Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Lascia che sia io i tuoi occhi
Lascia che sia io i tuoi occhi
Lascia che sia io i tuoi occhi
Ebook307 pages5 hours

Lascia che sia io i tuoi occhi

Rating: 5 out of 5 stars

5/5

()

Read preview

About this ebook

Mary Capoluongo è un’adolescente italo-america che vive a Boulder (Colorado) durante “l’invasione hippy” del 1969 con il padre, muratore alcolizzato, la pia madre, l’angosciato fratello maggiore Nino e due indisciplinati fratelli minori. Mary, costretta a convivere con l’inquietudine del padre e con l’irrazionale possessività di Nino, che suggestionano gli umori dell’intera famiglia, è differente dagli altri Capoluongo e dalle altre famiglie wop (definizione degli emigrati italiani) di Boulder. La dolcezza che l’accompagna e la contraddistingue verrà ricompensata solo durante l’abituale commissione all’emporio alimentare, quando incontrerà Johnny, il figlio hippie del negoziante, costretto a ripararsi a Boulder a causa dei disordini avvenuti tra manifestanti anti-Vietnam e forze dell’ordine ai quali ha preso parte. Quest'incontro sposterà la direzione della sua vita, fino a quel momento ripetitiva e oppressiva, grazie all'intraprendenza del seducente Johnny che infine la metterà di fronte a una difficile decisione. Dopo i precedenti romanzi In tutti i respiri che ti ho preso e Mai amato abbastanza, Alessio Biagi suggella il proprio talento immergendo il lettore in un’altra avventura straordinaria, appassionata, coinvolgente, fuori del tempo e ricca di colpi di scena. Una poesia in prosa che, come d’abitudine nei romanzi di Biagi, coinvolgerà il lettore fino all’ultima parola.

LanguageItaliano
Release dateAug 28, 2012
ISBN9788897268802
Lascia che sia io i tuoi occhi
Author

Alessio Biagi

Alessio Biagi è nato nel 1980 a Massa dove vive e lavora. Cresciuto con la passione della poesia, si è dedicato alla narrativa dopo il fortunato incontro con lo scrittore fiorentino Marco Vichi. Nell’ottobre 2006 ha pubblicato, per la casa editrice Pensa, un primo racconto nell’antologia La città che narra ed un secondo, contenuto nell’antologia La legge del desiderio a cura di Giulio Milani, presso la casa editrice Transeuropa. In tutti i respiri che ti ho preso è il suo primo romanzo.Alessio Biagi was born in Massa in 1980 where he lives and works. He grew up with a passion for poetry and devoted himself to writing fiction after the successful meeting with the Florentine writer Marco Vichi. In March 2009 he published the novel “In all breaths i've taken” for the Meligrana Giuseppe Editore Publishing House, the novel “Never loved enough” in December 2010, the novel "Let me be your eyes" in July 2012 and the last "Take everything I have" in november 2013.

Read more from Alessio Biagi

Related to Lascia che sia io i tuoi occhi

Related ebooks

Classics For You

View More

Related articles

Reviews for Lascia che sia io i tuoi occhi

Rating: 5 out of 5 stars
5/5

1 rating0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Lascia che sia io i tuoi occhi - Alessio Biagi

    romanzo

    Alessio Biagi

    Published by Giuseppe Meligrana Editore at Smashwords

    Copyright Meligrana Editore, 2012

    Copyright Alessio Biagi, 2012

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788897268802

    Foto di Copertina

    Copyright Giselda Biagini

    www.giseldabiagini.com

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

    Segui la Meligrana su:

    Facebook

    Twitter

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Alessio Biagi

    LASCIA CHE SIA IO I TUOI OCCHI

    Dedica

    romanzo

    Ringraziamenti

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Alessio Biagi

    Alessio Biagi è nato nel 1980 a Massa dove vive e lavora. Cresciuto con la passione della poesia, si è dedicato alla narrativa dopo il fortunato incontro con lo scrittore fiorentino Marco Vichi. Nell’ottobre 2006 ha pubblicato, per la casa editrice Pensa, un primo racconto nell’antologia La città che narra ed un secondo, contenuto nell’antologia La legge del desiderio a cura di Giulio Milani, presso la casa editrice Transeuropa. Per la Meligrana ha pubblicato: In tutti i respiri che ti ho preso (2009 - brossura/ebook); Mai amato abbastanza (2010 - brossura/ebook/app); Lascia che sia io i tuoi occhi (2012 - brossura/ebook).

    Contattalo:

    biagi.alessio@libero.it

    Seguilo su:

    Facebook

    o su

    www.alessiobiagi.com

    L’ho scritto per Te.

    «Quindi ti guardo ti guardo perché mi pare

    dannazione – di non averlo fatto mai.»

    Pier Vittorio Tondelli

    «La vita ci spezza tutti. Solo alcuni diventano

    più forti nei punti in cui si sono spezzati.»

    Ernest Hemingway

    1.

    Maria dischiuse lentamente gli occhi svegliata dal ciottolare che proveniva dalla cucina. Rimase distesa sul fianco, un momento, assaporando quella tranquillità che le sarebbe mancata per il resto della giornata, fino a quando su quel letto si sarebbe nuovamente coricata sfiancata di lavoro, malinconia e frustrazione.

    Traslocò i capelli schiacciati tra la testa e il cuscino, seminandoli ovunque per il letto. Lunghi e arruffati come un pagliericcio, robusti e grevi come una coperta di lana cucita sulla nuca. Scuri come il fondo di una miniera.

    Si asciugò gli occhi con le piccole dita delle mani, con le piccole falangi. Strofinò quel delizioso viso con i piccoli palmi, asciugò le narici umide del naso strizzandolo un paio di volte tra i polpastrelli del pollice e dell’indice. Fra non molto quelle dita fragranti, si sarebbero insudiciate di fuliggine e le si sarebbero lordate le unghie.

    Ansimò a quel pensiero mettendosi supina, fissando lo sguardo sul soffitto ligneo della sua camera da letto piluccato dalle tarme, madido e leggermente convesso. Fece passare una mano sul seno fiorente e tumido, poi sul sesso rovente come la stufa sulla quale la madre, nell’altra stanza, aveva messo a scaldare l’enorme tegame di latte per tutta la famiglia.

    Un lieve riverbero faceva capolino dalle imposte di quell’unica finestra che affacciava sul retro della casa, sul giardino e sullo steccato marcito per l’incuria di suo padre che ogni volta prometteva di metterlo a posto e poi niente.

    Il conciliante tepore delle lenzuola, disposte una sull’altra per livelli di consistenza, le rammolliva i muscoli, la impigriva mentre con le dita della mano s’inoltrava licenziosa sotto le mutande, tra i crini forti e la carne morbida della sua vulva appiccicosa di un’assonnata vischiosità.

    Maria la carezzava delicatamente, facendosi strada con il dito medio tra le grandi labbra, realizzando minuscoli giri concentrici attorno alla clitoride.

    Bruciava Maria sotto la trapunta, con fiammate potenti sprigionate dal basso ventre arroventato come la lama di una spada appena levata dal braciere.

    Bruciava Maria dentro quell’inferno cocente di smania e perversione noncurante del crocifisso inchiodato alla parete sopra la testata del letto, noncurante delle ammonizioni di Suor Clara, degli angeli fluttuanti nel cielo e delle anime dei nonni ancora in giro per casa. Noncurante del rosario dimenticato sul comodino, dei santini della Sacra Vergine Maria infilati nelle tasche dei suoi indumenti e seminati dalla madre un po’ ovunque per casa.

    Bruciava Maria contorcendosi come una biscia in calore, con lo stovigliare proveniente dalla cucina che copriva i mugolii stritolati tra i denti.

    Bruciava Maria come quel pomeriggio del nove maggio di quasi diciassette anni prima, quando venne al mondo sanguinante, squamata, vischiosa e schiamazzante nella città di Boulder, nella contea di Boulder nello Stato del Colorado.

    «Mary!» chiamò la madre. «Mary!».

    Maria schiuse gli occhi bloccando la mano che ancora si affaccendava tra le cosce inumidite. Si strusse, desiderando ancora un po’ di tregua, ma infine spostò il carico di coperte scendendo stancamente dal letto.

    Il pavimento era gelido sotto le piante dei suoi piccoli piedi che ci s’incollarono come ventose. Fredde erano anche le pareti e l’aria nella stanza e gli oggetti ibernati dalle temperature rigide dell’inverno di Boulder. Si serrò nelle braccia tiepide, cercando i vestiti. Infilò i calzettoni di lana cuciti a maglia da lei stessa tirandoli sulle gambe fin sopra le piccole ginocchia deliziose come cocci di noci. Indossò un maglione di suo padre, con bottoni spaiati per colore e grandezza. Calzò i vecchi scarponi senza allacciare le stringhe che dondolarono mentre raggiunse la madre già indaffarata in cucina.

    «Eccola finalmente!» la rimproverò con tono greve «Vai a prendere il carbone. Tuo padre s’alzerà tra poco e la casa è una ghiacciaia.».

    Maria era diretta alla porta d’ingresso e sua madre ancora la rimbrottava mentre presagiva che oltre quell’uscio cigolante e tremolante sui cardini, avrebbe avuto il primo desiderato momento di quiete.

    Il gelo la ferì come una tagliola catturandole il viso ancora tiepido. La mattina di Boulder era appena schizzata di un giallo paglierino al di là dei picchi innevati dei monti Flatirons. Quel tenue riverbero la costrinse a coprirsi gli occhi con entrambe le mani. Il prato dei Capoluongo, come tutta la Boulder Valley, era coperto da mezzo metro di neve compatta, caduta copiosa come ogni notte di fine gennaio. Maria dovette farsi forza per oltrepassare quelle dune di ghiaccio raggiungendo il capanno nell’angolo ovest del suo giardino, raccogliere i secchi e poi colmarli di carbone per la stufa di casa.

    La neve era dappertutto: sui tetti delle case, sulle foglie degli alberi, sudicia ai margini della strada e persino dentro gli scarponi di Maria, dentro le sue calze. Ascoltando il rumore del piede che vi si conficcava fino al polpaccio, Maria Capoluongo, diciassette anni ancora da compiere, rideva a fior di labbra. La neve stava nei suoi ricordi divertenti, nei fantocci dalle braccia di legno e piccoli bottoni al posto degli occhi.

    Dovette spalarne un bel mucchio, tutta quella che ostruiva l’ingresso al capanno degli attrezzi, usando soltanto le sue piccole mani già arrossate dal gelo. Quando con la punta delle dita esercitò una leggera pressione sulla porta, ebbe la spiacevole sensazione che si rompessero. Congiunse le mani a cilindro soffiandoci all’interno alito tiepido che condensò in una nuvoletta di sofficità. Afferrò i secchi per i manici avvicinandoli al sacco, c’infilò una mano dentro e abbrancato il primo pezzo di carbone avvertì quella fastidiosa sensazione di fuliggine sul palmo e sulle dita. Inorridì ma andò avanti nel riempire i secchi e infine attraversare nuovamente quella spiaggia lattescente, ripercorrendo fino alla veranda lo stesso sentiero creato con i passi dell’andata.

    «Santoddio!» berciò suo padre da dentro casa. Maria s’immobilizzò sulla soglia d’ingresso. «Mi volete ammazzare di freddo?».

    La madre non rispose affaccendata a rassettare la tavola della cucina.

    «Dove diavolo è Mary?» aggiunse sedendosi. In piedi sulla veranda Maria prendeva tempo. I manici dei secchi ricolmi di carbone le segavano l’attaccatura delle dita, ma il dolore più forte era nel petto: la consapevolezza di cosa l’aspettasse.

    «Mary!» gridò suo padre picchiando il pugno sulla tavola. Maria sussultò serrando gli occhi, gonfiando il petto dopo di che aprì la porta irrompendo nella casa con il fresco e con quella bellezza furiosa identica alla tormenta che s’era scatenata in nottata.

    Consegnò un rapido sguardo al padre, immobile sulla sedia con quelle pupille avvizzite, acini d’uva ubriachi. Sistemò i secchi accanto alla stufa. Attraversò di nuovo la stanza per andarsi a lavare le mani lerce quando lui la afferrò per un braccio, bloccandola.

    «Hai intenzione di uccidermi?» disse. Maria non rispose tenendo gli occhi fissi sulle dita sudice. La mano di lui stretta sull’avambraccio come un cappio. Peli sulle nocche, artigli al posto delle unghie. Polso massiccio da muratore italiano, accento impreciso da emigrato, tono elastico da beone quale era diventato.

    «Ti devo raddrizzare quella schiena storta, figlia mia, altrimenti non imparerai mai.».

    Maria immobile tentò di guidare l’immaginazione oltre le pareti prefabbricate di casa, più in là dello steccato sciancato, oltrepassando la Boulder Valley, i Flatirons, le montagne rocciose e lo stato del Colorado. Spostò il pensiero dall’altra parte di quello che conosceva: oltre il picco di Longs Peak, dei canyon di pietra rossa, delle foreste di conifere, delle vette innevate dei monti San Juan a sud ovest e ancora più in alto e distante, fino a fonderli con la luce.

    «Sveglia i tuoi fratelli e prepara loro la colazione!» concluse il padre allentandole la stretta sul braccio. Maria uscì dalla stanza con il terrore che ancora la rendeva traballante sulle caviglie. Quell’uomo le incasinava le vene. Angelo Capoluongo, violento e saturnino, spesso allungava le mani per ogni cosa da nulla sui figli, tranne ovviamente il primogenito Nino, oramai un uomo, oramai un complice e suo compare.

    Maria entrò in camera dei fratelli spingendo la porta socchiusa con la punta dello scarpone. La stanza era un contenitore di fragranze diverse: aria rafferma irrancidita da sudore e flatulenze varie.

    «Sveglia! È ora di alzarsi» disse ma nessuno si mosse; un insetto avrebbe ottenuto più considerazione. Come ogni mattina quando i suoi ordini venivano ignorati, sedette sul letto di Alberto che dormiva saporitamente con un braccio ruotato dietro la nuca. Infilò il viso tra la guancia e il bicipite del fratello, dentro quel catino naturale, lasciando che i capelli si abbattessero sul viso sonnacchioso del più piccolo dei Capoluongo.

    «Mary!» biascicò lui rimuovendo quel telone bruno che gli solleticava il nasino. Maria roteò il viso creando un’incavatura nel cuscino con la punta del naso.

    «Sveglia, sveglia!» bisbigliò soffiando dalle narici all’interno delle orecchie di Alberto, che prima protestò contrariato ma in seguito sorrise divertito. D’altra parte Maria era come una scatola di caramelle: impossibile non imbrodolarsi con tutta quella dolcezza. Alberto squittì e Maria insistette nel stuzzicarlo.

    «Fatela finita voi due!» grugnì Nino, rovesciatosi sul bordo del letto. Chioma arruffata, occhi ampollosi. Maria gli rivolse uno sguardo inoffensivo.

    «Cristosantissimo!» aggiunse arrochito sollevando le coperte. Maria si rabbuiò accennando a Alberto:

    «Sveglia Domenico e venite a fare colazione.», dopodiché aggiunse per Nino un amorevole "Buongiorno" abbozzandogli pure un sorriso, ma affaccendato nell’indossare i pantaloni, Nino le rivolse soltanto uno sguardo insonnolito, trasfigurato da una bocca ancora impastata e quel suo broncio spietato, eternamente risentito col mondo. Maria conosceva benissimo la ragione di quel caratteraccio, ma restò pur sempre innamorata di quel fratello che da bambino l’aiutava ad arrampicarsi, le puliva le ginocchia impolverate o le baciava i gomiti sbucciati e le prendeva la mano passeggiando per Boulder. Con l’uomo che adesso s’abbottonava la camicia sul torace d’acciaio, temprato dalla stagione fredda o dal solleone, educato al lavoro fin dall’adolescenza, non aveva più dimestichezza e quando Nino le scivolò di fianco uscendo dalla stanza, Maria provò un palpito e avversione.

    «Mary!» abbaiò suo padre dalla cucina, furibondo. «Santiddio!».

    Alberto fuggì via spaventato, Domenico saltò rapido giù dal letto come pizzicato da un calabrone, correndo fuori dalla stanza senza nemmeno accorgersi della presenza della sorella.

    Maria andò a spalancare i battenti e le persiane per arieggiare la stanza, consegnandosi a braccia spalancate al polare gennaio del Colorado. Nevicava.

    «Mary!».

    Acqua ghiacciata e cristallina che raggiungeva il terreno senza fondersi. Una spolverata di neve finissima che stava rivestendo la crosta di ghiaccio foggiata dal vento denominata "gragnola".

    «Mary, dannato-quel-cane!» sproloquiò di nuovo suo padre dalla cucina. Al contrario della figlia detestava la stagione invernale: "Niente sole, niente lavoro brontolava ad ogni nuova nevata. Per colpa di quei racconti sui cercatori d’oro nonno Michele scelse di vivere nel gelido Colorado, più precisamente Boulder, ma ben presto abbandonò quel sogno di facili fortune arrangiandosi a lavorare come spazzacamino, minatore, cottimista, nonostante nella borgata Toscana dove si trasferì dall’Abruzzo fosse riconosciuto come esperto muratore, il migliore. Suo figlio Angelo invece fu ostinato e irremovibile. S’era unito in matrimonio con un’italiana, una mangiapolenta come lui, una Spaghettifresser" e non si era mai umiliato a lavorare come sterratore, contadino, spaccapietre. Nient’altro che non fosse il lavoro di muratore, malgrado il Colorado, con quelle sue prolungate stagioni fredde, non fosse esattamente il luogo ideale per quel mestiere e di frequente fosse costretto a lunghi periodi d’inattività.

    Ma quelle migliaia di cristalli di ghiaccio precipitati sulla contea di Boulder, si stesero sulle considerazioni di Maria, addolcendola.

    «Porco-cane-infame!» smoccolò in italiano suo padre aggredendola con enormi mani nodose, scaraventandola a terra. «Stupida demente!» vociò in italiano «Muoviti, porco-cane!».

    Maria si rialzò indolenzita, raggiungendo i fratelli e la madre che, appena l’ebbe a tiro di sguardo, la divorò con gli occhi.

    «Ho la figlia più cretina del Colorado!» dichiarò suo padre sedendosi a tavola «Se ne stava alla finestra fissando il nulla. Si può essere più stupidi?».

    Maria bevve mortificata il suo bicchiere di latte tiepido. Alberto fuggevole le toccò la mano da sotto la tavola. Domenico la osservò amorevolmente. Nino triturò coi denti la crosta del pane raffermo gocciolante del latte nel quale lo aveva affogato, non prendendo in considerazione né l’umiliazione di Maria, né gli improperi del padre. La madre s’accomodò per ultima, rivolgendosi a Dio prima di consumare quella misera colazione mentre Maria, rialzando gli occhi su lei, si domandò per quale motivo lo ringraziasse.

    2.

    Domenico e Alberto, vestiti e imbottiti ben bene, uscirono per andare a scuola. Nino con un’espressione crucciata, sempre la medesima, spalò la neve dal vialetto e ripulì la station wagon col loro padre che annaspava anchilosato sulle giunture, mentre Nino al contrario operava gagliardo, stringendo tra le mani la vanga come una fiaccola olimpica. Infine salirono sull’auto che si mise in moto gorgheggiando e uscendo dalla proprietà in retromarcia, sferragliarono in direzione di Boulder dove avevano ottenuto un modesto incarico di ristrutturazione.

    La prima mansione di Maria, come ogni sacrosanta mattina, fu quella di rassettare i letti di tutta la famiglia, mentre la madre riordinava la cucina. Cominciò come sempre dal letto dei genitori. Il lato dove dormiva suo padre era sempre più sudicio rispetto all’altro, con quell’aroma penetrante da purosangue italiano. Aperta sul cuscino c’era la consueta pezzuola, rosata e vischiosa di sangue e saliva che gli colavano dalla bocca durante la notte. Maria la appallottolò in tasca con la solita ripugnanza, ringraziando i beati angeli del paradiso di non dover essere lei a lavarla.

    Quando entrò in camera dei fratelli, la stanza era piacevolmente fredda, disinfettata dalla corrente entrata dalla finestra. Sistemò il letto di Domenico, poi quello di Alberto e infine quello di Nino. Quando sgrovigliò le lenzuola le salì nel naso la fragranza energica del corpo di suo fratello. Afferrò il cuscino per scuoterlo ma automaticamente lo avvicinò al viso, aspirando con bramosia, dilatando all’inverosimile le piccole narici. Lo abbracciò premendoselo addosso come fosse il suo torace, chiudendo gli occhi e fantasticando sulle braccia valorose di suo fratello legate attorno alle spalle, le dita tra i suoi capelli, il palmo della mano sulla sua nuca calda di amore fraterno che non riceveva da tempo immemore.

    «Mary! Cosa stai facendo?» sbottò la madre immobile sulla soglia della camera da letto. Maria si riebbe sussultando con le spalle, poi arrossì avvampando le guance come lampadine e tornando immediatamente a rassettare il letto di Nino. La madre la osservò con disapprovazione, portando in alto gli occhi e implorando un miracolo a Santa Lucia.

    Il pavimento sul quale Maria stava carponi, effondeva il solito odoraccio di detergente. Lei lo inspirava, tentando di candeggiare una macchia d’unto, risucchiando il muco che le colava dalle narici arrossite. La madre prona sulla tavola, metteva a punto un elenco di commissioni da farle svolgere, e Maria aspettava impaziente il momento in cui si sarebbe di nuovo regalata all’inverno di Boulder.

    I polpastrelli aggrinziti, imbevuti d’acqua e candeggina, affondavano nello straccio col quale Maria tentava con vigoria di pulire il pavimento impataccato.

    «Mary!» chiamò la madre e subito la raggiunse dissimulando un’euforia che già le pungolava lo stomaco. La madre controllò nuovamente la lista facendo mente locale, dopodiché la consegnò nelle mani smaniose della figlia per poi contare i pochi dollari avanzati nel portafoglio sguarnito.

    Maria intanto corse in bagno, tirò via il maglione, la camicia da notte rimanendo a torso nudo, con i capezzoli turgidi che miravano alla specchiera del bagno.

    Nell’impazienza non si curò della meraviglia del suo corpo nudo, abbigliato solo con un paio di calzettoni allungati sulle ginocchia e dalle mutande pesanti. La carne livida e crespata, i seni ampollosi appesi al petto come piccoli catini, i lunghi capelli d’un nero intenso che Maria legò con un nastro, lasciando che soltanto due ciocche le cadessero sui lati del viso per incorniciarlo come un sipario aperto su di un meraviglioso palcoscenico.

    Insaponò e sciacquò le ascelle con saponetta e acqua fredda, lavò il viso, i denti, il sesso e avvolgendosi dentro un asciugamano filò in camera per vestirsi. La madre intanto contava una ad una le monete sul tavolo della cucina, approssimando a mente un probabile totale per uova, farina, pane, latte ecc. Maria si ripresentò indossando sciarpa, cappello, guanti di lana e un cappotto della madre smesso e fuori moda.

    «Pronta!» disse sventolando il foglietto delle commissioni. La madre la covò con gli occhi, ammirata, perché nonostante il copricapo le cadesse sugli occhi, Maria era incantevole. Goffa certamente in quegli stracci fuori misura, ma splendida perché nessun cappotto logoro o scarpone scalcagnato avrebbe potuto manomettere quel fatto. Infilò i dollari nella tasca esterna del cappotto e Maria istintivamente si chinò a baciarla, dopodiché corse in strada lasciandola affondare in un brodoso bagno d’amore.

    Una strada spolverata e alabastrina con alti cumuli di neve sistemati ai margini, separava casa Capoluongo dal centro di Boulder. Alcune miglia che Maria compiva di buon grado, sia durante le estati calde e afose a quaranta gradi o come in quel mattino, pestando gli scarponi sul ghiaccio secco dei marciapiedi della Iris Avenue fino alla principale Broadway Street.

    I Flatirions si ergevano biancheggiati mentre le macchine passando sull’asfalto fradicio producevano lo stesso scroscio di un foglio di carta strappato. Maria infagottata procedeva sveltamente in direzione di Boulder, eccitata dalla prospettiva di poter incontrare qualche vecchio amico di scuola, di catechismo o magari proprio lui: Jack. I suoi piccoli piedi tritavano il sottile strato di ghiaccio che ricopriva il marciapiede che costeggiava la Broadway Street. Cappello sulla testa,

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1