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Dominio incontrollato
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Dominio incontrollato

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Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro rappresentano dopo 32 anni una ferita ancora aperta nella storia italiana. Una vicenda della quale continuano ad emergere nuovi particolari e retroscena sconosciuti, tali da far concludere che la versione ufficiale, sostenuta anche dalle sentenze di numerosi processi, sia incompleta e insoddisfacente.
Le interpretazioni sui motivi che hanno spinto i brigatisti rossi, ma non soltanto loro, ad effettuare la strage di Via Fani, rapire il presidente della DC e ucciderlo al termine dei 55 giorni di prigionia, hanno infatti privilegiato una lettura politica “interna” e di tipo ideologico che è insufficiente a spiegare il filo conduttore lungo il quale la vicenda si è sviluppata.
In considerazione del fatto che l’Italia, nel periodo della Guerra Fredda era un Paese “a sovranità limitata”, ne consegue che una interpretazione geopolitica, capace di tenere conto di tutti gli interessi in gioco, deve essere invece la chiave di lettura per comprendere quanto è accaduto. Una visione a tutto campo che tenga conto in primo luogo della variabile rappresentata dagli equilibri dell’intera area mediterranea e di tutti i protagonisti che vi operavano.

LanguageItaliano
Release dateMay 2, 2014
ISBN9781311914033
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    Dominio incontrollato - Filippo Ghira

    Prefazione

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    Quelli di informazionecorretta saranno felici, un po’ di materiale in più…

    Il lavoro di Filippo Ghira compendia, riassume, fa riemergere, in 162 pagine tutto quello che non è corretto compendiare, riassumere e far riemergere sul delitto Moro.

    Con uno stile certosino, cuce strettamente gli indizi, gli interrogativi rimasti dietro le quinte e soltanto accennati dai vari Nino Galloni e Francesco Cossiga, Mino Pecorelli ecc. Tratta le centrali della destabilizzazione coinvolte, le Brigate Rosse e le brigate atlantiche, l’Hyperion di Parigi ed il Club di Berna, la CIA e l’MI6, il KGB e il GRU, i Feltrinelli, i Simioni ed i Markevitch. Si chiede perché mai, dopo i 55 giorni, il cadavere dello statista fu fatto trovare proprio in via Caetani, crocevia di varie e potenti organizzazioni di riferimento anglo-americano, gelosi custodi dell’ordine di Jalta e della sua creatura-gendarme mediterranea: Israele.

    Ghira fa riemergere le contraddizioni sugli accenni mai chiariti degli approcci e delle infiltrazioni del Mossad all’interno delle Bierre, quelle di Curcio e Franceschini e quelle di Moretti e Morucci.

    Ricorda come Moro era allora l’artefice di solidi rapporti stabiliti nel Vicino Oriente tra l’Italia, gli arabi ed i palestinesi. Una mina vagante per gli interessi di Israele e per la sua stessa sopravvivenza.

    Smonta la tesi peregrina, ma subito diventata corrente vulgata, di un sequestro ed un assassinio voluto per sabotare il compromesso storico tra DC e PCI quale elemento della ristrutturazione neocapitalista volta a ottenere la pace sociale per il SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali. Irride, di conseguenza, alle spiegazioni facilone e appena plausibili e tali da non suscitare nei lettori domande imbarazzanti sui legami dei brigatisti con settori del servizi segreti – interni ed esteri – indicati banalmente e semplicisticamente come deviati… E constata come tutti i servizi sono deviati perché, naturalmente, svolgono attività e azioni segrete. Un caso per tutti? Quello dell’intervento dei servizi nostrani sulla camorra per far liberare il consigliere democristiano Ciro Cirillo, rapito appunto dalle Brigate Rosse.

    Mette le mani avanti per evitare la vieta accusa di complottismo: la storia dei popoli – scrive – è un grande tavolo da gioco sul quale forze differenti giocano le proprie pedine perseguendo strategie che a volte possono riuscire, altre volte falliscono o che non si realizzano come i loro autori vorrebbero. Contesta Cossiga che, nel dichiarare che il sequestro Moro era consequenziale con la natura stessa dell’uomo, mentore anticomunista della fazione pro-angloamericana bianca di Taviani e dello Stay Behind, esclude che le BR fossero eterodirette. Contraddicendo però se stesso a delitto avvenuto, come se avesse avuto certezza di essere stato manovrato.

    Filippo Ghira, insomma, abbraccia evidentemente la tesi che le Bierre di Moretti credevano di essere dei pupari ma in realtà erano dei pupi manovrati. E cerca di sostenerla con la deduzione, con i mille indizi lasciati qua e là da organismi che agiscono nell’ombra e che non sono certo abituati a lasciare documenti scritti per certificare e ricordare le loro impresee tantomeno lasciare vivi i testimoni scomodi.

    È notevole la quantità dei riferimenti. A Gladio, l’organismo militare e civile legato alla Nato che avrebbe dovuto scatenare l’inferno alle spalle di un esercito sovietico che avesse invaso l’Italia, ed alla sua controparte; alla cosiddetta Gladio Rossa, la struttura paramilitare comunista con interlocutori a Praga e arsenali bellici a disposizione in tutta Italia. A quella Organizzazione X restata coperta e pilotata dai servizi, da un nucleo della Pastrengo, dall’Ufficio Affari Riservati del Viminale, al Piano Solo ed alla Loggia P2, subentrate alla Gladio – come rileva Cossiga intelaiata su quadri antifascisti - per i lavori sporchi. Ai partigiani bianchi – iperattivi fino alla morte per lesa maestà sullo sfruttamento dell’energia, come Enrico Mattei – ma bruciati dalle piste giudiziarie dei vari Casson. Ai depistaggi operati dall’UAR (Ufficio Affari Riservati) e dal SID nelle indagini sugli attentati degli Anni Settanta. Ai giochi di domino di Kissinger e Brzezinski sullo scacchiere eurasiatico.

    Ma Ghira, soprattutto, passa sotto il microscopio la politica mediterranea e le quattro direttrici-sudditanze della politica italiana al riguardo, parallele e… divergenti tra loro. Buone relazioni con i Paesi produttori di petrolio e favore per la causa del popolo palestinese, da una parte, sudditanze alle direttrici atlantiche ed al sostegno allo Stato di Israele, da un’altra, e questione di Gerusalemme e amicizia con il Vaticano in ultimo canto. Secondo la tesi schematica del libro, tutti i politici italiani di governo accettarono (e accettano) la tutela di Israele e l’ossequio alle direttive atlantiche; uno solo, Andreotti, si è mosso, invece, sempre per favorire il Vaticano; Enrico Mattei, solitario, ha operato per l’autosufficienza energetica nazionale; Moro e Craxi hanno agito per una solidarietà politica con i Paesi arabi ed in particolare con i Palestinesi.

    Ecco, forse, qui occorre un appunto. È più esatto, se si vuole proprio schematizzare, immettere Enrico Mattei – che era un esponente della sinistra democristiana quanto Aldo Moro – con i due Presidenti del consiglio citati.

    È lo stesso Moro, infatti, il padre politico, non soltanto della tutela del governo libico di Gheddafi, ma anche della fuga delle multinazionali petrolifere dall’Italia (il primo scandalo-petrolio) e sarà poi Craxi il restauratore di accordi bilaterali ferrei con i Paesi mediorientali produttori di petrolio. E non a caso tutti e tre sono i morti eccellenti della cosiddetta prima repubblica.

    Emerge, dunque, dallo scheletro dell’interpretazione geopolitica e dunque dal quadro di riferimento internazionale del saggio, un qualche storico sussulto di dignità – se non sovranità – nazionale che ha però portato alla prematura scomparsa dei tre unici suoi protagonisti.

    Per sabotare costoro, questa linea indipendente, per bloccare una deriva non gradita agli anglo-americani e agli israeliani nel fronte sud mediterraneo, ecco dunque una serie di rimescolamenti di carte e di personaggi tutt’altro che di secondo ordine. Ferrara al comando dei CC, Vicari alla guida della polizia, D’Amato agli Affari Riservati, Maletti al comando dell’ufficio D del SID: un quadrumvirato filo-israeliano di eccellenza al quale arruolare chiunque possibile, anche nelle estreme ali, a destra come a sinistra… Il comandante Junio Valerio Borghese, ad esempio, nel cui programma di governo c’era la costituzione di un corpo di spedizione militare italiano da inviare in aiuto di Israele, ricorda Ghira, e di un altro da affiancare agli USA impegnati nella guerra del Vietnam. Con l’apporto di gruppi e gruppetti anticomunisti. Tutti naturalmente subito scaricati e ostracizzati.

    E non è un caso, chiosa l’autore del libro, che sarà poi lo stesso Cossiga ad affermare in un libro-intervista che la bomba di piazza Fontana fu opera degli americani… che volevano così ammorbidire le pubbliche opinioni dei vari Paesi colonia-Nato del sud Europa, l’Italia, appunto, ma anche la Grecia (golpe dei generali), la Spagna (assassinio di Carrero Blanco) e il Portogallo (rivoluzione dei garofani e… restaurazione occidentalista).

    Una strage, quella della Banca dell’Agricoltura, imputata ex lege prima ad anarchici privi di adeguate coperture, e quindi ai neofascisti, tralasciando volutamente ogni altra pista non utile ai teoremi preconfezionati: come accaduto nel caso dell’incursore di marina Franco Fuschi, agente doppio, killer a contratto, reo confesso nel 1996 dell’esecuzione della strage, trovato suicida nel carcere di Alessandria nel 2009…

    In Italia era dunque la stagione di stragi manovrate da burattinai senza nome. Sintomatici, ma non certo unici nel loro genere, sia l’attentato del ’73 compiuto da Bertoli, informatore del SID e addestrato in Israele, contro la questura di Milano e sia del treno Italicus… Già: quel treno dal quale, il 4 agosto del 1974, alcuni ignoti agenti fecero scendere Aldo Moro, con la scusa di fargli firmare carte importanti.

    Di qui, appunto, il sequestro e l’assassinio di Moro. Un uomo troppo addentro ai misteri d’Italia. Lui, la mina vagante… da esorcizzare, eliminare. Troppo stretti i rapporti dei nostri servizi, del generale Miceli e del colonnello Giovannone, con i palestinesi, con il FPLP di Habbash e l’OLP guidata da Arafat: una prima risposta del Mossad fu il 23 novembre del ’73 con l’attentato al bimotore Argo 16 del SID, precipitato a Marghera; e via via, fino alla bomba atlantica del 2 agosto 1980, per punire l’Italia dall’aver salvato Gheddafi. Una causa-effetto per la rivincita postuma di Aldo Moro, visto che la Comunità europea, il 13 giugno del 1980, con la Dichiarazione di Venezia, aveva preso atto del diritto dei palestinesi ad avere una patria.

    E il tuffo nei marosi oscuri della lotta armata. Soprattutto quella del secondo brigatismo quello più militare e meno ideale: funzionale al ruolo che gli era stato assegnato. Ghira ripercorre nomi e fatti. Dai Gap di Feltrinelli, dal centro di Praga al Collettivo Politico Metropolitano alla Sinistra Proletaria, giù giù, fino al superclan di Corrado Simioni, collaboratore dell’USIS, alle esecuzioni, al reclutamento di ex di PotOp, alle contaminazioni con il PCI, alle intelligenze a monte delle BR, evocate, ma mai rintracciate in numerose testimonianze ex post. E agganci degli uni e degli altri. Le anomale attività trotzkiste, le triangolazioni con l’Hyperion e con la CIA, i rapporti con il SID di Maletti che stazionava nelle bierre propri informatori… e le parallele coperture dei servizi agli estremisti di destra. E tutto con il visto, il timbro, del Mossad, il servizio segreto di Tel Aviv.

    Se non fosse un saggio difficilmente contestabile nei dati che snocciola, si tratterebbe di un pamphlet… antiatlantico e antisionista, e verrà, di certo, così dipinto dagli addetti alla tutela di quell’ordine politico nostrano che, nato sulle ceneri dell’Europa sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, è ancora suddito altrui.

    Ugo Gaudenzi

    Ugo Gaudenzi, nato nel 1949, è giornalista professionista, dottore e cultore di storia moderna e contemporanea. È stato inviato e corrispondente nel Vicino Oriente per l’Ansa e per numerosi quotidiani associati quali: La Stampa, La Nazione, Il Piccolo, Il Resto del Carlino, L’Ora ed altri.

    Ha diretto il quotidiano socialista riformista l’Umanità ed è attualmente direttore del quotidiano della sinistra nazionale Rinascita.

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    Introduzione

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    Via Michelangelo Caetani è una traversa di Via delle Botteghe Oscure, strada che ospitava un tempo la storica sede del Partito comunista italiano. Qui la mattina del 9 maggio 1978, dal lato della strada dove ci sono i numeri civici 8 e 9, venne fatta trovare la Renault 4 rossa nel cui bagagliaio c’era il cadavere di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dopo 55 giorni di un sequestro sulle cui esatte dinamiche non è stata ancora oggi messa la parola fine.

    Gli interrogativi che da allora si ripropongono agli osservatori, agli studiosi, e ai pretesi esperti della vicenda sono sempre i soliti. Quanti e quali erano i brigatisti presenti a via Fani al momento della strage dei cinque agenti di scorta e del sequestro quel 16 marzo 1978? Quanti e quali furono i covi nei quali Moro venne tenuto prigioniero? Quante e quali furono le basi a disposizione dei brigatisti e delle strutture che ne affiancarono e sostennero l’azione? Chi, oltre a Mario Moretti, o al suo posto, interrogò Moro nel carcere del popolo? Dove si trovava la reale sede organizzativa del sequestro da cui l’operazione Moro venne gestita? Quali furono le entità italiane e soprattutto estere che riuscirono a mettere una mano dentro la trattativa per la liberazione del politico democristiano per poi indirizzarla verso l’inevitabile tragico finale? Ma soprattutto, chi sono stati i principali beneficiari della morte di Moro e della progressiva fine dell’esperimento politico al quale aveva dato vita? Resta poi l’interrogativo di fondo sul perché alcuni politici che vissero da protagonisti i 55 giorni del sequestro si sono imposti la regola monastica del silenzio sui particolari di una vicenda che per loro rappresenta ancora un’occasione di sofferenza. A cominciare da Francesco Cossiga.

    Da parte loro i brigatisti rossi protagonisti del sequestro hanno fatto il possibile per presentare ciascuno una versione dei fatti compatibile sia con la singola posizione processuale sia con l’immagine di rivoluzionario puro e duro che si sono costruiti addosso. Gli esempi sono molteplici. Esiste tutta una sterminata pubblicistica di ex brigatisti, all’insegna del come eravamo, nella quale menzogne spudorate si mischiano allegramente a reticenze su questo o quel particolare.

    La prima autocensura riguarda la stessa Via Caetani, il motivo che spinse i brigatisti a farvi trovare parcheggiata la Renault rossa. I primi comunicati diffusi da radio e televisione, e che poi hanno rappresentato l’interpretazione ufficiale, sottolineavano il fatto che si trattava di una strada collocata tra Via delle Botteghe Oscure, sede del PCI, e Piazza del Gesù, sede della DC. Le Brigate Rosse, e questa era e resta tutt’oggi la tesi dominante, scelsero Via Caetani per ribadire che la loro azione era tesa a far saltare l’accordo tra democristiani e comunisti che implicava l’entrata del PCI nell’area di governo. Un accordo che, nella chiave di lettura che ne davano le BR, avrebbe stroncato qualsiasi possibilità di una prospettiva rivoluzionaria nel nostro Paese. In conseguenza di esso infatti, il PCI, il partito per eccellenza della sinistra, e la CGIL, il primo sindacato italiano per numero di iscritti e presenza nelle fabbriche, in cambio di poche briciole, accettavano di trasformarsi in un puntello dei rapporti di classe esistenti.

    Il 16 marzo, Moro era, infatti, atteso a Montecitorio, dove era prevista la discussione sulla mozione di fiducia al governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti con l’appoggio esterno del PCI, oltre che dei soliti PSI, PRI e PSDI. Vi abbiamo lasciato il cadavere di Moro a mezza strada, sembravano voler dire le BR, per fare comprendere a tutti che abbiamo voluto sabotare un’operazione che si pone all’interno di una fase di ristrutturazione neocapitalista dell’apparato industriale italiano, per realizzare la quale il SIM, lo Stato imperialista delle multinazionali, ha bisogno della pace sociale in fabbrica. Una pace sociale che può essere garantita solamente dal PCI e dalla CGIL, la longa manus del partito nel mondo del lavoro. Basta però osservare qualsiasi cartina stradale di Roma per rendersi conto che tale indicazione su Via Caetani è falsa e fuorviante, Via Caetani non si trova, infatti, tra le sedi nazionali dei due partiti. Di conseguenza, sarebbe stato sufficiente attenersi all’evidenza dei fatti per giungere ad una conclusione alquanto diversa. Via Caetani porta infatti diritta all’imbocco dello storico Ghetto ebraico di Roma. In particolare la Renault 4 rossa è stata parcheggiata proprio davanti al Centro italiano di studi americani al numero civico 32 che dispone di un altro ingresso in Via Funari al numero 31. Una struttura ospitata nel Palazzo Antici Mattei, nel quale si trova anche la sede dell’Enciclopedia Italiana e che ospitava in quel periodo un appartamento dei servizi segreti civili, il SISDE. Un palazzo che, dopo l’arrivo delle truppe anglo-americane a Roma, unitamente all’attiguo Palazzo Caetani, divenne il crocevia dei più disparati interessi, sia culturali che politico-economici che trovavano nel mondo anglosassone il loro punto di riferimento. Ma il Palazzo, e questo è un aspetto a dir poco fondamentale, fu un luogo nel quale, si dispiegarono le attività dei servizi segreti statunitensi e britannici, all’insegna della difesa dei valori liberali e liberisti dell’Occidente. E collegata ad essi, era sempre presente, in coloro che vi operavano, la consapevolezza di dover difendere l’esistenza dello Stato d’Israele. Una sorta di missione che tornava imperiosamente in mente ogni giorno in conseguenza della collocazione di quel Palazzo, piazzato proprio all’ingresso del Ghetto.

    Una doppia firma sembra essere quindi la spiegazione della scelta di via Caetani. Una firma israeliana e statunitense allo stesso tempo per ricordare e ribadire che il disegno politico di Moro nell’area mediterranea metteva in pericolo gli equilibri strategici internazionali venutisi a creare come conseguenza degli accordi di Jalta. Non solo quelli che facevano direttamente capo agli interessi statunitensi, ma anche quelli relativi alla sicurezza di Israele. Se fosse andato in porto l’esperimento di Moro, che puntava, nell’arco di due anni, a fare entrare ministri comunisti in un governo italiano, il punto di scontro mediterraneo tra NATO e Patto di Varsavia, che all’epoca andava collocato tra l’area balcanica ed il Vicino Oriente, si sarebbe spostato proprio in Italia e Israele si sarebbe trovato messo ai margini. A rinforzare tali timori c’era anche l’esistenza dei solidi rapporti stabiliti da Moro con ambienti palestinesi, grazie ai buoni uffici del responsabile del settore Vicino Oriente, il colonnello del SISMI, Stefano Giovannone, che aveva raggiunto un accordo con l’OLP, Organizzazione per la liberazione della Palestina, affinché il territorio italiano non fosse teatro di azioni terroristiche contro obiettivi civili e militari, generalmente indicati come occidentali.

    Nel modo di vedere degli israeliani, un accordo del genere tra SISMI e OLP, per forza di cose, aveva implicato un sostegno di tipo logistico o finanziario nei riguardi dei palestinesi e di conseguenza non poteva che dare adito ai più foschi sospetti. Moro si poneva quindi come una mina vagante per gli interessi di Israele e per la sua stessa sopravvivenza. La presenza di comunisti in un ipotetico governo di solidarietà nazionale, come tappa finale del processo avviato da Moro, rischiava di far venire meno il tradizionale sostegno italiano a Tel Aviv determinato anche dalla solidarietà atlantica.

    Gli approcci del Mossad verso le Brigate Rosse si concretizzarono sin dagli esordi quando l’organizzazione terroristica stava prendendo forma sotto la guida di Curcio e Franceschini ma, secondo le dichiarazioni dei due capi storici, furono respinte al mittente. È curioso però notare che su tale questione, i due capi BR sono stati avari di dettagli. Sia nelle dichiarazioni ufficiali che nei loro libri di memorie, gli avvicinamenti del Mossad sono stati liquidati in maniera sbrigativa e imbarazzata. Quello che invece accadde successivamente con le BR gestite da Mario Moretti è invece tutto da verificare, considerati i legami del capo terrorista marchigiano con personaggi quali Corrado Simioni, un tempo suo punto di riferimento nel cosiddetto Superclan e poi numero uno della scuola di lingue Hyperion di Parigi, indicata da più parti come un punto di incontro sia delle diverse organizzazioni europee terroristiche di sinistra, sia dei diversi servizi segreti dei Paesi occidentali membri della NATO. Una sorta di zona franca nella quale, all’insegna della difesa dello status quo internazionale, convergevano anche i servizi segreti apparentemente nemici, come il KGB.

    Erano infatti anche i sovietici a non vedere con favore un governo italiano con la presenza del PCI, sia pure in funzione di appoggio esterno. Ma non perché ciò avrebbe comportato una sorta di contagio politico-ideologico sugli altri partiti comunisti al potere nell’Europa dell’Est,

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