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Masai: La nuvola regalata
Masai: La nuvola regalata
Masai: La nuvola regalata
Ebook296 pages4 hours

Masai: La nuvola regalata

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About this ebook

L'Africa, il Kenya, un viaggio per incontrare il padre, un vecchio Masai.
Il ritorno alle origini si snoda fra paesaggi mozzafiato, violenze etniche, amori, stregoni e magie del continente nero.
Un racconto attuale, emozionante, romantico e sconvolgente.

LanguageItaliano
Release dateJul 14, 2013
ISBN9788890692369
Masai: La nuvola regalata
Author

Massimo Ghidelli

"I like to explore, observe, get curious"Passionate about tourism, travel and cooking, when Massimo is not out and about with his motorbike he lives in Desenzano del Garda (Italy). His books are printed in Italian, English and German and also available in eBook format on major international platforms.Follow me on Smashwords.

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    Book preview

    Masai - Massimo Ghidelli

    Aveva intuito che lo volevano uccidere. Ed era scappato.

    Era corso per il mercato vecchio, superando l’enorme banco di ananas che segna l’inizio della via, e si era lanciato nella trafficata strada. Sentiva dietro di sé urla concitate e fuggiva inseguito dal terrore. Avvertiva gli sguardi della gente, concentrati sulla sua corsa, e immaginava la domanda che tutti si ponevano (i passanti, quelli che gli stavano dietro, lui stesso): Ma cosa ha fatto? Perché scappa?

    Non poteva fermarsi, per nessuna ragione; non poteva rallentare per spiegare o convincere, ma solo allontanarsi e scomparire. Urtava quelli che incrociava nella folle corsa e li strattonava, come per prendere slancio o sentire un contatto fisico, trovare solidarietà, non sentirsi solo.

    Correva con il cuore in subbuglio, alzando le ginocchia e mulinando le braccia per darsi velocità.

    Di scatto, aveva curvato verso l'Hemingway bar e si era lanciato nella piazzetta, fra tavolini e sedie di vimini dove turisti e qualche benestante locale sorseggiavano una bevanda. Aveva creato lo scompiglio fra la gente; una donna che vendeva frutta all'angolo aveva imprecato, altri si erano bloccati, impauriti.

    Mentre correva, una strana sensazione si era impossessata di lui: vedeva se stesso come in un sogno. Si immaginava di essere un uomo-uccello che sorvola il mercato e, per la prima volta, da una prospettiva nuova scopre l’ordine confuso delle case, la città dove ha vissuto per anni, la precarietà delle lamiere che coprono i tetti, la gente e quel gruppo, laggiù, che alza gli occhi al cielo per vederlo passare.

    Faticava a riconoscere i luoghi della sua infanzia, i bar dove incontrava gli amici, i negozi della via che ora scopriva come mai li aveva visti.

    Il sole bollente di febbraio abbagliava la folla indaffarata di quel mercato colorato e confuso come ce n’è mille in Kenya.

    E' come quando durante la proiezione di un film la pellicola s’inceppa: ogni cosa, i protagonisti, gli uomini, gli animali diventano immobili sullo schermo e ti sembra di poterti muovere in mezzo a loro. Durante il volo lui vedeva questa scena in cui solo lui poteva muoversi fra volti impietriti, paesaggi anonimi, sguardi vuoti dentro i quali lui e lui solo (non visto) ha la forza di penetrare. Ci sono gli occhi fissi degli attori, i volti stralunati degli spettatori, i luoghi rarefatti e silenziosi attraverso i quali lui si muove, volando. E corre.

    E sogna.

    Durante il volo nota un uomo chino su un banco di frutta, con decine e decine di ananas perfettamente disposti a piramide. L'uomo ne afferra uno per sentirne la consistenza, poi un'altro e un'altro ancora, per valutare il giusto grado di maturazione e individuare il migliore. Osserva il mercante che, in piedi dietro di lui, lo esorta all’acquisto e l'uomo che, a un certo punto, rotea lentamente la testa verso l’alto, forse avvisato da un sussurro proveniente dalla savana o dal battito d’ali di un passero nero nascosto sugli alberi. Intuisce il passaggio di quel fantasma che attraversa la città, lo cerca nel cielo azzurro e per un attimo i loro occhi si incontrano.

    Nel lungo sogno percepisce i volti di un’intera città. Mille occhi lo seguono e l’immagine è ancora quella di un cameraman che zooma sulla scena, indugia sulle espressioni, filma il loro sgomento e ritorna di nuovo sulla sua incredibile traiettoria aerea. Tutto è come in un film, se non fosse che è proprio il volto terrorizzato del principale spettatore (il suo) a riempire lo schermo. E' tutto vero. Il panico lo sorprende e lo riporta alla drammatica realtà.

    Ai lati di una strada, per terra, è seduta una vecchia.

    Lei lo vede e, nonostante l'uomo stia correndo, gli allunga il braccio ossuto e lo supplica di comprare una manioca, posata su un foglio di giornale insieme a poche altre cose che costituiscono tutto il suo mercato di quel povero giorno. Lui l’avrebbe comprata quella dolce radice di cui andava ghiotto, oh sì che l’avrebbe comprata; l’avrebbe bollita in acqua di cocco e gustata insieme agli amici. Ma adesso non poteva fermarsi, doveva volare, fuggire.

    Aveva continuato a correre ed era giunto nella piazza del mercato. Il colorato pullman che tutti i giorni porta le donne islamiche ai loro villaggi é fermo al solito posto. Confusione, odori, bambini e ceste della spesa piene di frutti tropicali riempiono ogni sua visione. Dai finestrini di una corriera si affacciano volti ovali, ambrati, occhi dalle espressioni forti e dolci; si intravedono le tuniche colorate e i neri chador. Nel gesticolare le donne mostrano le mani tatuate con l’henné ed esibite con civetteria. Tengono a bada bambini ansiosi di tornare ai giochi di casa, urlano le ultime raccomandazioni a scaltri mercanti che pregustano un guadagno, mitigano le angosce di qualche spasimante che, da terra, invoca un incontro.

    Gli sembra che una di quelle lo stia salutando, mentre fugge, forse memore di uno sguardo fugace e colmo di intenzioni che lui, probabilmente, le aveva lanciato in un tempo che ora non ricorda più. Vorrebbe fermarsi, salire su quel pullman, ricominciare tutta la sua vita dall’inizio e amarla spassionatamente, quella ragazza.

    Ma dietro di lui ancora urlano e lui ha paura.

    Di corsa gira a sinistra e supera il negozio di Chabir, il barbiere, il luogo dove si recava per incontrare gli amici e commentare le vicende della città.

    Ai lati dell’ingresso vede i ritratti dipinti sul muro, con vernice bianca e nera: raffigurano teste dai capelli perfettamente tagliati e, sopra, la scritta: Da Chabir, capelli moderni. In quel negozio parlavano del Kenya che diventa sempre più moderno, dei costumi che cambiano, dei turisti e delle loro abitudini; delle nuove costruzioni che alterano la fisionomia della città. Si lamentavano dei tempi andati, ma in realtà erano tutti orgogliosi della situazione generale di una nazione in lento ma costante sviluppo.

    Quando l'agguato era iniziato lui era fuggito dal suo negozio, in silenzio.

    Si era alzato di scatto dalla sedia e aveva abbandonato la macchina per cucire su cui lavorava da anni, una vecchia Singer a pedivella che aveva comprato da un rivenditore al mercato di Mwembe Taiari.

    La macchina si era rovesciata su un fianco e i vestiti, gli aghi, i cucirini si erano sparsi sul terrazzino davanti al negozio.

    Non aveva guardato Wilson, l’amico che da tanti anni lavorava al suo fianco e col quale condivideva il minuscolo esercizio.

    Avevano l’abitudine di lavorare all’aperto, davanti al negozio e sotto il fresco portico che si affaccia sulla strada. Affiancati e amici, da sempre, col sorriso sulle labbra ascoltavano pazientemente il vociare di signore che chiedevano di ricamare tessuti, aggiustare strappi, confezionare corredi da sposa. Erano apprezzati nel loro lavoro, benvoluti e di basso prezzo.

    Che peccato non averlo potuto neanche abbracciare, il suo amico Wilson. Ma i rumori che venivano da lontano e le grida di gente inferocita erano un presagio di sventura che lui aveva percepito immediatamente, con la stessa sensazione che avvisa gli animali dell’imminente pericolo.

    Si era lanciato sulla strada col terrore negli occhi.

    Lo sgomento e un immenso dispiacere si erano impossessati di Wilson e i suoi occhi si erano fermati sulla pedivella della macchina per cucire, il cui roteare si stava arrestando, pian piano.

    Il primo colpo di machete lo aveva raggiunto di striscio, proprio dietro la scapola destra. Una frustata, un dolore strano come quando prendi la scossa. Era balzato in avanti con ancora più velocità, ma quel colpo, prima e più ancora che doloroso, aveva inferto nell’animo un profondo senso di tristezza.

    Cosa mai aveva fatto di male, cosa volevano da lui?

    Adesso quelle domande le urlava dentro di sé, correndo. Avrebbe voluto fermarsi e spiegarsi e condividere con coloro che lo inseguivano che si era trattato di un increscioso errore, al quale avrebbero subito riparato, dimenticando ogni cosa e tornando alle rispettive occupazioni.

    Certo, lui era un Kikuyu e nel Kenya da secoli ogni etnia è in guerra contro le altre, in una competizione continua, ingiustificata e di cui, da tempo, si sono perse, le ragioni; ma adesso in città regnava l’armonia.

    I discendenti dei Luhya e i giovani Kamba erano perfettamente integrati, i nobili Masai e i fieri Turkana vivevano gli uni al fianco degli altri, i pacifici Kisii e gli operosi Luo erano fra i suoi migliori amici. Sapeva rispondere ai clienti sia in bantu che in nilote e capiva qualcosa persino del parlato dei nomadi Cushiti, abituati ad attraversare le regioni più impervie dell'Africa centrale.

    Non si era mai interessato di politica, forse non aveva neanche mai votato; era una persona pacifica, povera, di cui dovevano aver compassione.

    Il secondo colpo lo aveva ricevuto sul dorso. Forse gli avevano lanciato un machete che lo aveva colpito di piatto, oppure era un sasso o una punta o chissà cos’altro.

    Continuava a correre, ma anche loro non smettevano.

    Era giunto, adesso, nella zona degli alberghi e delle ville dei ricchi stranieri. Da una parte della strada la foresta era ancora intatta, sull'altra invece sorgevano le grandi abitazioni dai tetti di foglie di palma. Piccoli gruppi di Masai stretti nei tradizionali abiti rossi attendevano l’ora serale in cui si sarebbero esibiti in uno spettacolo per i turisti; davanti alle ville sostavano le jeep della security. Tutti osservavano il fuggitivo e si chiedevano cos’avesse fatto.

    Improvvisamente dall’angolo di una casa era apparso un uomo. Era un ragazzo, molto più giovane di lui, col viso terrorizzato, gli occhi sbarrati e la bocca contratta. Brandiva un machete, tenendolo con entrambe le mani, alto sopra la spalla, il braccio pronto a calarlo con forza sul fuggitivo. Indossava una camicia a righe verticali, portata sopra dei calzoni chiari e sdruciti.

    I loro occhi si erano incrociati per una frazione di secondo: l’uno chiedeva soccorso, pietà, la grazia della vita; l’altro, ugualmente spaventato, malediva l’essersi trovato a dover uccidere un uomo senza conoscerne neppure il motivo.

    Il sarto non aveva arrestato la sua corsa.

    Aveva continuato a dirigersi verso il ragazzo, sicuro di trovare in lui un conforto o la soluzione finale, allo stesso modo in cui un leone si lancia contro l’asta acuminata di un cacciatore, cosciente che quella lo ucciderà inesorabilmente, eppure continuando la corsa perché quello è il suo istinto, la legge mai scritta di un’anima autentica, l’impulso a continuare secondo le coerenti logiche della sua natura.

    Il colpo gli aveva fracassato la tempia e un fiotto di sangue gli aveva riempito la bocca, era colato sulla camicia e gli annebbiava la mente.

    Era un liquido caldo, appiccicoso, scuro; lo sentiva sulla sua pelle mentre si raggrumava e la testa gli scoppiava per il dolore. Era stramazzato al suolo. I muscoli delle braccia, abbandonate lungo il corpo, tremavano nella polvere asciutta. Anche le gambe erano diventate improvvisamente molli e ora, mentre giaceva a terra, udiva parole lontane, incomprensibili, vedeva mille occhi sconosciuti che lo fissavano e sembravano condividere la stessa pena.

    Attorno a lui si era radunata una piccola folla di curiosi. Un velo di lacrime gli aveva oscurato ogni visione e tutto, di colpo, si era annebbiato.

    Non c’era dolore nel suo cuore, no. Ma tanta tristezza. Poi, più nulla.

    Due – L’assalto

    Il fuoco brucia i copertoni delle auto.

    Ce ne sono cinque, sei, gettati in mezzo alla strada e che si sciolgono insieme a bidoni, pezzi di ferro, legni e chissà cos’altro.

    Il giallo e il rosso delle fiamme a tratti sembra spegnersi, soffocato dai nuovi detriti che qualcuno vi lancia sopra; poi il fuoco riprende lena e solleva un fumo grigiastro, dall’odore intenso. Bruciano i polmoni della gente, la puzza si diffonde, una nuvola densa investe un gruppo di militari che staziona nei paraggi, vestito nella caratteristica mimetica.

    Di colpo una fiamma si lancia impaziente verso il cielo, fra una costellazione di braci luccicanti e minuscoli pezzi di carta che volano leggeri. Il rogo attira lo sguardo dei curiosi e attorno alla scena si forma un capannello di persone.

    I militari tengono i fucili abbassati, con la canna puntata verso il terreno, e osservano distratti l’agitazione di una città che appare e scompare fra gli sbuffi di fumo.

    Ne arriva un altro di manifestante, con una tanica di benzina nella mano destra; si avvicina impaurito, il corpo leggermente abbassato, poi lancia sul fuoco la tanica e il suo contenuto. L’impatto con la fiamma origina una piccola esplosione che solleva migliaia di faville e rende ancor più torrida quella terribile mattina.

    Un camion passa poco distante. Dal cassone emergono mani scure, aggrappate alle fiancate, e le teste di poveri uomini cui è stato offerto un passaggio, una via di fuga o, forse, semplicemente la speranza di una tregua. I loro sguardi sono inebetiti di fronte alla violenza che li ha sorpresi e circondati. Vorrebbero allontanarsi velocemente, fuggire da quel luogo con la stessa ansia con cui aspirano a raggiungere una nuova opportunità di vita, ma i detriti, i copertoni in fiamme, il destino cui sono condannati rallentano ogni movimento.

    Il transito di quel camion, fra nuvole di fumo e polvere che si alza da terra, evoca una processione spettrale.

    Improvvisamente, davanti ai militari si presenta un uomo. Indossa una tunica giallo canarino, lunga sino ai piedi, e ha il capo contornato da lunghi rami, le cui foglie verdissime disegnano un’insolita criniera. Li tiene uniti una corda che gli cinge il collo, i rami più lunghi gli penetrano nella tunica e avvolgono il torace. Attorno al polso sinistro si è legato un fazzoletto bianco che copre parzialmente un bracciale Masai dai colori sgargianti. Muove entrambe le braccia tenendole distese in avanti e, ritmicamente, solleva e abbassa il corpo sulle ginocchia, quasi a rappresentare una danza tribale. Nella mano destra brandisce una bottiglia di plastica, piena di acqua.

    Guarda negli occhi i militari e balbetta frasi in un antico swahili che essi non comprendono. E’ solo un poveraccio o forse un pazzo e per questo lo tengono d’occhio in silenzio, ma senza reagire.

    Il dramma esplode all’improvviso.

    Un soldato lo avvicina e gli punta il dito contro il volto. Il militare indossa una camicia verde a maniche corte, con un nastro rosso che attraversa la mostrina, si infila sotto l’ascella ed entra nel taschino anteriore; i calzoni sono di un verde più scuro e porta un basco nero sul capo. I due si parlano, forse conoscono lo stesso idioma e il tono delle loro voci si fa sempre più concitato.

    Poi di colpo l’uomo scappa.

    E’ una sorta di segnale che i militari in tenuta antisommossa sembravano attendere. Un segnale mai dato, immaginario, eppure sufficiente per lanciare tutti alla sua rincorsa. Nel fumo degli spari, fra la polvere e l'agitazione dei corpi, si intravvede il luccichio dei caschi viola dei militari che ondeggiano con la visiera alzata; si muovono i verdi giubbotti antiproiettile, a larghe strisce orizzontali; si alzano minacciosi e si abbassano con violenza gli sfollagente neri, lunghi una cinquantina di centimetri.

    Un ragazzo è circondato. Ha scelto la direzione sbagliata e si è trovato di fronte una staccionata di pali aguzzi che delimita una tenuta agricola e l’ha bloccato. Un colpo più forte lo mette a sedere per terra e adesso è lì con le braccia molli e il capo sanguinante, in attesa che altri ne decidano la sorte. Il sole gli brucia la ferita e secca il sangue scuro, la testa sembra esplodere dal dolore e un militare decide di controllarlo da vicino, mentre gli altri continuano a inseguire o trascinano verso la postazione iniziale i poveracci che hanno appena catturato.

    Il fuggiasco e il militare sono immobili, l’uno stordito per terra e l’altro in piedi, col fucile in mano. Trascorrono attimi lunghissimi, finché per un momento sembra intervenire una tregua. I militari sembrano aver deciso di rallentare la corsa e si radunano in piccole squadre. Anche i negri che prima erano fuggiti ora si radunano e si avvicinano lentamente al malcapitato, rimanendo affiancati e pressati l’uno contro l’altro. C’è gente con gli abiti laceri, alcuni portano i segni dello scontro appena avviato, altri allargano le braccia come per chiedere clemenza o pace o urlano maledizioni.

    Mentre i due gruppi si fronteggiano in una sospensione armata, sullo sfondo prende corpo una scena completamente diversa.

    Enormi camion simili a grandi carri armati dirigono gli idranti verso la gente, nel tentativo di disperderla. I getti d’acqua fanno male, accecano, inzuppano gli abiti e scuotono i grandi rami dei mango, spezzano le larghe foglie dei banani, lambiscono le palme più alte.

    Davanti alle baracche si formano pozzanghere scure e nella nebbiolina che si alza nell’atmosfera si intuisce il movimento di figure spettrali che urlano, piangono, implorano, inseguite da sagome scure e altrettanto terrificanti.

    Lo sguardo del militare è assente.

    Il suo uomo è seduto per terra, inerme; ma lui del prigioniero non si cura. Guarda invece la folla, il possibile ripiegamento dei dimostranti o le nuove minacce che possono venire da una casa, un cespuglio, un albero. Di fronte a lui si sta radunando un capannello di persone che si fa sempre più numeroso. Uno tiene in mano delle pietre, un altro ha un lungo palo che protende in avanti; un altro e un altro e un altro ancora brandiscono oggetti casuali che la rabbia e una millenaria frustrazione presto trasformeranno in strumenti di offesa. Dal gruppo si fa largo un uomo. Indossa dei jeans con una camicia scura aperta sul torace e le maniche arrotolate che lasciano intravvedere muscoli luccicanti. Fa qualche passo in avanti, solitario, poi si abbassa e a larghe bracciate sfrega sull’asfalto la lama di un machete, disegnando ampi semicerchi per terra e sfidando con lo sguardo il militare che gli sta di fronte.

    La situazione si fa sempre più tesa. Forse è ora di riunirsi con gli altri, rientrare in caserma, evitare ogni inutile confronto.

    E’ così che tutti lo vedono per l’ultima volta, quel militare: il suo sguardo che incrocia il loro, gli occhi negli occhi, una sfida silenziosa che dura attimi lunghissimi.

    Vedono la canna del fucile che si abbassa lentamente, fino a toccare la tempia del prigioniero. Osservano il movimento che si compie con esasperante lentezza, gli occhi terrorizzati di lui, la mano sicura del militare che dirige l’arma verso la direzione che essa deve prendere, senza il bisogno di alcuno sguardo che la guidi.

    Tutti gli occhi percepiscono il brivido del ferito e il suo sussulto nel contatto con il freddo arnese di morte. Li stanno ancora guardando, il miliziano in piedi e il ferito al suo fianco, quando esplode il colpo. Brandelli di cervello rabbia sangue disperazione e materiale organico travolgono i presenti, coprono le strade che da Kahawa giungono a Soweto, insozzano i muri di Nuaraka e i capanni di Muthaiga, risvegliano gli abitanti di Kileleshwa, inquietano i leoni di Kiambu e le scimmie della foresta di Ngong, avvelenano i fiumi, intossicano le savane, colorano di rosso l’intero continente.

    Mentre i suoi scarponi neri lanciano il militare in una fuga disperata, la baraccopoli di Korogocho esplode nuovamente e le fiamme raggiungono e bruciano anche Kibera, Mathare, Mukuru Kwa Nieng e tutti gli sterminati slums di Nairobi.

    Tre -Korogocho

    Korogocho inizia dalla foresta.

    Le prime case dell’immensa baraccopoli escono timidamente dalla vegetazione, che le contiene e le nasconde; poi si avventurano con cautela verso la capitale, facendosi sempre più fitte.

    Dall’impenetrabile muraglia verde si elevano immensi baobab che sovrastano le case; grandi palme diventano luogo di gioco e riferimento geografico, alti tronchi fanno da magazzino vivente di legname da costruzione, a disposizione di tutti quelli che ne hanno bisogno.

    Man mano che si avanza verso il cuore della città le case si fanno più fitte e la foresta che terrorizza, nasconde, protegge, rassicura, lascia lo spazio a strade di polvere rossa, ai cui lati scorre una vita disordinata e incerta.

    Le baracche sono tantissime. Alcune sono costruite con assi di legno malamente affiancati, altre sono fatte d’argilla essiccata, altre ancora in lastroni di cemento scuro e con le sembianze di una casa vera.

    Molte coperture sono realizzate intrecciando centinaia e centinaia di grandi foglie di palma, come si fa in Africa sin dalla nascita del mondo, o da ondulati lamierini d’acciaio, modesta concessione alla modernità che d’estate le trasforma in trappole incandescenti.

    Un uomo è sdraiato nella sterpaglia e dorme.

    E’ uno dei tanti che non ha nulla da fare e neppure cerca un lavoro, che, tanto, sarebbe difficile da trovare e ancor più da mantenere.

    Non si cura del vociare dei bambini che giocano e rincorrono ogni auto per chiedere ossessivamente scellini, caramelle o matite per disegnare.

    Diverse costruzioni hanno i muri pitturati e pretenziose scritte pubblicitarie: outlet, negozi di elettronica e software, materiale elettrico, parrucchiere per uomo e donna, alimentari, bar dai nomi scintillanti (Hollywood, Simba pub, Happyland…); ci sono agenzie che promettono safari indimenticabili e file di colorati panni stesi al sole caldo del Kenya, dietro ai quali si riparano bambini che giocano

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