Quattro mele annurche
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Un libro funziona solitamente per immagini. Attraverso l’uso sapiente di tutte quelle componenti grammaticali che fanno la lingua, trasformandola nel potenziale gioiello che in nuce può essere, il lettore si trova confrontato con la forza evocativa della pagina. Il libro di Maria Rosaria Valentini però ha l’ardire di compiere un passo ulteriore, spingendosi ancora più in là, arrivando ad affrontare, quindi sondandoli, sensi solitamente non appartenenti per definizione al mondo letterario. È questa l’impressione conturbante, in grado di spostare l’importanza del narrato, che si ha leggendo alcune delle folgoranti pagine di Quattro mele annurche; non è tanto la sconcertante e per certi versi ingiustificata storia d’amore fra i genitori dell’io narrante a tenere incollato il lettore alla pagina, quanto piuttosto il trait d’union che lega i due, fatto di polpa di pomodoro, di pentoloni in ebollizione, di fragranze che invadono la casa, seguite da vasetti, conserve e bottiglie stipati e depositati dappertutto. Si muove attonita, stupita la piccola protagonista, consapevole di essere esclusa da un amore fatto prima di ogni cosa di polpa, di sughi e di ragù.
Da qui il passaggio brusco e brutale a una seconda parte del libro, che vede, dopo la morte degli attori che erano in grado di evocare quei sensi, la protagonista maltrattare se stessa e il proprio corpo, come se, senza la presenza di quell’amore in terra, nemmeno lei avesse più senso di esistere. Il recupero, finale, dettato dalla semplicità, dall’inaspettato, non cancellerà con un colpo di spugna quella che è l’anima, la polpa, della protagonista, ma le darà un senso nuovo, fatto di pacatezza e di una felicità sobria e misurata, rappresentata dal dono di sapersi accontentare del necessario, in una dignità dell’anima e del corpo dal sapore raro.
“Simona Sala”
Maria Rosaria Valentini
Maria Rosaria Valentini nasce a S. Biagio Saracinisco (Frosinone) nel 1963. Si laurea in germanistica presso l’università La Sapienza di Roma. Vive in Svizzera dal 1989. Segnalata nel 2003 al premio Schiller ha all’attivo diverse pubblicazioni. Per la Gabriele Capelli Editore ha pubblicato “Quattro mele annurche” (prima edizione, 2005, seconda edizione 2010), “Di armadilli e charango...” (2008). Nel 2009 le viene attribuito il premio europeo di narrativa ““Giustino Ferri – David Herbert Lawrence”.
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Quattro mele annurche - Maria Rosaria Valentini
Scorza
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Era lunedì, mio padre fu portato in ospedale da un’ambulanza.
Morì pochi giorni dopo.
Avevo tredici anni e gli somigliavo come una goccia d’acqua, anche nella voce, sebbene io fossi solo una bambina. Possedevo addirittura il suo stesso frasario.
Mi ricordo tutto di lui poiché molte volte avevo contato le sue rughe. Mio padre parlava spesso da solo, per conto suo.
Si appoggiava alla ringhiera del balcone, quello che dava sulla piazza, e cominciava a raccontare di sé, a disquisire sulla sua vita e sulle pieghe che essa aveva preso.
Cominciava sempre col dire:
"Dio Santo, mi hanno chiamato Augusto, non so perché. Non sono imperatore, ma macellaio."
Seguiva puntuale una pausa di qualche minuto, poi riprendeva:
"Mi piace scarnificare e tornire. Lavoro la carne e la scolpisco come se fosse quarzo rosa. Non chiedetemi, però, di uccidere un animale: non avrei il coraggio di guardarlo negli occhi. Come si può abbattere la potenza di un toro? Come si fa a sfidare un cavallo che fiuta la morte?
Dio Santo, certe volte mi domando cosa ci faccia io sulla terra, ma non trovo una risposta: ci sto e basta. Certe volte mi prende una tristezza che mi soffoca, mi stringe al collo, mi morde lo sterno. Quasi non ce la faccio a respirare, allora mi trascino in cucina, prendo uno spicchio d’aglio, lo schiaccio tra indice e pollice e pian piano mi calmo. Sì, Dio Santo, io così mi calmo.
In una padella lascio soffriggere l’olio d’oliva mentre con una mano ci butto quattro pomodori maturi insieme ad un’acciuga che lentamente si disfa e scompare.
In cucina trovo la pace che altrove mi manca.
Lì il tempo ha un suo ritmo: lento, ma gravido. Allora l’attesa si fa giusta ed ogni gesto trasmigra in una danza operosa.
Succhio la mia vita mentre annuso l’origano o guardo i capperi raccolti, uno accanto all’altro, in un barattolo bianco, con il sale che li bacia.
I fiori di zucca, da poco recisi, galleggiano aperti in una vasca con gli umidi stami scossi da un brivido.
I peperoni, rossi e croccanti, se ne stanno in ordinata fila, su di uno strofinaccio di canapa gialla. La vecchia rubinetteria, lungo un rigagnolo, libera un insolente tintinnio. Gli intrecci in vimini di un logoro cestino raccolgono le uova di quattro galline generose e puntuali. Giro su di me, seguo le fiammelle del gas, decido, infine, di scegliere una direzione. Sollevo dunque il coperchio della madia ed infilo interamente le braccia nei sacchi di farina: così cado in un molle abbandono. Mi siedo poi, ad occhi chiusi, a capotavola e cerco, a tentoni, la bottiglia dell’aceto. La riconosco, tastandola poco, ne verso alcune gocce in una ciotola di terracotta. Mi si aprono le narici e bevo piano quell’acuta ambrosia che sempre conserva in sé una madre.
Intanto un moscone si batte ronzando tra il vetro tremante della finestra e la fitta rete della tenda sintetica. In un vaso il basilico ed il rosmarino crescono l’uno sulla spalla dell’altro, separati dal timo che, di poco distante, ostenta la sua delicata bellezza in una latta.
La crassula, sbigottita, mi fissa con le sue foglie di verde carne.
Ogni sapore mi piace come pure ogni sorta d’odore.
Sulle papille si imprime la storia di ogni uomo, come in una camera oscura.
Ad esempio, un pollo stracotto che si separa dall’osso prestandosi alla forchetta con la docilità di un soufflé mi offre un’incomparabile serenità, seppur fugace, poiché solo così posso tornare in luoghi che non esistono più.
In egual maniera m’incanta e rapisce l’odore dei fagiolini verdi trasferiti, nel fumo, dal fermento dell’acqua bollente alla tranquillità del piatto di portata.
Talvolta m’invaghisco perfino di una crosta di pane che, nel