Quando suona il gong
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La fantomatica Agenzia Pesi Massimi si rivolge al detective privato Andrea Doria per chiedergli di riaprire il caso dell’omicidio di Oscar Ringo Bonavena, pugile argentino ucciso all’alba del 22 maggio 1976 davanti al Mustang Ranch, il più rinomato bordello di Reno, nel Nevada. I fatti sono stati accertati da una regolare giuria e c’è anche un colpevole, reo confesso ed assolto per legittima difesa. Non tutti i pezzi del mosaico, però, sembrano collimare...
Il romanzo si apre dunque con un classico cold case, un caso freddo ed archiviato che si vuole rispolverare dopo trentaquattro anni. Ma l’investigatore Doria, oramai avanti con l’età, sin da quasi subito cerca l’aiuto del collega Bob Orango per la risoluzione di un mistero che, soprattutto nella parte prettamente processuale, ricca com’è di sporchi personaggi sopra le righe, sembra fare il verso ai più spietati noir di James Ellroy. Il genere letterario caro agli autori è invece quello dell’hard-boiled, è quello dei duri dal cuore tenero, anche se il linguaggio ironico, che irride la sintassi in un trionfo di giochi di parole, viene indubbiamente arricchito da una verve umoristica che ha nel calembour francese la propria origine.
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Quando suona il gong - Antonio Romano
Parte prima
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Capitolo 1- Il ritorno
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Il mio era uno studio né bello né brutto. Un po’ come il Piemonte.
La sala d’aspetto – dove però ad aspettare, anche per settimane filate, ero solo io – l’avevo arredata senza tocchi napoleonici. Il soffice sofà orientato a nord-nordest lo usavo sia per ammirare il levar del sole – all’alba infatti pareva la bandiera del Giappone – che per riordinare le due o tre idee che di norma palleggiavano nel mio pensatoio. Per non confondermi erano sempre le stesse: come riuscire a sopravvivere senza clienti, come riuscire a convincere qualche scimunita a giocare con me al dottore e l’infermiera, e la terza non me la ricordo o forse non c’è mai stata.
Nel piano-bar posto nella nicchia del muro a destra dell’ingresso mi gargarozzavo invece acquazzoni di distillato scozzese, mentre sul tavolino messo al centro della stessa stanza avevo sparso a ventaglio alcune riviste tanto sgualcite quanto illeggibili: Top Hockey, Kepì Blanc o anche L’Espresso, cioè quel periodico che è passato dal riprodurre per anni cinquantadue foto di donne nude in copertina, una a settimana, all’esibire per tutto il 2009 cinquantadue foto di Berlusconi in copertina.
Insomma roba buona, al limite, per quello scimmione di Bob Orango.
Per il resto stavo sul classico. Le lancette scorrevano sul quadrante dell’orologio a muro con celerità preoccupante, e ad ogni giro completo io mi alzavo dal giaciglio di cui sopra e tiravo giù la cordicella della tenda veneziana quel tanto occorrente ad inclinare le lamine orizzontali di alluminio.
Quindi sbirciavo fuori, quasi nella speranza che l’intera umanità che percorreva la strada sottostante di colpo si mettesse in fila dinanzi al portone della mia magione per citofonare, quindi salire, saturare la sala ed infine, tutta insieme, ingaggiarmi per risolvere, che so, il mistero della scomparsa del Generale Rotthenmaier, indiscusso capo dei gatti del quartiere.
Nella realtà questo non era mai avvenuto; infatti l’occhiata, chissà perché furtiva dei passanti, si infrangeva regolarmente sulla scritta smerigliata che campeggiava sull’unica finestra della stanza.
Vi avevo fatto comporre la seguente, precisa frase: INVESTIGAZIONI DORIA – SI RISOLVONO PROBLEMI.
Mi mancava solo che gli zozzoblù del Genoa perdessero uno scudetto all’ultimo secondo dell’ultima giornata del campionato e poi mi sarei potuto dichiarare anche felice. Non fosse altro perché ero ancora vivo.
Mi dispiace soltanto per i vostri pianti di dolore.
E dico questo perché se il liquido versato per quella che credevate una sciagurata fine al termine della mia ultima avventura nella Nubia fosse stato latte invece che lacrime, ora avreste, al posto del nulla, un bel po’ di caciotte cagliate nella credenza.
Ma, sciocchine care, non è così.
Io sono qua – in Africa, infatti, ho corso più veloce del leone che voleva pranzare con me – e a voi non resta che consolarvi con questo nuovo episodio dell’immarcescibile investigatore privato Andrea Doria.
Per gli uomini morto, con le donne cascamorto.
Uì, se muà.
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Capitolo 2 - Bella, ciao
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Proprio nel momento in cui ero pronto ad utilizzare mezzi alternativi, tipo seduta spiritica, per far sì che qualcheduno apparisse nel mio ufficio, ecco che, di sua spontanea volontà, uno si materializzò davvero dinanzi alla porta d’ingresso.
Evidentemente aveva trovato il portone di sotto aperto – e la colpa è sempre di chi sta in affitto – ed ancor più evidentemente, dopo aver (questa volta io) sbirciato dallo spioncino, dovetti rassegnarmi al fatto che non era uno, e se per questo neanche due, erano, bensì una.
Una pulzella, intendo. Dunque pane per i miei affilati canini.
La feci accomodare con un gesto di braccia molto difficile da rendere con le parole: dall’alto verso il basso e da sinistra a destra a palmo aperto come chi, all’entrata di una reggia, si pone di lato e all’unisono con il colpo di tacchi prima fa accomodare l’ospite e poi lo annuncia come chi sa chi cazzo fosse.
Tipo monsieur Pierre-Alexis Ponson du Terrail, settimo visconte di Grenoble, in arte Rocambole.
Colei che speravo diventasse la mia nuova cliente si chiamava invece semplicemente Antonia.
Nome da maschio con la a finale.
La sua testolina, che iniziò subito a muoversi come un periscopio alieno, era dotata di un caschetto di capelli neri alla Cleopatra, labbra carnoidi, nasino a patatìpatatà e occhi verde marino ornati da lunghe ciglia posticce che, ad ogni battito, mi ricordavano l’alzata di fanali dell’auto di Ginko, che era francese ma gli italiani l’avevano soprannominata Ferro da Stiro.
Debbo ammettere che tuttavia le gambe erano di gallina, anche se ben compensate da un petto di pollo taglia extra su cui sarebbe stata cosa buona e giusta vincere almeno un Gran Premio della Montagna. Con tanto di giro d’onore sui capezzoli, due vere Cime Coppi.
In linea con la descrizione si presentò come «Antonia Coppedè», che io ovviamente recepii Coccodè
.
Quanto a me, la osservai come lo si può fare con un cappotto in inverno o con il burro cacao in autunno. Consapevole, poi, che al dunque mi avrebbe sbagliato anche la tabellina del quattro, diedi freno alle mie fantasie più spinte.
Le donne così, infatti, sono proprio quelle che ti conducono per mano verso la rovina. E ve lo dice uno che, non per vantarsi, è stato allevato da cinque nurses, cinque puttane – presenze fisse in casa Doria – che mi hanno iniziato all’erotismo satanico, ed erotismo va letto con la erre moscia.
Ci tengo.
Insomma, a costo di offendere le tante sdrucciole presenti nel mio personale vocabolario, era un’autentica bisdrucciola ad affollare la mia testa d’abbacchio.
Evitala
mi ripetevo.
Ed infatti, vedrete, non la eviterò.
Quando si sedette dinanzi a me, dall’altra parte del tavolo della camera di ricevimento, cambiò all’improvviso la postura mimica. Voglio dire che, smesso di ancheggiare, la bimba si tolse anche i panni da suadente e melliflua mangiauomini tramutandosi in una professoressa con gli occhiali.
Composta come, che so, il funerale di un novantenne, incominciò dunque a parlare e, strano a credersi, andò immediatamente al sodo. Come non me lo credevo e come non fa mai, ma proprio mai, il Presidente della Repubblica quando, noioso e banale, ci appare in tivù a reti unificate alle venti del trentuno di dicembre.
A proposito di televisione: ce l’aveva con la Rai, la pupa.
«Lei lo paga il canone?» aggredì all’improvviso.
«Beh sì, da una vita».
«E fa male!» sentenziò.
«D’accordo, smetto» risposi calmo, e la disarmante risposta la lasciò sconcertata.
«Un uomo disposto» mi disse «a mutare in maniera così repentina comportamento senza apparente motivo non è certo uomo di cui ci si possa fidare» commentò accompagnando alla frase un abbozzo di sorriso.
In effetti aveva colto nel segno. Anche se, a voler essere precisi o persino puntigliosi, in quelle parole era presente un’inesattezza: non era assolutamente senza apparente motivo. Perché il motivo c’era eccome e quindi riformuliamo la frase affinché le femmine capiscano – una volta per tutte e poi non tornerò più sull’argomento, promessa di nostromo – di che pasta sono fatti i pensieri di noi maschi, grandi e piccini o scapoli e ammogliati perché tanto non c’è differenza alcuna.
Ordunque: un uomo disposto a mutare in maniera così repentina comportamento pur di possedere qualcuna è una merda. Punto.
Anche qui ci starebbe bene il uì se muà. Per i puristi della lingua, per lo più critici che conoscono le strade del linguaggio ma non sanno guidare, scrivo oui c’est moi e traduco pure letteralmente in sì, sono io. Merde!
Pensate che una volta, diverso tempo fa, pur di fidanzarmi con una comunista mi feci la tessera di Rifondazione, presi a partecipare a tutte le manifestazioni a favore degli operai, degli ebrei, dei balubba, dei froci e dei panda e cominciai anche a riempire, biecunculus che non ero altro, la mia libreria con i più impegnati e cervellotici libri della Feltrinelli. Ogni mattina compravo Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Il Messaggero (cioè i cinque quotidiani più venduti in Italia, tutti rigorosamente di sinistra), mentre le sere, abbracciati sul divano di casa sua, c’era