Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Essere al mondo
Essere al mondo
Essere al mondo
Ebook375 pages5 hours

Essere al mondo

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Le diverse filosofie dell'essere sono state fino ai nostri giorni, quale più quale meno, modalità pseudo-laiche di giustificazione e consolazione, conforti intellettuali. Questo libro è un'introduzione alla prosofia, riflessione post-ontologica sull'origine di ogni darsi eventuale, alternativa a quel che resta della filosofia. Vi è indagato il fondamento del sapere e dell'agire comune a tutti gli esseri umani, cercando come rifletterlo in un meta-pensiero insieme adogmatico e ascettico, aperto al contributo attivo estetico ed etico di ciascuno.

L’essere al mondo, presente a ciascuno in ogni momento di vita, è il solo dato di fatto non pre-pattuito di cui ci si possa dire tutti ugualmente e immediatamente a conoscenza. Se però, pressati da un’immatura volontà di ragione, proviamo ad afferrarlo, esso subisce la manipolazione del nostro trattarne. Ben presto ci ritroviamo ad assaporare, invece del genuino essere al mondo, qualcosa di non troppo diverso da quel che abbiamo desiderato spremerne. Alla prosofia preme osservare l’essere al mondo come si presenta prima di subire le imposizioni del bisogno di sapere, avido di soluzioni intellettuali e consolazione morale. Si occupa anzitutto di biografia elementare, ovvero della riscoperta di quell’originario che sorregge non gli afferramenti della ragione ma il darsi dell’evenienza.

LanguageItaliano
Release dateDec 17, 2012
ISBN9781301571178
Essere al mondo
Author

Paolo-Ugo Brusa

Italian by family and citizenship, born (1950) and living in San Marino, SM. School years in Rimini, 1958 to 1965, and Bologna, 1966 to 1974. Doctoral degree in Philosophy from Bologna 'Alma Mater' University in 1974 (master thesis on the education of James Joyce). Enrolled in San Marino public schools as a teacher of Italian, History and Geography in junior high (1974-1995); then of History and Philosophy in high school until retirement in 2010. In the early 80’s, I was involved in developing computer apps in a ground-breaking field, at the time: individualized teaching aid for Down children. Works include 'Parentesi', 1983, a collection of free verse; 'Ripeness Is All', 2012, a red carpet of pictures; 'La cura di sé (in giovane età)', 2018, a bildungsroman; 'Genesi. L'origine qui e ora' (my fifth philosophicsl essay, to be published 2023).

Read more from Paolo Ugo Brusa

Related to Essere al mondo

Related ebooks

Philosophy For You

View More

Related articles

Reviews for Essere al mondo

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Essere al mondo - Paolo-Ugo Brusa

    Introduzione

    1.L’argomento. Es geht ums nackte Leben

    Sembra che del vivere non abbiamo ancora una teoria soddisfacente. L’esistenza, pur mettendoci a dura prova in molti altri modi, ci riserva la massima delusione proprio dal lato teoretico. Sull’afferramento di ciò a cui più d’ogni altra cosa aderiamo, la vita stessa, si sono date da fare non poche dottrine; ma i tentativi compiuti nei secoli, per quanto geniali, non hanno attenuato quello sconcerto che ci coglie al cospetto della complessità dell’esistere. Il sapere della vita ha suscitato grandi promesse, poi mancate, e ingloriose rinunce, uno scacco che i saperi forti mascherano riducendo l’intricatezza della vita (l’essere al mondo) alla semplificata complessità di ciò che essi pongono in essere (il loro mondo ad hoc); mentre i loro antagonisti s’illudono di cavarsela con il comodo ripiego dello scettico, che ogni possibile sapere confida di contornare col suo sapere di non sapere. Quel generale fallimento, occorre dire, non riguarda però tanto i contenuti teorici, siano essi dogmatici o scettici o critici, che nei limiti dei loro mondi sembrano tutti verosimili, quanto la stessa idea di sapere loro sottesa, un’idea che ripetendosi invariata di filosofia in filosofia le impegna tutte quante alla tutela della razionalità propria a ciascuna. La vita diventa così un argomento della ragione, la quale presume il proprio logico venir prima e si organizza con principi e metodi che appunto la postulano come annunciato; per costruire i suoi universi e conseguire i suoi scopi la ragione teoretica si sente in dovere di ovviare al fatto d’essere anch’essa al mondo, di rimediare in qualche modo a quella sua precondizione.

    Contro il vario ovviare e rimediare finalizzato delle dottrine questo scritto introduce ciò che chiamo prosofia, ossia l’immediato conoscere interno all’essere al mondo; un confronto aperto, immediatamente accessibile a chiunque, sul nudo e crudo sapere della vita. Di questo sapere o sentire originario la biografia generale ricerca i concetti elementari, ritornando alla tradizionale indagine sui principi. Un ritorno che è però anche una ripartenza: la sfida consiste nel ripensare le generalità dell’essere al mondo senza pre-implicitare un qualsiasi mondo che, per il suo essere ad hoc, immediatamente le riduce e ordina a sé. Prosofia chiamo anche per ciò l’alternativa alla metafisica. Alternativa che, da sempre sotto gli occhi di ogni essere umano e anzi di fatto comunemente compresa e praticata nell’agire quotidiano, non ha quasi guadagnato terreno in campo teoretico ed etico, nonostante gli straordinari progressi in ogni altro settore di cui l’umanità è stata capace. Si sa, di metafisica (in senso lato) ciascuno ha la sua, nutrita di esperienze e talvolta di studio, personalmente coltivata, più o meno elaborata. Il pensare consapevole si guarda attorno, tocca con mano quell’essere al mondo in cui è gettato, prova ad afferrarlo, ma non vi riesce – non perché sia impossibile, ma perché non è cosa da risolversi nei modi del padroneggiare – e allora ricusa la sua immediata verità, ne rifugge ricorrendo a una sorta di logistica dell’essere: per ciò che ho bisogno di possedere con certezza, ragiona l’uomo, devo prevedere un ricettacolo robusto, una gabbia che lo contenga, lo metta in sicurezza e insieme lo renda visitabile. Delegate alla custodia di ciò che sembra pericolosamente avvincente, le dottrine dell’essere e dell’esistere somigliano un po’ a giardini zoologici.

    Nondimeno, il meta-fisico, il sapere ulteriore, rappresenta una dimensione obbligata dell’umano, senza cui questo nostro peculiare vivere si restringerebbe al mero funzionare psico-motorio. Così, ammettere la propria dipendenza dal metafisico o piace troppo o troppo dispiace, per quella continua oscillazione tra contenitore (la coscienza che è sempre coscienza di un mondo) e contenuto (il mondo che è sempre mondo di una coscienza) che ogni meta-conoscenza comporta. Infatti cos’è mai (o meglio cosa vorrebbe essere) una metafisica, al di là del significato scolastico? Non altro che una biografia generale, ossia una concezione o descrizione, che si reputa vera, nei termini più comprensivi che sia dato immaginare, dell’essere al mondo come non può non presentarsi a chiunque sappia in qualche suo modo rappresentarselo. Chi (essere umano o animale) fosse davvero totalmente sprovveduto di un suo essere al mondo, non disporrebbe di alcun riflesso di coscienza e il suo esistere ricadrebbe nella fisica, nell’opaco limite di ciò che non assume né essere né non-essere, nel plasma o melassa di materia/energia, quindi nel più oscuro nil. Non esisterebbe né sussisterebbe. Il sussistere di qualunque cosa è infatti il risultato di un identificare, ma non v’è identificazione nel mero fisico, solo puro flusso. Sussiste solo ciò che compare come manifestazione di un vivere.

    Nel caso esimio dell’essere umano, il meta-fisico produce un certo disegno della forma generale dell’esistenza e correlativamente una certa coscienza della conoscenza. Le metafisiche della storia del pensiero non ne sono che occorrenze formalmente esposte per iscritto, ma il meta-fisico supera la barriera delle cose scritte, si estende su tutta la superficie dell’esperienza, non viene dismesso mai. Le sue istanze, per quanto all’apparenza differenti, sono apparentate per via di analogia, e si combattono o si mischiano o si succedono facilmente come acque diversamente mosse che scorrono nello stesso alveo. La vera sfida riguarda la questione del metafisico, l’essenza immanente dell’esistenza, la verità del concreto. La sbrigativa defenestrazione delle metafisiche ha avuto effetti momentaneamente liberatori, ma l’avversione per la questione meta-fisica e il rifiuto a riformularla hanno favorito il dilagare di razionalità locali dichiaratamente ad hoc. Occorre allora riprovvedersi di una visione concettualmente iniziale, nella quale si ritrovino, seppur relativizzate, tutte le dottrine e dove ogni più consueta o peregrina appercezione dell’essere al mondo possa riconoscersi al tempo stesso per autentica e provvisoria. Le diverse metafisiche, da quelle formulate e famose a quelle indescritte e meramente vissute, intrattengono un rapporto distorto con la nuda verità: le seconde per l’ovvia ragione che il criterio del vero/falso si applica soltanto a quanto viene descritto (ciò che viene semplicemente vissuto non è vero/falso, ma felice/infelice); le prime perché, per quanto logiche, non hanno adeguatamente risolto l’iniziale questione dell’arché o principio, da cui pure ogni contemplazione correttamente ha da prender le mosse. Anzi, han potuto dirsi logiche proprio perché non hanno ben risolto la questione dell’origine. E mi riferisco ad ogni visione mitica del mondo (mitico-religiosa, mitico-filosofica, mitico-scientifica, mitico-ludica) dagli inizi dell’autocoscienza a oggi. Tutto il pensiero fino al presente può ben dirsi, come argomenteremo, mitico (autonarrativo). Uscire dal mito, avendolo compreso in tutte le sue manifestazioni, è il dovere interminato della ragione filosofica: del mito, pur avendo sempre dichiarato di volersi disfare (e volercene liberare), essa s’è invece avvalsa, intrisa e fatta forte (o altre volte astutamente fatta debole). Essa ha mancato al suo impegno primo, fallito la missione, e si parla perciò correntemente della sua morte. Un fallimento positivo se si guarda ai saperi separati che dalla filosofia sono sorti, ma un successo negativo se si pensa al nodo irrisolto della comprensione dell’intero. Prosofia sarà allora un nome per designare il complesso quadro di consapevolezze in grado di espletare quell’antico compito e con ciò superare finalmente il lungo momento della filosofia. Per farlo il pensiero prosofico deve riconsiderare la primissima questione, che è dell’origine e del principio, della genesi o, con termine meno connotato, dell’anzitutto. Questo è dunque anche l’inizio del nostro discorso. [Indice]

    2.Il disegno prosofico

    Un’introduzione alla prosofia (all’integro sapere del vivere) – così come la vedo percorribile ora, tra i due estremi inclusi della concezione personale e della rispondenza integrale alla cosiddetta realtà delle cose – dovrebbe svolgersi su quattro quadranti. Nel primo si tratta di biografia generale ovvero delle condizioni preliminari a ogni concreto essere al mondo, dei trascendentali dell’esistere, generatori del vivere, efficienti di ogni minuto atto. La metafisica, anima della filosofia, inseguendo il suo sogno autoerotico di una logica dell’essere, non ha saputo o voluto penetrare in profondità la pro-logica dell’esistere. Da occasionali escursioni al di là dei suoi orizzonti è rientrata con un sentimento di sconfitta che ha alimentato un contrapposto eccesso di fiducia nella scienza, cioè nei pragmatici artifici del mero funzionare. La prosofia torna alla questione del senso della presenza della vita al suo proprio essere & non-essere. Per questo suo ritornare all’origine del senso, tutto quello che sia le metafisiche, sia le scienze hanno trovato da dire deve essere compreso prosoficamente, al pari di quant’altro nell’essere al mondo si presenta. Delle condizioni universalmente valide di tale presentarsi, della loro illustrazione, si occupa la biografia generale o elementare, la quale per essere quel che pretende non può mancare di sussumere il concetto di ogni altra (apparentemente altra) apprensione del mondo. La biografia elementare è l’argomento al centro di questo scritto.

    Nel secondo quadrante il programma prosofico ha da confrontarsi conseguentemente con la tradizione, l’intera tradizione umana, sola universalità concepibile in alternativa alla prosofia, dai più remoti miti al presente rapidamente evolutivo del paesaggio globale – non solo filosofie e dottrine, ma ogni altro dominio del sapere e del sentire, del concepire e dell’interpretare, le versioni di verità vissute di generazione in generazione, di civiltà in civiltà. Le contemplazioni o erotiche di cui sono ricchi i mondi ad hoc sono da ricomprendere e ricongiungere al prosofico in un’unica estesa urbanistica dell’essere. La prosofia dovrà mostrarsi non solo, come ogni prodotto culturale, partecipe della tradizione, ma capace di cogliere l’intero che tutto trascende, quel teatro del possibile dentro cui il reale (il reale finora) occupa soltanto un palco. Contestualmente sarà un atto dovuto controbattere le contestazioni che gli abitudinari del cogitare tardo-metafisico sono pronti a lanciare contro la peculiare pretesa di verità (nuda e cruda) della prosofia. Ma a tale confrontazione onnicomprensiva non bastano certo le pagine di un libro, né le riflessioni di una persona. Al contrario, tutti gli apporti sono imprescindibili. In pratica la prosofia – costruzione filosofica collettiva (raccolta e messa insieme a partire dall’esperienza di tutti e ciascuno) – non potrà prendere davvero forma, ma tenderà a quell’essere labile nel divenire che, salvo rischi sempre incombenti di autoriferimento, sembra tipico delle nuove architetture virtuali. La prosofia è pensiero del pro-, dell’al posto di qualcosa (la sophia) che non potrà mai davvero presentarsi, se non come rimedio. Se proprio vogliamo dirne come di un’idea, la prosofia vuol essere la filosofia prima in cui le occasioni del reale e del possibile sono pre-comprese pur restando intatte e libere nel loro farsi e disfarsi. Di fatto le metafisiche sono state e sono anche prove di prosofia, per tacer della vita vissuta, che ogni giorno si confronta nei modi più diversi con le libertà e i vincoli di cui parla la biografia generale. Quel che in esse, nelle metafisiche, osta al prosofico sta non tanto in ciò che asseriscono, quanto in ciò che tutte premettono al loro e a qualsiasi altro asserire, sta nell’ipostasi di congruenza, per la quale il dire-in-qualche-modo-coerente saprebbe rappresentare la coerenza dell’essere, come se l’essere fosse fatto per il dire (e in effetti, quell’essere, in quanto loro costrutto, lo è). L’erotica dell’autocoscienza produce banalità (secondo l’etimo, ciò che è separato dal resto e chiuso in se stesso, autoconfinato e autoregolato). La pretesa di saper dire è condivisa da antichi e moderni, dogmatici e scettici, fino ai contemporanei che ne hanno ricavato una sorta di neo-teologia di cui è dea-madre, ancora una volta, la Scrittura, ciò in cui ci riconosciamo (Senofane: Se fossimo cavalli, i nostri dèi nitrirebbero).

    Ora però la tecnologia ha precipitato la storia nell’era post-scritturale. Non era storicamente inevitabile attendere l’ipermedialità, l’onniconnettività dei tempi nostri per sviluppare l’alternativa prosofica al pensare tendenzialmente ideotico. È semplicemente andata così, il nostro non è il migliore dei mondi. L’ipermedialità è sopravvenuta e sta forzando i tempi della prosofia, del ritorno alle origini. Ci sospingerà verso una nuova universalità, in cui non preporremo più, ideologicamente, l’uno al molteplice o il molteplice all’uno, il passato (o il futuro) al presente o il presente al passato (o al futuro), l’ordine al disordine o l’anarchia al metodo, la permanenza all’evenienza o viceversa, insomma un qualsiasi entificato ideale all’essere al mondo. Chi sia questi che scrive, da dove parli questo libro, non ha alcuna rilevanza. La svolta dall’ideare filosofico al concepire prosofico è già in corso, sta avvenendo sotto i nostri occhi più o meno attenti, nel pensare comune e nella narrativa, nei modi del comunicare e nelle arti, perfino lentamente nelle istituzioni, sospinta dalla nuova meccanica dell’informazione; la filosofia, col suo vecchio teorizzare ripensatore, escogitante e personale, sempre precipite e nondimeno in ritardo sulle sfuggenti vicende del reale, non ci ha preparati al mutamento epocale se non con quel suo dileguare nel silenzio dimissionario, nel proprio autoironico sconsolato decesso. La rinuncia alla consolazione, alla propria vocazione farmaceutica, di antidoto o rimedio, questo primo passo verso il prosofico, è quanto la filosofia ha appena ora saputo accettare a quindici secoli da Boezio, a venticinque da Socrate. Finalmente, con la rinuncia alla tradizione della consolazione (incluse le fumose metaconsolazioni intellettualistiche, sue estreme metamorfosi) al vecchio filosofare può subentrare un sapere/sentire nuovamente inteso. La prosofia avrà senz’altro bisogno della filosofia, ma in quanto annuario o pietoso sacrario delle modalità di consolazione; come casistica o testimonianza, degna di comprensione sussuntiva al pari di ogni altra riduttiva versione del mondo.

    Intanto la posizione prosofica nel confrontarsi comunque con altri orizzonti di conoscenza – linguistico, psicologico, metodologico, fenomenologico, esistenziale, strumentalista e via dicendo – deve mostrare non solo come questi non la confutino, ma pur cercando di sottrarvisi la prevedano e se ne servano. Resta però da affrontare, argomento del terzo quadrante, la seguente questione: qualora la prosofia davvero arrivasse allo sconfinamento, al superamento dell’orizzonte ultimo, e con ciò controrealizzasse, disseminandolo in un quotidiano essere & non-essere post-ideologico, l’antico progetto di cogliere le linee dell’intero; se per essa fosse dato comprendere alla radice possibilità e limiti di ogni differenza, dal dialettico all’assurdo, dal significato del significato al senso del senso, ma senza consolazione alcuna, ebbene a che servirebbe? Come farne buon uso? L’utilizzare, il servirsi rimanda a un bisogno e questo alla sua soddisfazione, a un certo stato di cose da perseguire, definito nei termini di quell’utilizzabilità. Il rapporto tra mezzi e fini si presta fin troppo bene alla circolarità autocompiacente: collettivamente e individualmente ci applichiamo a coltivare bisogni che ci impegnano in servitù, pretese che ci vincolano, difese che ci aggrediscono, medicine che al limite ci ammalano. Nell’esaudimento di tali esigenze, tanto più rischiose quanto più limitate, aveva senz’altro ragione Peirce a sostenere prudentemente che la scienza (rispetto all’autorità, alla tradizione e alla combinazione fortuita) produce i risultati meno insoddisfacenti. Abbiamo dunque buoni motivi per lasciare che le scienze e le tecniche permeino sempre più capillarmente il tessuto della nostra esistenza. Per presupposto però esse non sanno occuparsi dell’esistenza, qualunque cosa sia, poiché questa coincide con l’intero, mentre quelle conoscono solo il segmentale, l’adatto che richiede preliminarmente (ad) di sapere a che volgersi. Un indirizzamento di cui scienze e tecniche per buona sorte nulla sanno; se ne sapessero qualcosa cadremmo in loro balìa. V’è pertanto un alto spazio di cielo terreno, ormai sgombro di dèi e di falsi miti, libero forse per la prosofia. Il merito però non sta nel sapere occupare quello spazio, cosa che tutte le filosofie hanno avuto occasione di fare adattandoselo addosso, a contorno dei propri limiti, quanto invece nel saperlo comprendere e salvaguardare, d’ora in poi, come spazio illimitato dei sensi (Sinnen). La prosofia ha quindi da mostrare il suo aver senso e merito come garante di ogni possibile senso e merito, come meta-utility generale del comprendere, del valutare, del comunicare ecc. Un cielo vuoto è una voragine gravitazionale che attira ogni sorta di plenitudine, dal magma più sordido e impenetrabile alla geometria più pericolosamente trasparente. La prosofia raccoglie la sfida, intende spendersi per l’universale libera condivisione dello spazio del senso.

    Infine il quarto quadrante, interamente occupato da una questione che l’approccio prosofico illumina in tutta la sua scabra drammaticità: l’essere al mondo che la biografia generale perviene a descrivere non riconosce la differenza della giustizia, considera il giusto e l’ingiusto alla stregua di ogni altra evenienza, come un qualsiasi relativo. L’umano è questo, è relatività cioè coscienza, coscienza cioè relatività. La dimensione assoluta conferisce al giusto, poiché è solo sua, una dirompente e sublime diversità rispetto a ogni altro sussistere. Tutti gli assoluti sostanziali della tradizione non sono che pervertimenti del giusto. La tradizione proprio in questo ha fallito: nel confondere relativo e assoluto, esistenza e giustizia, essa ha smarrito la cognizione di entrambe. Ha visto una quantità di assoluti incoerenti con l’essere al mondo e ha perso di vista l’unico assoluto inequivocabile, quello che si staglia di fronte a noi essenti-al-mondo come un radicale non-esserci. La prosofia è allora impegnata su entrambi i fronti: dal lato dell’essere al mondo, come biografia generale, confrontandosi con la tradizione, proponendo la sua fredda visione, globale e imparziale, delle varie versioni del mondo, delle diverse modalità del relativo; dal lato opposto del non-essere scorge due nulla: il nil irrilevante di ciò che solamente accade (il fisico) e il vuoto doloroso di ciò che essenzialmente manca (il giusto). La riflessività prosofica dialoga con la progettualità di cui tutti gli esseri umani (quelli che non patiscono minorità o ingiustizia) sono corresponsabili. Essa è frutto della coscienza dell’essere al mondo e dei suoi vuoti essenziali, può quindi comprendere e illuminare ogni atto di vita. Non esclusi gli atti di intelligenza: qualche fuggevole passaggio del testo sarà dedicato alla critica prosofica della critica, vedendosela con i numerosi disillusionisti contemporanei, i quali sostengono che il sapere (anzi l’écriture) accede solo a se stesso. E questo è un rischio effettivo, almeno finché la piena coscienza dell’essere al mondo, ossia della sola realtà di fatto vera, è vista dall’intellettuale, unilateralmente, come mero prodotto dell’intelligenza discriminante e addirittura, con palese autocitazione, delle più esclusive escogitazioni della ragion dialettica, impenetrabili ai più, di cui egli sa scrivere.

    Per via prosofica si accede, tutti e sempre, purché lo si desideri, a tutta la verità accessibile, così come a tutta la realtà abbordabile. Su questa via, o piuttosto intreccio anodino di viottoli, sembra consentito all’essere umano quel sapere-agire a cui aspira in vista della felicità. Obiettivi legittimi e possibili, quindi di diritto propri di ciascun essere umano, che non sono ancora, a dispetto delle solenni dichiarazioni di principio, eredità comune di tutti i popoli della Terra, per tacere del destino di ogni singola persona. Verità e giustizia, come ben intuì il pensiero arcaico, coincidono poiché non possono mancare l’una all’altra. La riflessione prosofica mostra chiaramente il nesso che da sempre collega la pratica dell’ingiustizia al pensare banale. Sviluppare un’etica nuova diviene allora inevitabile, non essendo in alcun caso compatibile la comprensione dell’essere al mondo con la menomazione della giustizia. Colui che ha compreso, per via di ragione o di fatto, l’essere al mondo non può coprire l’ingiustizia. Con l’abbraccio universale del singolare, che la riflessività prosofica permette, ma solo nella piena pratica della giustizia può compiersi, è dato raggiungere l’umanità assoluta. Ciò, sia chiaro, succede già: ovunque nel mondo in ogni momento atti di vita, non importa se di quotidiana irrilevanza o straordinari e memorabili, avvengono nel segno della comprensione prosofica, sfuggendo alle dottrine incombenti. Contemporaneamente, altri innumerevoli atti si compiono all’insegna di idee che non lasciano né spazio alla saggezza né scampo alla giustizia. E il fatto che noi qui ne parliamo, in queste pagine, in questi termini, cambia davvero poco delle condizioni di felicità o infelicità dell’essere al mondo. Resta quindi in aria la questione se serva e a che cosa parlarne. Anche a questa è necessario dare una risposta, perché la sfida che un progetto di biografia generale raccoglie è quella di descrivere le condizioni di verità e di realtà di qualsiasi situazione di vita. [Indice]

    3.Tempi nuovi

    Un’indagine centrata sul sapere prosofico, qui anzitutto sulla biografia generale, punta all’anatomia in verbis dell’universale. Se svolta nel rispetto delle sue proprie nozioni, non potrà terminare che con una sconfessione dello svolgimento e dei modi della trattazione, cioè del testo così com’è, dato che procedendo esso ha compreso nel proprio dire le condizioni della sua insostenibilità in quanto testo: non può essere trattato e svolto ciò che comprende in sé e da cui promana ogni possibile trattazione e svolgimento. Autore e lettore si adoperano intorno se non a un’illusione a un’allusione e ne sono entrambi consapevoli. La prosofia non è un’altra filosofia, perché diversamente da quest’ultima non è una forma di letteratura, una raffigurazione sostantivo-narrativa. In fin dei conti può quindi solo espletarsi nella vita vissuta, come eccellenza del sapere-agire. In particolare, del testo espositivo non funzionano, per rappresentarla, la linearità delle frasi, la prevalenza del nominale sul verbale, dell’enunciato sulla domanda, della scrittura sull’oralità, del significato sul senso, dell’autore sull’interprete (o viceversa), dell’istituzione linguistica sull’atto di vita, della convenzione sull’evenienza. Ciò vale invero con qualche differenza anche per tutte le altre modalità di rappresentazione dell’essere al mondo che rimane di fatto inafferrabile. Le arti si danno alla metafora, perché fantasticare la realtà è il miglior espediente per esibirne qualcosa.

    Pare comunque – per riprendere quanto sopra accennato – che il rapporto tra rappresentazione e verità possa configurarsi diversamente nell’ambito delle nuove forme di comunicazione che la rivoluzione informatica ha permesso. Forse il concetto stesso di prosofia è più facile intenderlo ora che si può contare su una liberalizzazione (o farwestizzazione?) planetaria della cultura in tutti i suoi aspetti e su un’incredibile accelerazione dello scambio interculturale, interpersonale, transformale. Per la prima volta l’umanità potrebbe aver trovato il modo (ammesso di riuscire a evitare le censure di stato e di mercato che impediscono alle tecnologie di prodigare libertà) di emarginare le ideologie e con esse le élites intellettuali che ne sono fautrici. Forse il lungo regno del dotto è terminato e con esso la sua dubbia missione, la figura dell’intellettuale sta dileguando. Restano le sue molte maschere. Seguirà un interregno? La sede vacante darà spazio a un periodo di torbidi, ciascuno ne approfitterà per rimestare a suo comodo nel gran caldaio delle idee? Qualcosa del genere sta già avvenendo, in concomitanza con altri fattori storici, nella galassia morente delle religioni e delle ideologie. Non un bello spettacolo, ma istruttivo. Indubbiamente già fin d’ora siamo sollecitati ad abituarci in fretta, quasi da un giorno all’altro, al dis-ordine. Che non è né il disastro prodotto da uno sfortunato evento naturale, da cui si può uscire ricostruendo come prima e meglio, né lo sfacelo di un grande e tragico conflitto, da cui si può pur risorgere e rinsavire. Il disordine prossimo venturo sostituirà stabilmente, se così si può dire, l’ordine imperante in passato per i dettami delle caste dominanti (volta a volta sacerdoti, guerrieri, possidenti, letterati). Quale scuola di pensiero saprà confrontarsi, in termini generali, col mediocre eppur grandioso bullicame culturale in perenne fermentazione, dove ciò che è appena stato disegnato sarà poco dopo irriconoscibile, dove quel che parrà immutato risulterà ingannevole? Certamente nessuna singola scuola di pensiero potrà farcela, tutte quante insieme forse sì. Ma questo savio raccogliere posizioni non è che un altro modo di presentare la riflessività prosofica più consapevole, come integrazione generale asistematica, post-ideologica e post-narrativa, di tutto il libero pensato e il libero pensabile, al servizio della coscienza della giustizia. [Indice]

    4.Il buon leggente

    L’espressione buon lettore sembra fatta apposta per indignare il buon lettore, che si sente come osservato da qualcuno (l’autore), mentre alla sua presenza egli ammette ormai soltanto qualcosa, la materia del segno, uno scritto nella fattispecie, che può produrre un messaggio (di fatto un fascio humeano di messaggi) se e solo se egli intende adibirlo a quell’uso e nei limiti di come vuole intenderlo. Con quell’espressione odiosa l’autore accenna a stabilire, lui che di fronte all’interprete non è che gesto, una scala di qualità nell’approccio di chicchessia al suo testo (suo di chi?)! Ciò scandalizza drammaticamente il lettore, che si sente scrutato nell’intimità, mentre fa sua la materia del segno. Egli si reputa per definizione buono, quando divora e quando detesta, quando annota puntiglioso e quando manda al macero. Questo modello di lettore, emblema della supremazia ermeneutica, lo ha prodotto appunto l’ultima dogmatica, che nel linguaggio vede la sorgente e l’ambiente di ogni possibilità d’essere. Sotto il dominio del messaggio indubbiamente non è il messaggero che fa testo, ma chi risponde, chi lo riceve o scaccia, come preferisce. Il valore della risposta a sua volta sarà determinato da come sarà accolta, e via dicendo. La verità sfuggirà di mano in mano, imperscrutabile ma apparentemente libera, sulle ali del segno. In tal modo al linguaggio, nuovo principio d’essere, si riserva la genitura dell’ordine del mondo e la recondita conservazione del vero. Il difetto di verità dell’ermeneutica sta proprio in questo, che per essa il vero è sempre assente, posticipato dal rinvio all’interprete ulteriore. Questo che i metafisici dell’ermeneutica sostengono come fatto fondamentale è solo un dato di fatto, di cui ampiamente terremo conto, ma non è il solo fatto costitutivo dell’essere al mondo. L’essere è solo linguaggio quando non è pienamente al mondo. Un testo è una cosa di questo mondo, pienamente al mondo. Ridurre un testo a messaggio è, in versione attualizzata, una vecchia tattica, pari al trattare un’idea della mente come una rivelazione, o un calcolo esatto come una perfezione. Al buon lettore chiedo dunque di considerare se non si dia il caso che, comunque egli interpreti, e proprio in grazia di questa sua libertà di interpretare, questo testo (o piuttosto quel dato a cui esso, come dicevamo, non può far tanto più che alludere) sia, propriamente parlando, vero. In altre parole, buon lettore significa prima di tutto, per questo libro, buon leggente (v. §34), disposto a sondare, per il tramite di ciò che legge, quel che contestualmente accade del suo leggere e ad assumerlo come test di quel che così viene agito. [Indice]

    5.Correzioni e caveat

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1