe stata una pessima idea.

    A volte Berial gli rivolgeva domande di carattere personale, senza mai ricavarne una risposta del tutto sincera: per qualche ragione, Dorian riteneva meglio nascondere il vero motivo del suo viaggio. Raduan gli avrebbe detto che agiva così perché dentro di sé sapeva che era tutto uno sbaglio, e che era soltanto la sua sciocca ostinazione a spingerlo avanti. Raduan non capiva. Ma ne avrebbero riparlato, quando avesse strappato a Nahash tutte le risposte che gli doveva.

    La sera del terzo giorno la corrente del fiume Udan si indebolì, le sponde si distanziarono, e l’intricata vegetazione si scostò dai margini per lasciare spazio a canneti e arbusti selvatici. Enormi ninfee candide coprivano la superficie dell’acqua, a tratti così vicine l’una all’altra da impedire l’avanzata dell’imbarcazione. Berial dovette far ricorso a tutta la sua abilità coi remi, per aprirsi il cammino tra le gigantesche foglie galleggianti e i loro robusti steli subacquei. Dorian provò un pizzico di ansietà al percepire che si stavano approssimando alla palude, e che perciò la sua meta era vicina.

    «Ci siamo quasi, guerriero» confermò Berial, spingendo con una pertica sul letto fangoso del fiume «Dietro la prossima ansa potrai vedere coi tuoi occhi il fetido villaggio di cui ti ho parlato.»

    Dorian annuì, felice se non altro di poter poggiare i piedi sulla terraferma.

    Da un momento all’altro cominciò a piovere, come aveva fatto sovente in quei giorni: una spessa cortina d’acqua inondò la terra per calmare l’insaziabile sete della foresta. Dorian si coprì meglio che poté, pur sapendo che l’acquazzone non sarebbe durato che pochi minuti. I suoi abiti erano umidi da giorni, in seguito a molte altre piogge violente come quella.

    Berial, che pareva a proprio agio sotto la pioggia, gli rivolse un cenno con la testa grondante. Dorian scrutò avanti lungo il percorso, e dalla parete d’acqua affiorò una forma allungata, protesa da una sponda del fiume verso il centro come un enorme millepiedi. Altre forme simili apparvero alla vista, e ben presto Dorian capì che erano pontili di legno, vecchi e ritorti, che scomparivano nell’entroterra in mezzo a una fitta barriera di canne di bambù.

    «Accidenti!» mormorò Berial, mentre si avvicinavano ai pontili «È ancor peggio di prima. Una volta si vedevano le case, da qui.»

    Dorian allungò il collo verso la terraferma, ma non riuscì a scorgere nulla al di là del canneto. Eppure c’erano numerose imbarcazioni assicurate ai pontili, segno che il villaggio era davvero vicino.

    Berial accostò la barca ad una delle traballanti strutture di legno, e aiutò Dorian a salirvi. Il guerriero impiegò alcuni attimi per ritrovare l’equilibrio sulle gambe malferme, come se il pontile ondeggiasse al ritmo delle acque. Si voltò e tese la mano a Berial, per aiutarlo a salire, ma questi scosse la testa con un sorriso.

    «Ti ho portato fin qui, come volevi» disse «ma non intendo mettere piede in quel villaggio. Non mi piace, e non piacerà neanche a te.»

    Dorian diede una scrollata di spalle: sapevano entrambi che per lui non aveva senso tornare indietro proprio adesso.

    «Come vuoi» sospirò il pescatore, passandosi una mano tra i capelli bagnati.

    La pioggia, rapida com’era venuta, se n’era già andata, restituendo al clima della selva una pesantezza immobile, gravida d’umidità.

    «In ogni caso, ho bisogno di riposarmi» aggiunse Berial «Dormirò in barca, nel mezzo del fiume, come sempre. Se cambi idea, mi troverai qui fino all’alba di domani. Il viaggio di ritorno è molto più veloce, sai.»

    Dorian sorrise, e gli strinse la mano.

    «Ti ringrazio, Berial. Spero che ci rivedremo, un giorno.»

    «Lo spero anch’io, guerriero. Lo spero anch’io.»

    Il pescatore rivolse un ultimo sguardo di biasimo all’invisibile villaggio al di là del canneto, poi afferrò un remo e scostò la barca dal pontile. Dorian l’osservò senza dir nulla, triste di perdere quella buona compagnia. Poi si voltò e si incamminò verso l’interno, misurando ogni passo: le assi di legno putrido gemevano sotto i suoi piedi. Quando si fu lasciato il fiume alle spalle, addentrandosi nel folto del canneto, venne avvolto da un silenzio innaturale. Cominciò a sospettare che la passerella non l’avrebbe condotto in nessun luogo.

    Si sbagliava: scostato dal proprio cammino l’ennesimo fascio di canne invadenti, si trovò ai margini di una spianata acquitrinosa contornata da una cintura di capanne e baracche. Scorse sagome in movimento tra le abitazioni. Dunque in quel posto dimenticato dagli Dei c’era davvero un villaggio, per quanto miserabile.

    Mosse un passo verso le case, e subito una voce lo richiamò. Si girò: un uomo lo stava fissando, appoggiato alla parete di canne. Indossava un corpetto di cuoio consunto e portava al fianco una vecchia spada. Mentre con una mano impugnava una bottiglia, con l’altra stringeva a sé una graziosa e discinta giovane dalla chioma spettinata.

    «Fermo! Chi sei?» lo interrogò l’uomo, infastidito.

    «Un commerciante di pelli» rispose Dorian, aprendo le labbra in un sorriso amichevole «Vengo in cerca dei migliori esemplari…»

    «Come no» lo interruppe l’uomo, squadrando con occhi malevoli la sua stazza e la lunga spada affibbiata alla sua cintura. Sputò per terra. «Se tu sei un commerciante, io sono la figlia di un principe!»

    Dorian fece per protestare, ma l’altro troncò la replica sul nascere:

    «Senti, non mi interessa davvero chi sei o cosa sei venuto a fare al villaggio. Te l’ho chiesto perché mi pagano per farlo. L’importante è che tu non combini guai finché stai qui, oppure Slan te la farà pagare. Sono stato chiaro?»

    Dorian annuì, dubbioso. Avrebbe voluto sapere chi era quello Slan, ma ritenne prudente non mostrarsi curioso. Oltretutto, l’improbabile sentinella continuava a guardarlo con un misto di impazienza e disprezzo, come se non vedesse l’ora di levarselo di torno. Lanciò una rapida occhiata alla ragazza, che sbatté le ciglia e gli fece l’occhiolino. I due non erano fidanzati, poco ma sicuro.

    «E allora, mi hai sentito?» sbraitò la sentinella «Vattene, non vedi che ho da fare?»

    Dorian non se lo fece ripetere. Entrò nella spianata, scuotendo la testa. Inutile preoccuparsi di mascherare la propria identità, finché era al villaggio.

    Stava scendendo la sera, e lo spiazzo era quasi deserto. A giudicare dalla quantità di orme che segnavano il suolo fangoso, quel luogo doveva essere molto frequentato durante il giorno: probabilmente era lì che avvenivano gli scambi tra i commercianti e i cacciatori di pelli. Osservò un gruppetto d’uomini che si allontanava verso l’estremità occidentale dello spiazzo, dove un buon numero di case si addossava alle vecchie mura di una fortezza.

    «Mercanti» pensò Dorian, storcendo il naso di fronte al loro abbigliamento vistoso. Persino in un posto sperduto come quello non rinunciavano ai vezzi del mondo urbano da cui provenivano.

    Passò accanto a tre uomini accovacciati in terra, intenti a riporre pelli di rettile in una sacca. Il loro aspetto lo colpì: dunque era vero quanto aveva sentito dire sulla tribù dei Cacciatori della palude. Erano vestiti - o meglio, coperti da capo a piedi - di spessi ritagli di pelle squamosa cuciti tra loro, delle più svariate tonalità di verde e marrone. Dello stesso materiale erano fatti gli

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