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Alis Grave Nil
Alis Grave Nil
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Alis Grave Nil

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About this ebook

Sara è pronta per un altro giorno della sua solita vita. La scuola, i dispetti della sorella Reb, le malignità delle vecchie amiche e la certezza di non contare granchè. E' sicura che l'amore non faccia per lei e che le favole siano solo invenzioni per sognatrici. Ma proprio quel giorno, in un incontro tutt'altro che casuale, conosce Eric. Bellissimo e misterioso, protettivo e minaccioso, Sara intuisce che Eric è decisamente più che un ragazzo normale, ma quello che proprio non può immaginare è che la loro storia sia cominciata molto prima di incontrarsi e che le parole latine tatuate sul suo braccio nascondano un inquietante segreto... Senza curarsi di quanto il principe si confonda pericolosamente con il cacciatore, Sara dovrà lottare con tutta se stessa per opporsi alle forze oscure che minacciano di separarli per sempre e far vivere l'amore da fiaba che ha sempre desiderato.

Recensito positivamente su oltre 40 blog:

«La lettura risulta fluida, veloce, accattivante al punto da non poter smettere, ma di desiderare leggerlo tutto d'un fiato. Assolutamente non prevedibile, è ricco di colpi di scena, fino all'ultima pagina, alla quale si giunge con la tensione alle stelle. Barbara Schaer riesce a farci affezionare, con un solo libro, ai suoi personaggi, così ben definiti e a tutto tondo che sembrerà di conoscerli e di gioire e soffrire insieme a loro.»
Romanticamente Fantasy

«.. trovare, invece, delle gran belle storie d'amore, capaci di farci trepidare, emozionare, piangere dalla sorpresa, è molto più raro. Eppure, io sono stata fortunata, perché ho incontrato una storia d'amore così nel romanzo di una giovane esordiente, "Alis Grave Nil", e ne sono rimasta davvero colpita. Una storia raccontata con dolcezza, una storia con dei protagonisti che si presenteranno a voi poco a poco fino a farsi amare totalmente, una storia che inizia in nessun modo straordinario ma che straordinaria lo diventa leggendola.»
Coffee and Books

«Ho letto questo libro in un giorno. L'ho praticamente divorato. E questo dovrebbe bastare a farvi capire qual è il mio giudizio su Alis Grave Nil...un libro che si legge tutto d'un fiato, scorrevole, fluido, mai noioso con personaggi ben caratterizzati e descrizioni giuste che non spezzano il ritmo del racconto.»
Inside a Book

LanguageItaliano
Release dateMay 28, 2013
ISBN9781301363971
Alis Grave Nil
Author

Barbara Schaer

Ho ventinove anni, vivo a Genova con mio marito e lavoro ormai da qualche anno nel settore informatico. Sono un’appassionata lettrice, divoro tutti i generi anche se in questi ultimi tempi sono diventata una fan accanita dell’urban fantasy, e adoro scrivere fin da quando ero piccola.Alis Grave Nil è il mio primo romanzo, un piccolo grande sogno che si è avverato :)

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    Alis Grave Nil - Barbara Schaer

    Bello e impossibile

    Il bigliettino precipitò sul mio quaderno per gli appunti e io lo nascosi disinvolta sotto il palmo della mano.

    Con la coda dell’occhio vidi Laura ammiccare dietro alle lenti spesse, un sorriso buffo che le metteva in mostra impertinente la fessura fra gli incisivi.

    "Ho bisogno di scarpe nuove. Mi accompagni?"

    Abbozzai un sorriso. Ovvio che sarei andata.

    Non tanto perché una nuova amica nella nuova scuola mi avrebbe fatto comodo né perché andassi matta per i centri commerciali, ma non potevo rifiutare l’occasione di stare lontana da casa per quell’abbondante paio d’ore.

    Appallottolai il biglietto e lo feci sparire nell’astuccio.

    La Marchetti si era assuefatta alla monotonia della sua voce, blaterava da quando aveva messo piede in aula senza dar segni di un’imminente conclusione, e di certo non faceva caso alla tragica apatia che mi circondava.

    Ventidue paia di occhi spenti, ventidue penne abbandonate su altrettanti quaderni.

    Se c’era una cosa che rimpiangevo della vecchia scuola erano proprio i professori. Riuscivano a essere un tantino più interessanti di quelli nuovi, almeno.

    Per il resto non me la cavavo male.

    Nessuno che conoscesse il mio passato, nessuno che mi facesse domande, nessuno che mi considerasse granché. Alla fine era stata una fortuna non avere i soldi per pagare la retta ed essere costretta a ripiegare su un liceo statale, almeno a scuola la mia esistenza era notevolmente migliorata.

    Prima di tutto la compassione non faceva davvero per me e se tutti sapevano in che modo ero diventata orfana non potevo difendermi.

    In secondo luogo i miei nuovi compagni si erano dimostrati molto meno perfidi di quelli vecchi, che sebbene non vedessi dal giorno del funerale dei miei genitori non riuscivano proprio a mancarmi.

    Di quello che era stato il mio mondo fino a sei mesi prima erano rimaste solo Lilli, Fede, Cri e Pi, e loro sì che insieme a mia sorella Reb mi davano del filo da torcere. Per quanto avessi imparato a fronteggiarle riuscivano ogni volta a ferirmi.

    La campanella ci venne in soccorso alle tredici in punto, e la Marchetti fu sorpresa di constatare quanta vitalità ci fosse in realtà fra quei banchi silenziosi.

    Provò a urlare il numero delle pagine da studiare per la lezione successiva, ma il tentativo si perse nel trambusto dei banchi e delle seggiole grattate sul pavimento.

    «Allora mi accompagni?» Laura mi guardava impaziente.

    «Certo. Perché no?»

    La totale libertà di cui godevo a soli sedici anni non smetteva di affascinarla.

    «Ma non devi avvisare qualcuno?»

    «Di cosa?»

    «Che pranzi fuori.»

    «Ah...» mi caricai lo zaino sulla spalla, per fortuna al sabato era mezzo vuoto «manderò un messaggio a mia sorella.»

    «Farà storie?»

    «Mi ricorderà soltanto che devo passare in tintoria.» Soppressi un sorriso. Non conosceva Reb, dopotutto. «Sta’ tranquilla, ti accompagno volentieri.»

    «Bene! Meno male.» Mi affrettai a seguirla nella folla che ondeggiava verso l’uscita. «Dovevo andare con mia cugina, ma mi ha dato buca. E mia mamma non vuole che vada in giro da sola.»

    Sbuffò risentita e io le sorrisi amichevole, non mi pesava affatto l’idea di essere solo un ripiego.

    «Che scarpe ti servono?»

    «Qualcosa per stasera... che si abbini alla gonna nuova.»

    «Per il concerto?»

    «Sì, esatto...» mi guardò vagamente colpevole, poi parve illuminarsi. «Ehi! Ma perché non vieni anche tu? A mia cugina è avanzato un biglietto... sarà divertente!»

    Doveva trattarsi di una sorta di benvenuto nella cerchia delle sue amicizie, qualcosa che nella vecchia scuola non mi era mai capitato. Era una sfortuna dover rifiutare, tutto sommato una nuova amica mi avrebbe davvero reso la vita più facile.

    «Ti ringrazio tanto, ma stasera proprio non posso.»

    «Sicura?»

    «Sì... ho già un impegno. Immancabile, azzarderei.»

    «Ti vedi con uno?»

    «Come?» Strabuzzai gli occhi, si trattava della possibilità più remota che potessi concepire. «No, figurati, ho in programma un’uscita con mia sorella e le altre... un addio al nubilato.»

    «Addio al... nubilato?»

    Capivo che l’idea le facesse impressione, io stessa avevo impiegato parecchio per digerire la cosa.

    Cristina si sposava. Si sposava a soli vent’anni e per di più con un ragazzo che conosceva da appena sei mesi. L’amore doveva essere proprio folle a volte, folle e pazzesco. Folle, pazzesco e bellissimo, avrei dovuto aggiungere, giusto per non mentire troppo alla mia vena romantica. Comunque sia erano tutti motivi più che validi per starne alla larga, dopotutto.

    «Niente di impegnativo, giusto una bevuta fra ragazze. Ma non posso mancare» precisai.

    «Caspita quanto ti invidio!»

    La guardai sorpresa, il motivo del suo entusiasmo mi sfuggiva completamente.

    «Ma sì, dai, uscire con quelli più grandi... troppo forte!»

    «Be’...»

    «Passaggi in auto, alcol, discoteche...» Aveva l’aria sognante. «Niente genitori fra i piedi... totale indipendenza.»

    «In un certo senso, sì.»

    «Sara, una volta mi devi portare con te.»

    A quel punto la fissai inorridita, non potevo gettare la mia quasi-nuova amica nella fossa dei leoni. Con quegli occhiali e quell’abbigliamento bizzarro l’avrebbero massacrata all’istante.

    «Sì, insisto! Promettimelo.»

    Decisamente non conosceva Reb e le altre. Io avrei dato qualunque cosa pur di non essere costretta a trascorrere un’intera serata con loro, ma temevo che in quel caso le frecciatine e le ripicche sarebbero state ancora più insopportabili e acide del solito.

    «Okay, una di queste volte...» le promisi tenendomi sul vago.

    «Fantastico! Non vedo l’ora!»

    «Già...» tossicchiai. «Pure io.»

    Passammo dalla panetteria vicino alla scuola. Presa da un inconsapevole impeto di gratitudine pagò di tasca sua i due panini farciti al prosciutto e le bibite, e poi saltammo sul primo autobus diretto verso la periferia della città.

    La zona industriale era fiorita grigia e monotona a ridosso del mare e sarebbe stata totalmente da evitare non fosse stato per il centro commerciale e il multisala, ovvero il centro divertimenti più interessante di tutta la città. I due edifici sfavillanti di insegne al neon e illuminazioni natalizie spiccavano allegri sull’uniformità atona del territorio, e promettevano acquisti facili e tanto relax.

    Ghirlande di lucine intermittenti piovevano dal tetto fino a metà della facciata esterna e poco oltre l’entrata brillava un enorme albero di natale. Seguii Laura a sguardo basso, tentando di non fare caso a tutto quel luccichio fastidioso e al coro di voci allegre che risuonavano nell’atrio.

    Quell’anno, per la prima volta senza i miei genitori, il Natale avrebbe avuto un sapore decisamente diverso. Amaro, in generale. Da far venir da piangere. E tutta quell’aria festosa non mi aiutava affatto a migliorare l’umore.

    «Wow! Guarda che bello!» squittì allegra, del tutto inconsapevole del mio dramma interiore.

    Indicò il reparto addobbi natalizi, costringendomi a notare che la felicità sembrava baciare abbondante la maggior parte della popolazione cittadina. Provai strenuamente a resistere alle fitte allo stomaco, in fondo si trattava solo di vischio sintetico e palle di vetro colorato, ma non ebbi la minima fortuna.

    Quando si ritenne soddisfatta proseguimmo oltre per concentrarci sulla nostra missione, ma nonostante il budget piuttosto cospicuo trovare un paio di scarpe adatte all’occasione si rivelò molto più difficile del previsto. Dopo un primo sopralluogo in cui si limitò a osservare minuziosamente le vetrine la seguii dentro e fuori sei negozi differenti dove, a dispetto di tutti i miei tentativi di blandirla e di convincerla a capitolare, la vidi provare e scartare modelli che avrebbero stracciato le mie scarpe da ginnastica vecchie di almeno un decennio in qualunque concorso di bellezza.

    Alla fine si decise per un paio di stivali fantasia senza tacco e con la cerniera laterale.

    «Sono soddisfatta» decretò uscendo dal negozio con la borsa fra le mani. «Tu cosa ne pensi?»

    «Ti stanno bene» la rassicurai, senza pensarci troppo.

    «Ti piacevano di più gli altri? Quelli neri tinta unita?»

    «Erano belli anche quelli.»

    Si bloccò, improvvisamente incerta. «Dici che li avrei sfruttati di più?»

    Liquidai il desiderio di strozzarla e la presi sottobraccio. «Neanche per idea» mentii. «Quelli che hai comprato sono perfetti.»

    «Hmm... sì, forse hai ragione.» Ci pensò su un attimo, poi ricominciò «credi che a Simo possano piacere?»

    «Simo?»

    «Sì... sai il nostro compagno di classe?» Mi guardava come se fossi affetta da stupidità acuta. «Stasera viene anche lui.»

    «Sì, penso di conoscerlo...» replicai tenendo a bada il sarcasmo. «E non credo che gli interessino gli stivali.»

    Era uno di quei ragazzi più propensi a guardarti il fondoschiena.

    «Sembra che non ti piaccia per niente.»

    «Infatti non mi piace.»

    Arricciò il naso scettica. «E allora chi ti piace?»

    «Nessuno.»

    «Nessuno?»

    «Già.»

    «E perché?»

    Trattenni una risata e provai a distrarla. «Ti va un caffè?»

    «Magari un gelato.»

    «Be’, comunque sia... per di qua.»

    La trascinai fino al mio locale preferito e la costrinsi a sedere al primo tavolino libero.

    Poggiò a terra la borsa e aprì il menù perdendosi fra tutte le descrizioni e le foto delle coppe gelato.

    «Tu che prendi?» mi domandò, mordicchiandosi il labbro indecisa.

    «Un caffè americano.»

    Avevo decisamente bisogno di caffeina, i tre caffè di quella mattina avevano ormai esaurito il loro effetto e iniziavo a sentirmi nervosa.

    «Hmm...»

    La cameriera arrivò frettolosa con la penna pronta a scarabocchiare energica il block notes.

    «Un caffè americano e un banana split con doppia panna.» Ordinai per entrambe e strizzai l’occhio a Laura. «Ti piacerà, vedrai.»

    Accettò la mia decisione di buon grado e abbandonò la lista sul tavolo, guardandosi pigramente intorno.

    «Quindi non stai con nessuno e non ti piace nessuno...»

    «Proprio così.»

    Provò a saggiare la mia buona fede con un’occhiata lunga e indagatrice e alla fine riuscii a convincerla. Decisamente non ero né un pericolo, né una concorrente, e ne sembrò piuttosto soddisfatta.

    A un certo punto il suo sguardo sembrò accendersi e capii all’istante che il suo radar aveva intercettato qualcosa. O meglio, qualcuno.

    Si piegò sul tavolino, sussurrando cospiratoria. «Ehi! Guarda alla tua destra... quei tizi laggiù.»

    Mi voltai impercettibilmente.

    «Ci stanno guardando!»

    Non ero sicura che avesse ragione. Nonostante la conoscessi molto poco ero pronta a scommettere che in quelle situazioni si lasciasse prendere un po’ troppo la mano.

    «Che te ne pare? Carini no?»

    «Forse... da qui non si vede bene.»

    Mi concentrai sulla tazza di caffè fumante che mi avevano appena servito.

    «Sì, accidenti! Quello con il giubbotto di pelle è proprio bello...»

    «Forse...» tornai a ripetere, per nulla interessata all’argomento.

    «Ecco, si è girato di nuovo.»

    Sbuffai e mi voltai anch’io. Laura aveva ragione, ci stavano guardando. Il tizio con il giubbotto di pelle giocherellava con un tovagliolo e ci fissava serio, mentre l’altro teneva le braccia incrociate sul tavolo e ripeteva insistentemente qualcosa all’amico.

    «È vero.»

    «Che ti dicevo? È proprio bello... ce ne fossero di ragazzi così a scuola! Invece siamo circondate da una serie di mostri infinita» terminò con una smorfia di autentico disappunto. «A parte Simo, ovviamente.»

    «È vero che ci stanno guardando» puntualizzai per tentare di scoraggiarla.

    «Perché non li salutiamo?»

    «Laura!»

    «Be’? Che c’è? Se tu non sei interessata io invece lo sono... perché non mi fai da spalla?»

    «Non mi va.» Mi impuntai, allarmata. «E poi non ne sarei in grado.»

    Strizzò gli occhi per nulla intenzionata a lasciarsi convincere, ma il suo cellulare prese a squillare.

    «Pronto?» Si pigiò il cellulare all’orecchio. «Pronto? Pronto? Non sento niente...» Abbassò il telefonino. «Non c’è campo. È mia mamma, provo a richiamarla.»

    Si alzò agitata e sparì nella ressa fuori dal locale.

    Tirai un sospiro di sollievo. Appena in tempo per evitare la discussione in cui sarei stata costretta a spiegarle che per quanto mi riguardava con i ragazzi avevo chiuso. Laura sembrava sveglia, ma ero sicura che le mie motivazioni proprio non le avrebbe capite. Di tutta la mia argomentazione Fabio, il ragazzo con cui uscivo, mi ha lasciata per stare con mia sorella, si sarebbe concentrata sull’unico particolare insignificante: Fabio era più grande di me. Decisamente non sarebbe stata la persona giusta con cui parlarne.

    Nella sua coppa la panna si stava squagliando, quindi ne raccolsi un po’ con il cucchiaino e l’aggiunsi al caffè per stemperarne l’amaro. Così sarebbe stato perfetto.

    «Ciao» mi salutò una voce profonda e gentile. «Posso sedermi?»

    Sollevai lo sguardo. Il ragazzo con il giubbotto di pelle era proprio vicino a me e mi guardava sorridendo. Un sorriso luminoso e delicato.

    «Sì» risposi come un automa, cogliendomi completamente di sorpresa.

    Tutti i discorsi che riguardavano Fabio si dissolsero all’istante, la mia mente si fece completamente vuota mentre un fischio sordo iniziò a pulsarmi nelle orecchie assieme al motivetto anni ottanta canticchiato alla radio.

    Bello bello impossibile

    con gli occhi neri e il tuo sapor mediorientale

    bello bello invincibile

    con gli occhi neri e la tua bocca da baciare

    girano le stelle nella notte e io

    ti penso forte forte ti vorrei...

    «Grazie.»

    Prese posto davanti a me disinvolto e rimase in silenzio.

    Mi agitai sulla sedia e trangugiai il caffè tutto d’un fiato giusto per tenere le mani occupate ed evitare, parlando, di fare la solita figuraccia da ragazza imbranata e impacciata di sempre.

    La pelle chiarissima gli metteva in risalto gli occhi tanto da farli sembrare scuri molto più del normale, e la bocca contratta in un sorriso sporgente pareva volermi prendere in giro.

    «Cerchi qualcosa?» lo affrontai alla fine, imponendomi di sentirmi infastidita.

    «Sono Eric» mi rispose dopo una pausa, porgendomi la mano.

    Gliela strinsi incerta. «Sara.»

    «Comprato qualcosa di interessante?»

    «Non io.»

    Mi osservò pensoso, come se stesse valutando qualcosa che mi riguardava, e non proferì parola. Iniziavo a sentirmi a disagio, ma Laura arrivò proprio in quel momento prontissima a salvarmi.

    La sorpresa di trovarlo al nostro tavolo a dispetto della mia riluttanza le fece spalancare gli occhi e gonfiare le guance rotonde. Subito dopo mi lanciò un’occhiataccia offesa, come se avessi appena commesso alto tradimento.

    Mi affrettai a rimediare.

    «Laura, questo è Eric. Eric, Laura.»

    Si piazzò in mezzo a noi infilando la sedia ben sotto il tavolino per coprirmi la visuale, e io la lasciai fare senza muovermi di un millimetro. Dopotutto l’aveva visto lei per prima, e in fondo non doveva importarmene granché.

    «Il tuo amico non si unisce a noi?» chiese innocente, provando in un lampo di generosità a sistemare anche me.

    Le sorrise appena. «Deve andare via.»

    Vidi il suo amico affrettarsi alla cassa per pagare. Era parecchio alto, con i capelli rasati e gli occhiali da sole inforcati nonostante la luce artificiale.

    «E tu invece? Rimani un altro po’?»

    «Penso di sì...» Provò a guardami, ma Laura ne intercettò lo sguardo allungando il collo con gran prontezza di riflessi.

    Non era particolarmente carina, i capelli tagliati corti le enfatizzavano esageratamente il viso paffuto, ma sopperiva abilmente alle sue mancanze estetiche con una simpatia sfrontata e una spigliatezza ingenua fuori dal comune. Qualità che, purtroppo, in quel momento faticavano a emergere. Stava tragicamente annaspando in cerca di argomenti con cui fare colpo, mentre lui non le lasciava nemmeno il minimo spazio di manovra.

    Per essere uno che aveva appena finito di abbordarci non aveva una brillante strategia, si limitava a guardarci, con le mani affondate nelle tasche del giaccone e una gamba incrociata sull’altra, come se tutti i passi successivi toccassero a noi. Decisamente troppo sicuro di sé, decisamente troppo arrogante, decisamente troppo bello. Bello e impossibile, appunto.

    «Ehi!» esclamò Laura, ravvivandosi. «Mia cugina ha un biglietto in più per il concerto di stasera, ti va di venire?»

    Mi stava rimpiazzando con un perfetto sconosciuto, ma rimasi zitta, affaccendata con il cucchiaino e il fondo di caffè nella tazza.

    «Tu ci vai?»

    La domanda era diretta a me e Laura fu sul punto di spezzarmi la tibia con un calcio ben assestato sotto al tavolino.

    «No...» bofonchiò risentita, «lei non viene. Deve uscire con le sue amiche maggiorenni.»

    «Sembra divertente.»

    I suoi occhi erano incollati al mio sguardo fisso sulla tazza vuota.

    «Non esattamente» lo corressi in palese difficoltà.

    Laura mi guardava male, non riusciva proprio a digerirle tutte quelle attenzioni che Eric mi riservava. Le avevo fatto chiaramente capire che mi era indifferente e suscitarne l’interesse costituiva una vera ingiustizia.

    Fortunatamente il cellulare tornò a disturbarla. «È mia mamma» sbuffò irritata. «È tardi, dice che devo tornare a casa se voglio uscire stasera.»

    Recuperò lo zaino e la borsa, guardandomi interrogativa. «Andiamo?»

    «Devo passare in tintoria...» mi sfuggì del tutto involontariamente, e lei mi fulminò con uno sguardo arrabbiato. Evidentemente non conosceva Reb, se non le avessi portato il vestito che aveva scelto per la serata mi avrebbe condannata ad atroci tormenti.

    «Quindi rimani?»

    «No... be’...» mi ingarbugliai nei miei stessi pensieri, «vengo anche io.»

    Mentre stavo per alzarmi la voce morbida di Eric tornò a confondermi. «Perché non ti fermi a bere una cosa?» Mi guardava serio, incredibilmente convincente. «Ci vai dopo in tintoria.»

    L’impressione che in lui ci fosse molto più di quanto fosse apprezzabile a occhio nudo non riusciva a non affascinarmi e rimasi a guardarlo trasognata. Poteva la sua pelle sembrare tanto chiara da brillare?

    Impiegai un secondo di troppo a rispondere e Laura non riuscì a perdonarmelo andando in escandescenza come si fosse trattato di un torto spietato. «Ho capito!» sbottò, «rimani pure qui! Divertiti! A casa ci torno da sola...»

    Non mi diede il tempo di replicare e sparì impettita nella ressa che sbandava fra le due file di vetrine luccicanti e io mi ritrovai sola con lui.

    Il brusio chiassoso e la presenza dei tavoli affollati intorno a noi non sembravano disturbarlo, mi guardava come se fossi stata l’unica ragazza presente in quel locale.

    «A quanto pare hai perso un’amica» commentò, senza lasciar trapelare il minimo senso di colpa.

    «Non siamo granché intime» sussurrai. «Siamo solo compagne di scuola.»

    «Meglio così.»

    «Le passerà...» Arricciai il naso. «Almeno spero.»

    Dovevo inventarmi il modo di farmi perdonare o la vita nella nuova scuola avrebbe finito per assomigliare pericolosamente a quella vecchia.

    La cameriera accorse a un suo minimo accenno, doveva essere impegnata a fissarlo da un bel po’, e gli rivolse il miglior sorriso del suo repertorio. «Per me un’acqua tonica. Tu che prendi?»

    «Niente. Sto bene così.»

    «Nemmeno un dolce? Magari una fetta di torta?»

    Scossi la testa frastornata. «Sto bene così.»

    Attese che la cameriera si allontanasse, poi il suo sguardo si fece curioso. «Ti sto mettendo in imbarazzo?»

    «Forse un pochino...»

    «Scusami.»

    C’era qualcosa nella sua fisionomia che mi pareva incredibilmente rassicurante, ma non riuscivo a indovinare di cosa si trattasse. Non gli occhi, follemente scuri, non la carnagione quasi trasparente, né l’atteggiamento tanto sicuro e deciso. Probabilmente c’entrava quella compostezza, quella voce posata e tranquilla che riuscivano ad ammorbidire tutto il resto dei suoi tratti.

    «Quindi le tue amiche maggiorenni sono più simpatiche di Laura e sua cugina?»

    «No...» soffiai. «È solo che l’ho promesso a Reb... più che altro mi ha estorto la promessa con l’inganno. Come sempre, del resto. Non può proprio perdere nessuna occasione per umiliarmi!»

    Sogghignò divertito. «Lo capisco...»

    Rimasi a guardarlo incantata.

    «Reb è mia sorella» gli spiegai, e per un attimo sembrò confondersi.

    «Sì... l’ho immaginato» balbettò, cambiando finalmente posizione per farsi più vicino.

    «Come mai?»

    Si strinse nelle spalle e tracannò l’acqua tonica in un paio di sorsi nervosi. «Non so, intuizione.»

    Nello spazio di un secondo il suo atteggiamento sembrò cambiare radicalmente. Diventò socievole e allegro, ancor più seducente.

    «Allora, dov’è la tintoria?» mi domandò affabile.

    «In centro.»

    «Perfetto. Ti va se ti accompagno?»

    Il sorriso gli saettò imprevedibile sul viso, luccicante come quello di un lupo, e si alzò di slancio.

    «Accompagnarmi? Scherzi?»

    Raccattai lo zaino e lo pedinai fino al bancone. «Accompagnarmi?» ripresi. «Con la macchina?»

    «Certo. Con cosa, sennò?»

    Tirò fuori il portafoglio dalla tasca dei jeans e chiese alla cameriera il conto del nostro tavolo.

    «No, aspetta!» farfugliai. «Non posso accettare...»

    «Il passaggio? Figurati! Si dà il caso che vada anche io in quella direzione...»

    «No» protestai, frugando nello zaino alla ricerca dei soldi. «O meglio, sì... cioè, non posso accettare né che offri tu, né che mi porti fin là.»

    Lo sentii ridacchiare mentre la cameriera batteva i prezzi con le labbra tirate in un sorriso del tutto fuori luogo.

    «Accidenti, non lo trovo.»

    «Che cosa?»

    «Il portafoglio... non c’è.»

    «Avanti... guarda bene. Non può essere scomparso.»

    Lasciò una banconota da venti e rifiutò il resto.

    «Ma lo tengo sempre qui!»

    Gli mostrai la tasca anteriore, era vuota.

    «Magari per sbaglio l’hai spostato.»

    «Non sposto mai le cose per sbaglio.»

    «Okay... svuotalo qui e controlla di nuovo.»

    Mi mostrò un tavolino libero e rimase impalato e attento durante tutta la mia ispezione.

    «Niente da fare... non c’è. L’ho perso o me l’hanno rubato...» Mi morsicai il labbro sconsolata, cercando di fare il punto di quanto ci fosse all’interno. «I soldi per la lavanderia! Erano di Reb...» esclamai. «Adesso come faccio?»

    «Tranquilla, Sara. Te li posso prestare io...»

    «E i documenti!» Mi colpii la fronte con il palmo di una mano. «E l’abbonamento dell’autobus!» Più andavo avanti con quell’elenco, più la disperazione aumentava.

    «Sara, calmati» tentò di consolarmi, stupito e preoccupato. «Non è un problema, ho la macchina qui vicino... ci mettiamo un attimo. Ti porto in lavanderia e poi a casa... lì da te c’è anche una caserma dei carabinieri, no? Ti accompagno io...»

    Ammutolii e rimasi a fissarlo guardinga.

    «Come sai dove abito?»

    Si era tradito, era chiaro tanto a me quanto a lui. Il suo sguardo si era fatto piatto e vago, colpevole.

    «Ci conosciamo?» continuai, senza ottenere migliore risposta del silenzio.

    A quel punto mi resi conto di quanto la sua presenza, tanto solitaria nell’affollamento di quel centro commerciale, fosse inquietante.

    Era alto, molto alto, e il giubbotto sembrava nascondere a stento una struttura ossea sopra la norma.

    «No...» ammise riluttante. «Non ci conosciamo.»

    «Sei un amico di Reb?»

    Effettivamente sembrava proprio il suo tipo, in più doveva avere su per giù la sua età e quando l’avevo nominata aveva subito capito di chi stessi parlando.

    «No, non sono amico di Reb...»

    «Allora mi hai spiata!»

    La gravità di quell’insinuazione mi colpì lo stomaco come un pugno e mentre i miei occhi si spalancavano diffidenti e impauriti i suoi si affannavano alla ricerca di una spiegazione plausibile.

    «Stammi lontano» lo minacciai in un sussurro, e caricandomi lo zaino sulle spalle misi in atto il piano di fuga appena elaborato.

    «Non ti ho spiata» mi urlò dietro, punto sul vivo.

    Mi tuffai nel flusso di persone percorrendolo in direzione contraria, puntando le scale più vicine che mi avrebbero condotta al piano terra e quindi all’uscita.

    Non era una strategia vincente, il fatto che conoscesse la via dove abitavo non mi dava un gran vantaggio, ma lì per lì scappare mi era sembrata la soluzione migliore. Forse perché mi ero resa conto che non si era seduto al mio tavolo per caso o per interesse personale, ma sicuramente per un secondo fine che ancora non conoscevo. E l’idea di essermi un’altra volta illusa mi bruciava parecchio, mi bruciava fino a farmi scappare.

    «Aspetta» continuò, fendendo la folla apparentemente senza sforzo. «Dove vai? Sei senza un soldo!»

    Mi voltai a guardarlo. Non sembrava intenzionato ad abbandonare la presa, ancora una falcata e mi avrebbe raggiunta.

    «Perché mi stai seguendo?» gli domandai con voce strozzata. «Smettila!»

    «Fermati un attimo, ti posso spiegare.» Scartai di lato, ma lui mi rimase alle calcagna. «Avanti, Sara!»

    Raggiunsi le scale e poi la porta girevole e in un attimo fui fuori.

    La sera era calata in fretta, i lampioni erano già tutti accesi e brillavano fra i rami spogli degli alberi dando vita a un paesaggio malinconico e fiabesco.

    Superai il cancello d’accesso al centro commerciale quasi correndo e nel tentativo di distanziarlo mi lanciai sulle strisce pedonali senza fare caso alle macchine in arrivo. Un’auto inchiodò sibilando a pochi centimetri da me e l’autista, un ragazzo sui vent’anni che stava ascoltando musica techno a tutto volume, si attaccò al clacson sporgendosi dal finestrino per urlare insulti più che meritati.

    «Guarda dove vai la prossima volta! Sei una pazza! Non ti hanno insegnato ad attraversare la strada?»

    Rimasi ad ascoltarlo inebetita. I fari mi abbagliavano disorientandomi e il cuore mi batteva nel petto a tonfi. Sarebbe mai finito quel calvario? Ogni volta che capitava qualcosa del genere non riuscivo a non pensare all’incidente con i miei, carrozzeria accartocciata e vetri spezzati. Urla e pozze di sangue. Iniziai a tremare, ma Eric mi riscosse.

    «Ehi! Vedi di rallentare la prossima volta» abbaiò minaccioso e colpì il cofano dell’auto con un pugno mentre con uno strattone mi spingeva di lato, verso il marciapiede. Lo sguardo gli saettò incollerito dalla macchina al ragazzo seduto al volante. «Ci mancava poco e l’avresti investita!»

    L’autista si zittì e perse in un attimo ogni audacia. Si rintanò all’interno dell’abitacolo sbiancando e appena la via fu sgombra ripartì con una sgommata.

    Di certo Eric faceva un certo effetto, le spalle larghe bilanciavano perfettamente la sua altezza privandolo dell’incedere allampanato tipico di tutti quelli della sua statura, e la corporatura robusta faceva pensare più che altro a un pugile o comunque a un lottatore professionista.

    «Stai bene?» mi domandò, allarmato.

    «No finché mi segui» proruppi.

    Essere attratta dal suo tentativo di difendermi non faceva altro che alimentare la mia irritazione.

    Ripresi a camminare, questa volta verso la fermata dell’autobus più vicina.

    «Eddai, Sara! Non sono pericoloso.»

    Non ne sembrava convinto e, comunque, non riuscì a convincere me.

    Non lo degnai di uno sguardo, finsi di non averlo neppure sentito, e continuai imperterrita a camminare finché lui perse la pazienza. Con uno scatto rapido fu al mio fianco e mi acchiappò per la maniglia dello zaino, bloccandomi la fuga.

    «Che ti è preso? Fermati un attimo» mi intimò severo.

    La mia reazione prese entrambi alla sprovvista.

    Mi voltai incollerita e gli piazzai una ginocchiata alla base dell’inguine con tutto lo slancio che la posizione ravvicinata mi consentì.

    Si piegò in due reggendosi il basso ventre con entrambe le mani, prova che ero andata a segno con precisione a dir poco impeccabile, e si inginocchiò per terra.

    Indietreggiai di qualche passo osservandolo incerta mentre masticava un’imprecazione irripetibile. «... era davvero necessario?!» grugnì, diventando paonazzo.

    Stavo per abbandonarlo proprio nel punto dove si era accasciato quando lo sentii rantolare qualcosa di abbastanza sorprendente.

    «Sono amico di Padre Dan, accidenti...»

    Mi bloccai.

    La morte è un mistero che non smetterà mai di sconvolgerci, ma quello che può aiutarci ad affrontarla è sapere che tutto il dolore che proviamo è solo per noi che rimaniamo.

    Quando Padre Dan aveva pronunciato queste parole al funerale dei miei genitori non era riuscito a farmi sentire meglio, avevo continuato a pensare che la morte fosse una vera fregatura sia per chi rimaneva che per chi ci lasciava, però lo avevo apprezzato. Era stato l’inizio di una bella amicizia. Di una grande amicizia.

    «Come hai detto?»

    «Finalmente ti sei fermata, eh?»

    «Cosa hai detto?»

    «Che dolore incredibile... e tanti saluti alle mie cosiddette capacità riproduttive.»

    Quel commento suonò talmente bizzarro che accantonai per un attimo la cautela.

    «Non esagerare, non può essere così terribile.»

    «Ah no? Ci vai giù pesante, altroché!» Sollevò su di me uno sguardo offeso.

    «Avanti... peso cinquanta chili scarsi e non faccio palestra.» Alzai gli occhi al cielo. «Non potrei essere letale per le tue capacità riproduttive neppure se mi ci lanciassi sopra.»

    Sogghignò, sollevando un ginocchio.

    «Preferisco non sperimentare, grazie.»

    Sbuffai.

    «Allora, cos’hai detto prima a proposito di Dan?»

    Sbuffò anche lui, alzandosi in piedi. Vederlo di nuovo ben dritto mi sollevò, per un attimo avevo temuto di avergli davvero compromesso... qualcosa.

    «Ho detto che sono suo amico...»

    «E perché ci hai messo tanto a confessarlo?»

    Sbuffò leggermente. «Non volevo tirarlo in mezzo...»

    «In mezzo a cosa?»

    «A noi due.»

    Sfoderò un sorriso sorprendente, e io boccheggiai, ma resistetti senza darmi per vinta.

    «Come lo conosci?»

    Strizzò gli occhi. «Amici comuni.»

    «Non ti ho mai visto dalle sue parti.»

    «Sono... nuovo di qui» terminò in un sussurro stentato.

    «Come sai che sono sua amica?»

    «Mi ha parlato di te...»

    «Tu e Dan avete parlato di me?»

    Ero sorpresa e confusa, abbagliata da illusioni che non avevo il coraggio di confessare neppure a me stessa. Non dopo Fabio e tutte le decisioni che avevo preso sull’argomento.

    Sembrò riflettere, poi si decise a parlare. «Ho bisogno di un piccolo favore.»

    «Da me?»

    Sospirò a fondo. «Sì.»

    Speranze e illusioni si incrinarono scricchiolando.

    «È per quello che sei venuto al nostro tavolo?»

    Un altro sospiro, lievemente in imbarazzo. «Sì.»

    Speranze e illusioni si ruppero in milioni di frammenti.

    Bello e impossibile, proprio come diceva quella vecchia canzone che ascoltava sempre mia madre. Anche solo sperare potesse essere in qualche modo interessato a me era pura follia.

    «Non potevi aspettare che ci presentasse Dan?» lo affrontai determinata a non farmi sopraffare dall’amarezza per quel fallimento.

    «Te l’ho detto... non volevo coinvolgerlo. Ti ho riconosciuta e be’...» si strinse nelle spalle. «Mi è sembrato il momento giusto per conoscerti.»

    «Di che si tratta? Cosa ti serve?»

    Sembrò smettere di respirare, gli occhi gli divennero talmente seri e torbidi da darmi i brividi.

    Poi si guardò lentamente intorno.

    Ci trovavamo in una zona piuttosto appartata, a ridosso di un parcheggio per scooter. A qualche metro da noi gruppi di persone uscivano dal centro commerciale, attraversavano la strada e si dirigevano verso il multisala. Dalla parte opposta il traffico si accalcava attorno allo svincolo che imbottigliava le automobili verso il centro della città.

    Chiuse gli occhi e respirò a fondo. L’aria profumava di asfalto umido e sale, la sentivo appiccicarsi ai vestiti e ai capelli, madida dell’acquazzone appena terminato.

    «Ascoltiamo il consiglio di Padre Dan...» mormorò a se stesso.

    Quando li riaprì, i suoi occhi erano tornati pacati e tranquilli, e io rimasi imbambolata a osservare quei lineamenti delicati e quella carnagione così chiara e sfavillante del tutto dimentica dei brividi di paura appena provati.

    «Prima dobbiamo conoscerci un po’ meglio» mi spiegò enigmatico.

    Non mi azzardai a insistere, non volevo permettergli di dilatare ancora di più la delusione che già provavo.

    «Il tuo autobus...» mi avvisò con un cenno della mano. «Andiamo?»

    «Pensavo avessi una macchina...»

    Fece spallucce. «Preferisci se andiamo in autobus, vero?»

    «In effetti sì.»

    «Passerò a prenderla domani.»

    «Non devi accompagnarmi per forza.»

    «Be’... ti hanno rubato il portafogli. Mi fa piacere darti una mano.» Il sorriso gli brillò audace e io capitolai. Non riuscivo a guardarlo negli occhi senza sentire caldo al viso e non mi capacitavo dell’effetto che mi faceva. Era un ragazzo come gli altri dopotutto, apparteneva a una categoria che mi ero imposta di evitare, eppure non potevo dirgli di no. Fortunatamente da me voleva solo un favore, altrimenti sarei riuscita a cacciarmi davvero in un bel guaio. Proprio come con Fabio.

    Il mio autobus arrivò pochi secondi dopo, fermandosi nel fragore dei freni e aprendo le porte a soffietto con un tonfo secco.

    In un paio di balzi misurati raggiunse un posto a sedere ancora libero e aspettò pazientemente il mio arrivo sgomitante fra la ressa per permettermi di accomodarmi.

    «Grazie...»

    «Figurati.»

    Sembrava contento. Leggermente meno inquietante di poco prima. Le labbra arricciate in un sorriso sporgente lo rendevano di nuovo rassicurante.

    Restammo qualche istante in silenzio, guardando la città scorrere lucida di illuminazioni natalizie oltre il finestrino.

    «È davvero un bel periodo questo, non trovi?»

    «Così si dice in giro...» acconsentii di malavoglia.

    Mi guardò desolato.

    Sembrava capire più di quanto fosse possibile o sapere più di quello che avrei voluto.

    Se Padre Dan aveva spifferato lo aveva fatto assolutamente senza il mio consenso. Detestavo la compassione della gente. Almeno con gli estranei volevo potermi comportare come se non fosse successo niente.

    «Così stasera hai da fare con tua sorella?»

    Soppressi la speranza che si trattasse di un tentativo di invitarmi a uscire con lui. Dopotutto da me voleva solo un favore. Nient’altro.

    «Sì... Cristina si sposa e stasera festeggia l’addio al nubilato.»

    «Si sposa?»

    Di nuovo quella sensazione che sapesse più di quanto fosse sensato supporre.

    «Voglio dire, questo non è proprio periodo da matrimoni...»

    «Già...» ammisi. «È soltanto egocentrica. D’ora in avanti tutti noi ricorderemo il trentuno dicembre più per il suo matrimonio che per l’ultimo dell’anno.»

    «Ottima strategia.»

    L’autobus singhiozzava procedendo a rilento.

    «Reb mi ammazzerà...»

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