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Il dado e la mappa di vetro
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Il dado e la mappa di vetro

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“Il dado e la mappa di vetro” (seconda edizione ©2012-2020) - Quando l’anziano Sir Blick fa riavviare la macchina Enigma per decifrare un messaggio che il protagonista di questo romanzo gli recapita personalmente, portandoglielo tra le austere mura del Bletchley Park Museum, pensa trattarsi di una delle solite comunicazioni che i sottomarini U-Boot scambiavano con i comandi nazisti durante la seconda guerra mondiale. Non è così: quelle parole portano molto lontano, là dove è stato nascosto il destino del mondo.

Il cerchio si chiude. Mentre riaffiorano eventi antichissimi, in una sorta di ping-pong tra l’America Latina, l’Europa e l’Asia, si intrecciano vicende del tutto impermeabili ai fatti e ai secoli trascorsi e che anzi acquistano proprio per questo un significato importante: tutto è rimasto così nascosto e indecifrato fino a oggi, perché solo adesso chi vuole può capire...

Lasciati abbracciare dall'avventura, dall'amicizia e dall'amore. “Il dado e la mappa di vetro” è il biglietto per un viaggio emozionante e se deciderai di intraprenderlo ti porterà in uno dei più bei “posti” del mondo: la tua anima romantica.

Sulle pagine web dell’autore, il booktrailer del romanzo:
cristianodeliberato.it
facebook.com/cristianodeliberato

LanguageItaliano
Release dateOct 18, 2012
ISBN9781301157716
Il dado e la mappa di vetro
Author

Cristiano De Liberato

Cristiano De Liberato,nasce a Milano nel 1960. Con un gruppo di amici, nel 1976, fonda una delle prime radio private milanesi. Nel 1981 inizia a lavorare come progettista elettronico.Nel 2006 scrive il suo primo racconto “Effetto Jenner”, in cui gli avvenimenti dell’11 settembre 2001 diventano lo spunto per un thriller spionistico.Nel 2008 realizza “L’incantesimo dell’ultima fata”: coinvolgendo vecchie conoscenze dell’esperienza radiofonica, ne ottiene anche la versione in audiolibro, recitata ed in musica.Il suo primo romanzo d'avventura è: “Il dado e la mappa di vetro”, pubblicato nel 2012 in formato cartaceo e in versione ebook (Booktrailer del romanzo disponibile sulla pagina Facebook dell'autore)."Ritratto di famiglia", è il thriller novità del 2013: visita www.ritrattodifamiglia.com per informazioni e visionare il trailer.Febbraio 2013: dopo un anno di lavoro è stato pubblicato il romanzo thriller “RDF | Ritratto di famiglia“. La novità più eclatante è, per la versione cartacea, la sinergia tra Cristiano e l’editore, Giorgio Tarantola, il quale ha creduto in lui, aiutandolo nella realizzazione editoriale del progetto. Da ciò due vantaggi: un prodotto qualitativamente ineccepibile e, cosa non meno importante, un sensibile abbattimento dei costi di realizzo, trasferendosi così al lettore in un vantaggio concreto. Anche per questo romanzo è stato prodotto un booktrailer, visibile sul blog dell'autore o sulle pagine espressamente dedicate a Ritratto di famiglia.Con “RDF | Ritratto di famiglia” inizia una sorta di trilogia caratterizzata dalla presenza dell’acronimo del titolo come elemento di distinzione tra i lavori.A febbraio 2014 viene pubblicato “92“, trasposizione cartacea della storia di RVB, Radio Villa Briantea, già presentata a puntate sul blog. La versione elettronica (eBook) di “92” è completamente gratuita.Nel 2016 verrà pubblicato il thriller “631 | sei occhi, tre prospettive, un posto vuoto“.In realtà il romanzo, che è il secondo volume della “trilogia degli acronimi“, è stato completato nel febbraio del 2015 ma, a causa di un inaspettato e assai gradito riscontro da parte di “qualcuno”, si è ritenuto doveroso posticiparne l’uscita. L’attesa, comunque, sta finalmente per terminare! Per le ultime notizie si può sfogliare il blog o collegarsi al sito web appositamente creato per 631: www.seitreuno.com###Cristiano De Liberato,nació en 1960 en Milán donde todavía vive y trabaja. En 1976 es uno de los fundadores de una de las primeras radio privadas de Milán. Efecto Jenner es su primera novela, escrita en 2006, donde la tragedia del 11 de septiembre fue la inspiración para un thriller de espionaje. En 2008 realiza L'incatesimo dell'ultima fata, fábula metropolitana fuertemente deseada y obtenida, también, en versión audio-libro.En 2012 pública su primera novela de aventura: Il dado e la mappa di vetro

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    Il dado e la mappa di vetro - Cristiano De Liberato

    Nota dell’autore

    Ho sempre ascoltato musica credendo fosse un mezzo straordinario in grado di riprodurre emozioni. Forse per questo ho spesso cercato di sceglierla in modo che calzasse perfettamente con gli stati d’animo che alternandosi, e a volte sovrapponendosi nei momenti dell’esistenza, ti fanno sembrare il tuo vissuto, o quello che stai vivendo in un determinato istante, come una storia in cui veramente sei un protagonista e mai un semplice spettatore. Questa convinzione mi ha stimolato ad associare alle storie passate, presenti e perché no, anche a quelle solo immaginate, ma comunque fortemente desiderate, particolari colonne sonore che le hanno a mio parere, così bene completate.

    Continuando con la lettura si incontreranno pagine in cui un simbolo musicale ♫ precederà testi di canzoni.

    Mi è sembrato il modo più naturale e immediato per rendere partecipe il lettore delle emozioni, almeno questa è la mia speranza, quelle stesse emozioni che ho provato scrivendo, cioè raccontando di fatti che prescindendo dalla loro corrispondenza alla realtà accaduta o solo generati da una esuberante fantasia, dovrebbero ricreare un’atmosfera particolare, la stessa che si è creata in me quando li ho scritti. Una sommatoria di sensazioni che ognuno dovrebbe elaborare nei modi e nell’intensità che gli sono proprie.

    Per i più curiosi, che non solo vorranno associare un testo a pagine del racconto, ma anche una melodia, ascoltandola mentre si legge un particolare capitolo, ho inserito a fondo del volume, negli approfondimenti, un elenco dei brani musicali, con riferimenti per poterli recuperare agevolmente.

    Cristiano De Liberato

    Il dado e la

    mappa di vetro

    Dubium sapientiae initium

    Il dubbio è l’inizio della sapienza

    (Cartesio)

    Prologo

    "…ricordi quando tra noi si parlava, affascinati ed entusiasti, dei tesori e dei misteri dell’antichità? Ricordi quando per lavoro, volavamo sopra deserti sconfinati o su verdissime foreste inestricabili? Quanti discorsi, quante fantasticherie su come ci sarebbe piaciuto occuparci di archeologia. L’aeroplano a bassa quota e noi molto, ma molto più alti di lui; invece la vita ci aveva riservato una più tranquilla e anonima esistenza tra marketing e mercati esteri, tra budget e fatturati, tra computer e telefoni cellulari…"

    Più o meno iniziava così la lettera che Otar mi inviò qualche tempo fa.

    Otar, il mio procacciatore d’affari che, sparito quasi nel nulla, si era fatto vivo, finalmente con qualcosa di meno asettico di un messaggio di posta elettronica. Adesso potevo perlomeno tenere in mano ciò che lui, qualche tempo prima, un mese a giudicare dal timbro postale, aveva scritto di suo pugno.

    La sua lettera continuava poi con particolari relativi agli ultimi due mesi trascorsi in America Latina. Mi raccontava delle numerose persone conosciute, dei luoghi visitati che, precisava, erano al di fuori dai normali canali turistici.

    Infine mi chiedeva di far tradurre, da una persona di fiducia, una frase che mi sembrò essere in spagnolo o portoghese, precisandomi che poi, si sarebbe messo in contatto con me.

    Ricevere quella sua lettera mi aveva fatto molto piacere. Principalmente per tre motivi.

    Primo, perché avevo finalmente la conferma che era in vita e in buona salute. Secondo, ma ancora non lo sapevo, perché coinvolgendomi in questa emozionante, e per certi versi incredibile storia che sto per raccontare, mi dava la possibilità di diventare, se pur per pochi mesi, ciò che avevo sempre voluto essere. Terzo, perchébe’, forse è meglio che questo lo scopriate poco per volta, come abbiamo fatto io e Otar.

    1

    Quale sia stata la molla che, scattata, ha fatto cambiare vita a Otar è per me ancora un mistero: sono trascorsi ormai anni dall’ultima volta che lo incontrai, quando mi confidò che non ci saremmo più rivisti. Credevo comunque che avrei sempre avuto la possibilità di parlargli, magari anche solo per scambiarci gli auguri di Natale. Invece quando lo salutai, nella hall dell’Intercontinental di Zurigo, dove poche ore prima avevamo concluso un importante affare con il presidente di un’azienda finlandese, fu veramente l’ultima.

    Certo Otar era e, da ciò che mi scrisse, mi sembrò di capire che fosse ancora uno spirito libero. Da quando aveva interrotto i rapporti con l’universo industriale m’ero convinto che avesse comunque continuato a girare il mondo, cosa che prima faceva per lavoro e ora finalmente, pensai, azzardando, ma lo conoscevo troppo bene per sbagliarmi, quello che se fosse stato davanti a me m’avrebbe detto. Credetti d’essere rimasto l’unico, delle persone che frequentava per lavoro, ad avere ancora contatti con lui.

    Della sua famiglia gli restava una sorella che sentii qualche volta, e sempre perché chiamavo io, la quale mi parve non voler interessarsi più di tanto di Otar, presa com’era con suo marito molto più nella coltivazione di agrumi della sua azienda di Jaffa, in Israele, piuttosto che nel mantenimento dei rapporti con i propri parenti.

    Non nascondo che a volte pensai che Otar Irch non fosse neppure il suo vero nome. Per affari tornai varie volte a Tel Aviv, e ogni volta andavo sulla Hagana Road dove aveva il suo ufficio, sperando di trovarlo lì ad accogliermi e a propormi chissà quale avventura, o a spiegarmi che era un’agente segreto del Mossad o non so che altro ancora. Invece i locali erano sempre disabitati e anzi erano poi stati posti in vendita e acquistati quasi immediatamente da un’azienda che non si era fatta scappare l’occasione di quella posizione strategica posta a metà strada fra il centro della città e l’aeroporto Ben Gourion. Restava la casa di famiglia, quella occupata dal padre fino alla sua morte, avvenuta ormai da tempo, ora disabitata e considerata da Otar una sorta di mausoleo in cui aveva raccolto gli oggetti di una vita intera, anzi di due, visto che conteneva anche quelli di suo padre. Otar provvedeva al mantenimento economico dell’abitazione.

    Dei puri aspetti pratici, invece, si occupava Edna, sua sorella. La parente più prossima che gli restava.

    Insomma Otar pareva proprio non esistere più.

    Poi, dopo molto tempo, mi era arrivato un messaggio di posta elettronica, speditomi in automatico tramite un software che egli stesso mi aveva pregato di realizzare. Questo particolare sistema d’invio, così come lo avevo concepito - per lavoro realizzo programmi per computer -, mi aveva ulteriormente confermato che Otar non era più in grado, o non voleva più accedere al proprio computer, ammesso che se lo fosse portato o ne avesse uno a disposizione, nel posto dove viveva ora.

    Gli anni erano passati, e il suo ricordo, com’è ovvio per le persone care, non era scomparso. Si era soltanto appena spostato, dietro ai pensieri di tutti i giorni, che per la loro effimera natura sono niente al confronto dei grandi ricordi.

    Infatti, quando ricevetti la lettera, tutto tornò inevitabilmente come prima.

    Otar fu di nuovo Otar e io compresi o meglio, ebbi la conferma, di quanto fosse incalcolabile il valore di un’amicizia.

    2

    …de la màs alta de la tierra al centro

    dònde el antiguo calor se ha parado

    con lìmpidos ojos

    el transparente recorrido

    un sola acabarà

    dònde todo ha tenido principio…

    La frase che chiedeva di far tradurre mi aveva colpito. Non capivo però perché, Otar, trovandosi in America Latina, dall’annullo postale si capiva che la lettera proveniva da Panama, avesse bisogno di me per una traduzione, visto che là, poteva trovare centinaia di persone in grado di farlo.

    Certo doveva avere i suoi buoni motivi.

    Non conosco lo spagnolo ma le parole mi sembravano semplici e di facile comprensione, andai comunque dal nostro traduttore, quello che da sempre collaborava con la mia azienda e che Otar stesso mi aveva chiesto di contattare. Non ebbe, com’è ovvio, nessuna difficoltà e senza chiedere alcuna spiegazione circa quello strano testo, mi fornì la sua traduzione:

    …dalla più alta della terra al centro

    dove l’antico calore si è fermato

    con limpidi occhi

    il trasparente percorso

    una sola finirà

    dove tutto ha avuto inizio…

    Nella lettera Otar mi chiedeva di procuragli un telefono satellitare e di recapitarglielo all’Hotel Marriott di Panama City.

    Unitamente al satellitare dovevo confermargli un numero di conto corrente sul quale avrebbe bonificato i fondi necessari a coprire le spese che avrei sostenuto, a cominciare dall’acquisto del telefono e del relativo canone e traffico telefonico.

    Il giorno seguente mi informai e scelsi un telefono della rete Iridium. Venni rassicurato che con tale apparecchio si poteva chiamare e ricevere da qualsiasi parte della Terra a eccezione di due stati che avevano richiesto la disattivazione: Corea del Nord e Sri Lanka.

    Aggiunsi un promemoria per Otar, in modo che conoscesse le tariffe, non proprio economiche. Gli segnalai inoltre che il satellitare funzionava "solo se non vi erano ostacoli naturali tra l’antenna e il satellite", come il solerte commesso aveva sottolineato, cioè solo all’aperto.

    Preparai un plico affidandolo alla UPS: ventiquattr’ore e sarebbe stato a Panama.

    Ora dovevo solo attendere che Otar mi contattasse nuovamente. Non condivisi con nessuno tutto ciò e pregai il traduttore, ancor oggi non so bene per quale motivo glielo chiesi, di non rivelare ad alcuno il testo tradotto.

    Cosa che feci anche con tutte le altre persone incontrate durante lo svolgersi dei giorni relativi alla storia che sto per raccontare: in una sorta di protezionismo delle idee, supportato da una voglia di tutela di ciò che ancora non era mio ma che Otar mi aveva offerto. Gli eventi futuri mi avrebbero poi convinto di aver agito nella maniera più opportuna.

    Continuai la mia vita normalmente aspettando una lettera, una telefonata o qualsiasi altro tipo di contatto potesse arrivarmi da Otar. Ogni tanto ripensavo alla frase e soprattutto alle ultime parole che si erano ormai incise nella mia mente:

    "…dònde todo ha tenido principio", "…dove tutto ha avuto inizio."

    3

    Puntarenas, Costa Rica: due anni prima

    «Shalom Otar.»

    La voce di sua sorella pareva giungergli da un mondo alieno. Da quanto tempo non sentiva i parenti di Tel Aviv?

    «Shalom Edna. Come stai?»

    Il tono della voce della donna era di quelli che non promettono nulla di buono. Dopo i soliti convenevoli, pochi peraltro e sempre e solo stimolati da Otar, Edna l’aveva investito immediatamente con le sue consuete recriminazioni circa la latitanza a cui Otar pareva assoggettarsi con estrema disinvoltura.

    Otar non era mai riuscito a capire Edna, il marito e i loro tre figli, i suoi nipoti. Più volte a seguito di insistenze, aveva temporaneamente interrotto il suo peregrinare per unirsi a loro nelle feste comandate, nei compleanni e negli anniversari. E ogni volta era stato uno sprofondare in un ambiente e con persone che nulla facevano per rendersi accoglienti. Ricordava le Pasque glaciali, i compleanni dei nipoti che non riuscivano nemmeno ad aprire i regali davanti a lui. Così alla fine più i nipoti crescevano e più i suoi ritorni in patria diventavano sporadici.

    Le insistenze di Edna pertanto gli parevano più suffragate da convenevoli di circostanza che da reali sentimenti. Otar non biasimava affatto la sorella e la sua famiglia: lui era sempre via, potevano passare semestri interi prima che si rifacesse vedere in Israele. Gli unici contatti, comunque molto rari, erano telefonici. In lui però, restava il dubbio: perché mi dice di andare da lei e poi mi tratta come uno sconosciuto?.

    Otar non aveva mai creato problemi a Edna. Almeno così gli pareva. Non c’erano mai stati attriti di natura economica per la gestione dell’appartamento del loro padre. Edna si occupava della normale gestione e ciò significava, unicamente, ricevere la posta dell’amministratore di condominio. Tutte le spese erano a carico di Otar e questo voleva anche dire, riconoscere a Edna un compenso per il disturbo.

    Edna disponeva dell’accesso al conto corrente che Otar aveva mantenuto in una banca di Tel Aviv. Lei poteva fare ciò che desiderava. E probabilmente questo fu l’errore.

    «Tu non ci sei mai, Otar. Che te ne saresti fatto. Così almeno quella casavive.»

    Edna questa volta non lo invitava a Tel Aviv. Lo voleva solo rendere edotto di una decisione presa sulla base di chissà quale reale teoria. E in ogni modo quella propinatagli non lo convinceva. Poteva essere il voler tagliare con lui, privandolo dell’unico interesse che ancora lo legava alla città? Stava di fatto comunque che la casa del loro padre era stata affittata.

    Da lì a qualche giorno un’allegra famigliola avrebbe preso possesso dell’unica parte di quei ricordi che ancora restavano in Otar. Lui si sentì talmente esautorato da ciò che riteneva un santuario intoccabile che non riuscì nemmeno a far trasparire l’amarezza in cui era sprofondato. Si trovò spiazzato. Giocò contro lui la consapevolezza di essere stato troppo assente. Forse Edna aveva ragione

    Ma Otar ancora non sapeva che gli oggetti della casa, gli oggetti del padre, le cose di una vita, gli aspetti materiali che avrebbero dovuto completare nella mente il quadro dei ricordi erano stati venduti o forse, peggio, buttati. Con quale autorità Edna aveva permesso ciò?

    Tu non ci sei mai, Otar. Che te ne saresti fatto.

    «Fammi organizzareIn qualche giorno arrivo.»

    Aveva chiuso così con la sorella. Desiderava salutare quella casa. Prima che presenze aliene l’occupassero contaminando spazi, anche quelli più reconditi, della sua ormai persa cattedrale.

    Tel Aviv, Israele

    Chissà se fu il dispiacere di stare in una casa svuotata, eviscerata da cose che la rendevano, nel ricordo, ancora viva.

    Oppure fu la consapevolezza di una solitudine profonda in cui, suo malgrado, altri lo avevano relegato. Tutto ciò in cui aveva fino a quel momento creduto, cessava d’essere una meta. I suoi ultimi anni di vita non li avrebbe trascorsi lì.

    Davvero non avrebbe avuto più senso tornare un giorno a vivere in quelle stanze contaminate?

    Straniero nella sua città, decise che non sarebbe più tornato e non perché Tel Aviv non gli piacesse, anzi, la città restava e lo sarebbe sempre stata nel suo animo. Ma i ricordi e le amarezze, ne era sicuro, avrebbero sempre preso il sopravvento se lui le avesse alimentate, vivendo in Israele. Il suo peregrinare cosmopolita, se prima era nelle intenzioni solo temporaneo, adesso diventava definitivo.

    Chissà se fu la burrasca emozionale in cui si ritrovò immerso, dove i ricordi venivano a lambirlo per poi immediatamente sparire risucchiati via e sostituiti da altre coltri dolorosechissà cosa fu. Certo è che sedendosi sul divano si sentì stanco, svuotato, senza più energia. Se fosse stato meno vecchio, probabilmente, avrebbe anche pianto.

    O forse fu solo la consapevolezza di una vecchiaia arrivata inaspettatamente, senza avvisare oppure l’accorgersi che nonostante facesse finta di no era semplicemente stanco di vivere. In uno scampolo della sua proverbiale lucidità, che ora pareva non essergli mai appartenuta, considerò che tutto sommato era normale sentirsi in quella condizione. Tutti i suoi ricordi erano svaniti, diventati eterei, da affidare unicamente allo stordimento della mente. Mai più il tatto e la vista. Tutto scomparso, annientato da persone che nulla sapevano e nulla avrebbero mai saputo. Era stato tradito.

    Quando tentò di rialzarsi s’accorse che anche il respiro faticava nella sua meccanica presenza. Un dolore acuto al petto. Raggiunse il telefono. Chiunque, avrebbe intuito cosa stava accadendogli. Compose il 101, descrivendo all’operatore i sintomi. Seguì le indicazioni del pronto soccorso e attese l’arrivo dell’ambulanza.

    Durante le operazioni di rito relative alla compilazione del certificato di ricovero presso l’ospedale Sourasky, alla domanda se aveva parenti, rispose, senza alcuna esitazione: «No, nessuno.» Stranamente quell’affermazione lo scosse positivamente. L’Otar battagliero, quello che non si sarebbe arreso mai, riprese il sopravvento.

    Ce ne erano ancora di cose da fare prima di abdicare.

    Il piccolo infarto in cui si era imbattuto quella sera a casa di suo padre, a detta dei medici dell’ospedale era stato un opportuno avvertimento a cui bisognava chiedere grazie. Sì, perché l’infarto non aveva lasciato strascichi invalidanti ma era servito come motivazione a eseguire approfondite indagini dalle quali si erano evidenziati problemi ben più gravi. Una valvola andava sostituita e al più presto. Inoltre, alcuni vasi presentavano restringimenti importanti. In alcuni punti il transito del flusso sanguigno si riduceva a un misero e poco tranquillizzante trentacinque percento.

    Tutto sommato ciò che la medicina chirurgica suggeriva era un’azione di routine. Una valvola nuova e l’applicazione di uno stent coronarico. Routine, semplice routine.

    Otar però non era pronto a sottoporsi subito a un intervento. Sapeva bene, e comunque anche il cardiologo dell’ospedale lo aveva avvertito, che la vita post operatoria sarebbe stata inizialmente difficile. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno che, anche se temporaneamente, si prendesse cura di lui. E a Tel Aviv, aveva già concluso, non c’era nessuno in grado di ricoprire quel ruolo. In realtà qualche amico disponibile ci sarebbe pure stato, ma Otar principalmente desiderava staccarsi da quella città, diventata di colpo pesante, carica di tristezza.

    Meglio tornare a Panama City.

    I medici del Tel Aviv Sourasky Medical Center, ma che Otar insieme a tre quarti di cittadini chiamava ancora con il vecchio nome Ichilov, si erano comunque raccomandati: quel suo cuore andava riparato e prima si faceva, meglio sarebbe stato.

    Promise a costoro che l’avrebbe fatto.

    Dimesso dall’ospedale, prima di lasciare la città, andò a salutare qualche amico, quei pochi che ancora restavano. A loro accennò solo brevemente del suo ricovero.

    Qualcuno più curioso chiese: «Ma che ci sei andato a fare all’Ichilov?»

    «Controlli di routine, nulla di grave» fu la risposta.

    Non disse nulla, né dei suoi dolori famigliari né tanto meno del suo cuore affaticato. Si guardò bene di rivelare l’imperativo a cui i medici l’avevano obbligato.

    Comunque agli amici sembrò il solito Otar, avvolto nella sua aura affascinante di globe-trotter d’esperienza con cui intavolare, come al solito, colloqui curiosi e appaganti sulle reciproche esperienze e sulle considerazioni su un mondo e di una vita che parevano essere stati, nell’ordine, ben disposto il primo e assai soddisfacente la seconda.

    Uno di loro, un ex militare, gli fece una proposta che lo incuriosì donandogli quella carica di cui sentiva tanto bisogno. Se avesse accettato, forse, sarebbe riuscito a coronare un sogno. Il passo giusto per togliersi di dosso, nonostante quanto andava affermando, quel cilicio d’amarezza.

    4

    Alla metà del XV secolo, dopo la caduta di Costantinopoli e dell’impero Bizantino a opera dei Turchi, i fiorenti mercati d’oriente a cui alcuni stati dell’Europa di oggi come Spagna, Portogallo e Italia guardavano con interesse, furono fortemente penalizzati a causa della bellicosa presenza ottomana, che di fatto chiudeva le porte verso quei mercati sia per terra che per mare.

    Nacque quindi l’esigenza di trovare altre vie per raggiungere quelle destinazioni così importanti.

    Spagna e Portogallo, che già basavano il loro sistema politico su uno stato unico poterono, disponendo di risorse economiche, e capitalizzando la loro secolare esperienza marinara unitamente a un ovvio vantaggio di carattere geografico dovuto alla particolare posizione della penisola iberica, intraprendere esplorazioni al di là dello stretto di Gibilterra con l’intento, appunto, di raggiungere le Indie, evitando quindi il Mediterraneo, quasi completamente controllato dai Turchi.

    Diversa era la situazione italiana, divisa in Stati e Staterelli, dove la politica faziosa e nepotista era impegnata e distratta solo da mire espansionistiche e di sottomissione verso gli altri Stati della penisola. È pur vero che in quel periodo l’Italia, in pieno Rinascimento, con i suoi artisti e i suoi geni, produceva meraviglie che in nessuna altra parte del mondo, allora, né in futuro, saranno più ripetute.

    Ecco quindi che navigatori come Cristoforo Colombo, per inseguire le proprie intuizioni dovranno affidarsi a governi esteri (unici in grado di finanziare progetti con elevati costi e altrettanti rischi), che prima di tutti avevano compreso l’azzardata idea del navigatore genovese.

    I reali di Spagna, Ferdinando ed Elisabetta, affidarono all’Ammiraglio della Flotta dell’Oceano, Cristoforo Colombo, tre navi.

    Il 9 settembre 1492, la piccola flotta partiva da Palos e dopo trentatré giorni di navigazione, sbarcando nelle Antille (ma che Colombo ritenne essere le Indie), apriva di fatto la porta allo sfruttamento delle immense risorse del territorio americano da parte degli Spagnoli a cui poi seguirono altri Stati Europei, smaniosi anch’essi di sfruttare il nuovo continente.

    Anche i portoghesi si diedero da fare; essi, già da anni navigavano l’oceano Atlantico. Pressati dalle richieste dei mercanti che non potevano più raggiungere le Indie attraversando il Mediterraneo a causa della presenza ottomana, tentarono, costeggiando l’Africa e navigando quindi verso sud, una nuova rotta. Raggiunsero così l’estremità meridionale del continente Africano: il Capo di Buona Speranza. Risalendo poi dal lato opposto scoprirono un nuovo mare (l’oceano Indiano) e centrarono il loro obiettivo.

    Naturalmente la cartografia di allora era molto approssimata. Figuriamoci poi per i mari e le terre che si scoprivano.

    Quando Colombo tornò in Spagna affermando di aver raggiunto le Indie navigando verso ovest, accese una disputa con il Portogallo che rivendicava i diritti di sfruttamento del Nuovo Mondo. Nessuno, ovviamente, sapeva che la disputa si riferiva a due continenti diversi: il Portogallo per le Indie e la Spagna di Colombo per le Americhe.

    In entrambi i Paesi vi era un cattolicesimo radicato e le indicazioni che provenivano dallo stato Pontificio venivano ascoltate. Addirittura alcune leggi papali erano più potenti e certamente più ascoltate di quelle puramente statali al punto che per esempio, i tribunali ecclesiastici (inquisizione) non potevano essere contraddetti e nulla avrebbe potuto fare un politico, anche potente, per salvare o per salvarsi nella malaugurata ipotesi in cui le attenzioni inquisitorie si fossero posate su di lui.

    Inoltre la Chiesa, intuendo prima di altri, l’enorme potenzialità dei mondi che si stavano scoprendo aveva sostenuto e forse anche finanziato alcune delle imprese che anno dopo anno cercavano di completare geograficamente il disegno del mondo.

    Per di più in termini di anime da redimere e di radicazione del cristianesimo gli interessi erano ancora maggiori.

    È logico inoltre pensare che a bordo delle navi che si recavano nei nuovi mondi, vi fosse qualche presenza ecclesiastica, volta a verificare, "con gli occhi della chiesa", le novità anche in termini solamente quantitativi, cioè di computo delle eventuali popolazioni da convertire.

    Un solo anno dopo la scoperta dell’America, l’allora papa Alessandro VI, pose fine alla disputa dei due stati iberici stabilendo una linea netta di demarcazione tra il nuovo mondo rivendicato dagli spagnoli e tra quello dei portoghesi.

    Tracciò un’ipotetica linea da nord a sud a ovest delle isole Azzorre, stabilendo che tutto ciò che si trovava a sinistra di tale linea, detta linea alessandrina, era di competenza spagnola.

    La restante parte di destra era di competenza portoghese.

    Seguirono anni in cui entrambi gli stati cercarono di sottolineare e radicare la propria presenza nelle relative zone che la linea alessandrina aveva consegnato loro.

    Così la Spagna aumentò la propria presenza nell’America meridionale e il Portogallo conquistò varie regioni e isole africane.

    Quasi mai però le conquiste portavano benessere e civiltà nelle popolazioni autoctone: emblematici i casi di Francisco Pizzarro, che su incarico del governo spagnolo penetrò in profondità in Sud America depredando e sterminando in cinque anni il popolo degli Inca e del tedesco Welser, che angustiò con ogni sorta di violenza i nativi della regione che oggi potremmo identificare con il Venezuela.

    Nel marzo del 1500 una flotta di tredici navi, su incarico del Re Emanuele I, partì da Lisbona, affidata al comandante Pedro Cabral che sulla scorta di quanto scoperto nel 1498 dall’esploratore Vasco de Gama, si prefiggeva di raggiungere nuovamente le Indie, doppiando il Capo di Buona Speranza.

    Qualche giorno dopo essere salpate, le navi di Cabral si imbatterono in una tempesta, sorprendendo i marinai durante la navigazione tra le Isole Canarie e le Isole di Capo Verde.

    Una nave andò perduta. Alcune persone, poche, che si trovavano a bordo poterono essere tratte in salvo da una nave, facente parte della flotta, che navigava nelle vicinanze. Un naufrago riuscì a salvare alcuni oggetti ai quali sembrava essere particolarmente attaccato. Non era riuscito però a porre in salvo il proprio mentore, perito, insieme al resto dell’equipaggio, nell’affondamento.

    Il comandante Cabral per evitare i fortissimi venti che soffiavano, decise di modificare la rotta passando più a ovest, allontanandosi quindi dalle coste africane.

    La forza del vento si affievolì tanto quanto aumentò l’intensità delle correnti che all’incirca all’altezza dell’equatore scorrevano e scorrono tutt’oggi da est verso ovest.

    La corrente equatoriale fu talmente forte che letteralmente trascinò l’impotente flotta verso le coste del Sud America dove, il 20 d’aprile 1500 approdò in quello che noi oggi conosciamo come Brasile.

    XVIII Martius, Anno domini MD P.CH.N

    Atlanticus Oceanum

    Creatore dammi la forza di recare a compimento l'uffizio, che primo fu del mio maestro et che con tuo tragico volere et meo sottomesso impegno, nella tua gloria accepto.

    Pieta’ et misericordia invoco ai posteri che illuminati dal divino, saranno a leggere codeste pagine.

    Castigo eterno colpisca coloro che useranno contro il pontefice sommo Alejandro VI et nostro in terra dominae re Manuel I.

    Ora che il maligno sembra voler accecare et distruggere homini et documenti, ego umile servitore in te affidomi, perché forza et costanza, semper meco nei perigli aiutare.

    Codesto diario sia come lux tenebrarum et assicuro che magna veritatae fidelissima scripta, perché direttamente vidi o meco riportata da Sommo meo Cardinalis maestro.

    Ego accepto juditio santixima inquisitionae unicum meo volere veritatae santificare in aeternum romana chiesa et salvare infidelis.

    ***

    Zona del delta del Rio delle Amazzoni, 1502

    Lo straniero, che tutti gli indigeni ormai da tanto chiamavano Aposthos, aveva già preannunciato la sua partenza. Avrebbe seguito il fiume, risalendo, con l’aiuto di Dio, fino alla sorgente. La direzione sarebbe stata sempre, per giorni, settimane e forse mesi verso il tramontare del sole.

    Aposthos sapeva che ci sarebbero stati pericoli. I vecchi del villaggio l’avevano ammonito: guerrieri senza Dio e altri, molto più pericolosi, con tanti dei a far da scudo alle loro violenze, erano in agguato. Lui però era convinto di poter redimere e salvare anche questi. Aposthos con altri nove, tutti convertiti all’obbedienza su parole raccontate e a professare riti in onore di una croce, lasciavano il sicuro villaggio dove, fino a quel giorno, erano vissuti. I marinai portoghesi, con cui Aposthos era sbarcato due anni prima, avevano abbandonato quasi subito quella terra raggiunta inaspettatamente.

    Il comandante Cabral non era affatto contento della piega che gli avvenimenti, suo malgrado, avevano preso. Temeva che Lisbona potesse ritenerlo responsabile dell’eventuale conflitto, che la presenza delle sue navi, sul suolo brasiliano, generasse con gli spagnoli, che si sapeva essere presenti in gran numero in quelle terre e che la recente disposizione papale aveva ratificato davanti all’Europa, assegnandole proprio agli spagnoli.

    La linea alessandrina stabiliva molto chiaramente quali dovessero essere le rispettive ingerenze dei due stati iberici sul controllo delle nuove terre.

    In realtà la Spagna riteneva i territori brasiliani privi d’ogni tipo di ricchezza. Il suo interesse era rivolto più che altro a trovare un passaggio per l’Asia in modo da contrastare il predominio portoghese. Passaggio che stava cercando molto più a nord.

    Nelle poche settimane in cui la flotta di Cabral era rimasta ancorata alla fonda nelle calde acque brasiliane a far provviste, prima di ripartire verso oriente, i suoi uomini si erano a volte imbattuti in diffidenti e sparuti plotoni spagnoli con i quali, a volte, si erano scatenate scaramucce di poco conto, ma dagli inimmaginabili possibili risvolti in patria.

    Aposthos invece, era rimasto. Aveva un compito da portare a termine. Quelle terre parevano l’Eden. Lui era convinto che niente era affidato al caso. Ogni cosa era regolata dal volere di Dio, quindi

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