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Mar d'Africa. Storie di terre e di vento, di isole e di uomini: in barca a vela dal Mar Rosso verso gli oceani d'Oriente
Mar d'Africa. Storie di terre e di vento, di isole e di uomini: in barca a vela dal Mar Rosso verso gli oceani d'Oriente
Mar d'Africa. Storie di terre e di vento, di isole e di uomini: in barca a vela dal Mar Rosso verso gli oceani d'Oriente
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Mar d'Africa. Storie di terre e di vento, di isole e di uomini: in barca a vela dal Mar Rosso verso gli oceani d'Oriente

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About this ebook

Un uomo, una donna, una barca a vela persa in luoghi infinitamente lontani. Un percorso dal Mar Rosso all'Oceano Indiano, alla ricerca di isole, popoli e luoghi sconosciuti. Prima i cacciatori di squali, i remoti accampamenti dei nomadi del deserto, la città morta di Suakin. Poi l'isola di Socotra, che nessuno conosce e che fu una base di pirati; gli atolli delle Chagos; i villaggi delle Maldive inaccessibili ai turisti; la pericolosa costa dell'Africa Orientale, le correnti e i cicloni del canale di Mozambico. Un viaggio di scoperta. Un viaggio fatto seguendo solo l'istinto e il desiderio di avventura, fuori da ogni rotta conosciuta, alla ricerca degli ultimi angoli nascosti del nostro pianeta.

LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2014
ISBN9788890842535
Mar d'Africa. Storie di terre e di vento, di isole e di uomini: in barca a vela dal Mar Rosso verso gli oceani d'Oriente
Author

Carlo Auriemma

Carlo Auriemma & Elisabetta Eordegh, writers, sailors, documentary film makers.Since 20 years they and have been navigating their way around the world, seeking out the last unspoilt locations on the planet, and describing them in books, documentary films, and photographic reports.Carlo Auriemma & Elisabetta Eordegh, scrittori navigatori, documentaristi.Da due decenni girano il mondo in barca a vela alla ricerca delle ultime realtà incontaminate del pianeta. Scrivono libri e producono documentari naturalistici per la televisione.

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    Book preview

    Mar d'Africa. Storie di terre e di vento, di isole e di uomini - Carlo Auriemma

    Caffè nel deserto

    Nella capanna fa un caldo bestiale. Almeno così mi pare, perché faccio fatica a respirare per l'oppressione, e il sudore che mi cade sulle lenti degli occhiali mi annebbia la vista. Alzo il bisturi, lo avvicino al bubbone e con mano incerta lo spingo dentro, come un ago in una ciliegia. Alla vista dello strano arnese appuntito e luccicante nella penombra, le due donne si sono azzittite, mentre la malata gira la testa sopra la schiena, cercando di indovinare quello che le andrò a fare.

    Dalla piaga comincia subito a uscire un misto di sangue e pus. La pelle intorno all’incisione sembra sgretolarsi e sotto spunta la carne: rosa!! Rosa come non me la sarei mai aspettata sotto questa pelle marrone scurissima.

    Rimango paralizzata dal ribrezzo. Sento lo stomaco che dal profondo si rovescia come un guanto. Sono preda dei conati e tutte le tazzine di caffè che ho ingurgitato prima mi salgono improvvisamente alla gola. Con uno sforzo sovrumano trattengo il vomito. Le donne hanno smesso di parlare, guardano incuriosite la ferita e altrettanto sbigottite ascoltano i versi che faccio per non vomitare.

    E pensare che da piccola volevo fare il dottore!. E in un ospedale, magari in un pronto soccorso!

    Invece da grande sono riuscita solo ad autonominarmi medico di bordo. Prima di partire mi sono procurata qualche libro che insegna a curarsi senza medico e ho imbarcato i medicinali seguendo questo criterio: in mezzo al mare dobbiamo poterci curare da soli, qualsiasi cosa capiti. Per questo sulla nostra barca c'è tutto, ago e filo per le suture, bende gessate per le ingessature, antibiotici a largo spettro, garze e bende medicate per le ustioni, bisturi, pinze e così via fino alla morfina, che ci siamo procurati quasi illegalmente e che spero di non dover mai usare.

    C’è tanto di tutto, perché l'esperienza mi ha insegnato che tutte queste cose oltre che per noi, devono servire per gli altri. In un’isola minuscola della Papua Nuova Guinea mi è capitato, per esempio, di dover domare un attacco di dissenteria collettiva, esaurendo le scorte di Bimixin. Da un’altra parte ho alleviato le sofferenze di un militare che si era fratturato un braccio. Ho dispensato disinfettanti e antibiotici, aspirine e antimalarici. Alle isole Solomon abbiamo addirittura allestito una spedizione nella laguna di Morovo unicamente per distribuire il chinino agli abitanti di un villaggio, tutti colpiti da malaria e rimasti senza medicine per un ritardo della nave postale.

    Insomma, giocare a Florence Nightingale mi piace proprio! Quello che sto facendo ora, però, va al di là delle mie possibilità e delle mie conoscenze.

    È solo da un giorno che siamo arrivati qui, a marsa Gel Farayid, sulla costa meridionale egiziana. Abbiamo ancorato la Barca Pulita lontano da riva e siamo scesi a terra con il gommone a cercar vongole sulla battigia e a dare una occhiata in giro. Intorno solo deserto, terreno marrone coperto da chiazze di sale e da ammassi di conchiglie fossili, senza un albero, senza un filo d'erba. Il turchese del mare si incunea per chilometri dentro la terra scura e più in là, oltre il terminare dell'acqua, una nuvoletta di polvere ogni tanto, rivela la presenza della pista che congiunge l'Egitto al Sudan, passando a qualche chilometro dalla costa.

    Eravamo a terra da poco quando è apparso qualcosa, all'orizzonte.

    Ehi, c'è gente ho avvertito Carlo.

    Dove?

    Là in fondo, vengono verso di noi e gli indicavo con il braccio.

    Sei sicura? Io non riesco a vederli.

    Tre figurine piccolissime si muovevano nella nostra direzione.

    Li aspettiamo?

    La prospettiva di un incontro con gente sconosciuta, in un paese straniero, crea sempre un po' di suspance.

    Andiamogli incontro.

    Ci siamo incamminati, calpestando chiazze di sale che si sbriciolavano sotto i piedi. Qua e là, nascoste tra le rughe del terreno, ossa di cammello sbiancate dal sole e dal tempo, davano il senso di un ambiente immobile, immutabile, quasi eterno.

    Il gruppetto era composto da due donne e un uomo. Vecchi, curvi, l'uomo appoggiato a un bastone e le donne coperte di veli sporchi e logori, che un tempo, forse, erano stati verdi. La pelle scura e avvizzita, le gambe magre e soprattutto sui loro occhi un velo bianco, che da lontano li faceva sembrare azzurri.

    Ci hanno salutato cerimoniosamente e spiegato, a gesti, che qualcuno stava male, che aveva bisogno di noi, ma lontano, dall'altra parte della marsa.

    Il sole però era troppo basso.

    Per oggi non possiamo fare nulla. Abbiamo appena il tempo di tornare a bordo prima che faccia buio.

    Abbandonare la barca, al buio, in un ancoraggio sconosciuto non è neanche pensabile. Di notte non si sa mai cosa può accadere. E se dovesse capitare qualcosa di strano, chi ci ritroverebbe qui in fondo al deserto? Così, a gesti e con qualche parola in arabo abbiamo promesso di tornare l'indomani, con le medicine.

    "Bukra, bukra"… domani.

    E puntuali all’alba siamo scesi a terra, con la valigetta del pronto soccorso.

    I vecchi erano già sulla riva.

    Abbiamo camminato per mezzora prima di scorgere le capanne del villaggio, nascoste in un avvallamento e protette dal vento per mezzo di una barriera di cespugli aridi e armati di spine. Sono rifugi precari, baracche storte e instabili che vibrano sotto le raffiche del vento, fatte con materiali rubati al mare, brandelli di legno o di cartone, di stoffa e di lamiera, con scritte strane e nelle lingue più diverse. Pezzi di relitti e di rifiuti buttati dalle navi, pezzi di casse cadute in mare chissà dove e quando e che il mare trasporta con le correnti e ributta a terra con le onde e che gli abitanti della marsa raccolgono come la merce più preziosa.

    Intorno alle baracche qualche capretta brucava tra i sassi e i bambini ci guardavano incuriositi, correndo poi a nascondersi dietro le madri velate che rimanevano lontane. Uomini giovani non se ne vedevano. Evidentemente erano lontani, a pascolare i cammelli, unica ricchezza di queste tribù poverissime. I vecchi ci hanno fatto accomodare su una stuoia sporca, all’ombra di una di queste capanne raccogliticce.

    Le due donne hanno cominciato a preparare il caffè.

    È una cerimonia lunga, a cui abbiamo assistito altre volte. Cominciano con il far rivivere le braci contenute in una scatola di ferro. Poi tostano i chicchi in una vecchia lattina munita di un manico lungo e, ancora, li pestano in un mortaio di legno insieme a pezzetti di zenzero e zucchero grezzo. Intanto hanno posto a bollire l'acqua in un'orcetta di terracotta annerita dal fumo e, quando il vapore comincia ad uscire, buttano nell’orcetta il miscuglio di caffè , zucchero e zenzero. Alla fine versano l’infuso in minuscole tazzine, che da molto tempo non hanno avuto un incontro con acqua e sapone e le offrono ad una ad una a tutte le persone presenti. Finito il primo giro si ricomincia da capo e tutti bevono ancora, e poi ancora fino a quando non ci sono più chicchi da tostare. Si potrebbe passare così anche tutta la mattina!

    D'altronde qui nel villaggio non c'è altro da fare e il fatto che ci siamo noi, degli stranieri, costituisce un diversivo per tutti, anche per chi si limita a guardare da lontano.

    Il caffè è forte e dolcissimo, pieno di fondi e di detriti, ma il gusto è buono e ricco di profumi. Alla fine delle prime 5 tazzine obbligatorie ho cercato di saperne di più sulla persona che avrei dovuto curare. Le donne allora, un po' di malavoglia per il fatto di dover abbandonare la cerimonia degli ospiti, mi hanno guidato verso una capanna, fatta con pezzi di legno, di stoffa e di lamiere e mi hanno fatto segno di entrare.

    L'interno era buio, torrido e stantio. Sul pavimento di sabbia erano state buttate delle stuoie tutte rotte e su una di queste giaceva il mio paziente: una vecchia sdraiata su un fianco. Le donne che erano entrate con me le si sono accovacciate vicino parlandole in un dialetto gutturale del quale non riuscivo a decifrare neanche una parola. La vecchia si è sdraiata sulla pancia e le altre hanno sollevato lo straccio che le avvolgeva il corpo indicandomi una fasciatura. Dire fasciatura è usare un pietoso eufemismo, ma non saprei proprio come altrimenti definire quel pezzo di stoffa scura, costellata di macchie ancora più scure e di chiazze bagnate, che la vecchia aveva attorno alla gamba all'altezza del ginocchio.

    Ero in piedi nella penombra con la mia valigetta del pronto soccorso e le donne mi facevano segno giù, vieni qui in basso con noi. Mi sono inginocchiata a lato della gamba fasciata, mentre una delle due toglieva la benda. Terrificante: un bubbone grosso come un'arancia, di un colore tra il rosso scuro e il marrone. Sembrava lucido tanto era gonfio e pareva voler scoppiare da un momento all'altro, sarebbe bastata una minima compressione e data la sua posizione, nella parte posteriore del ginocchio, la compressione poteva avvenire molto facilmente.

    Guardando meglio, al centro del bubbone, ho messo a fuoco una specie di buco, un piccolo cratere che eruttava goccioline di un liquido biancastro. Sono stata assalita da un'ondata di ribrezzo, avrei voluto andarmene fuori all'aria aperta, ma ormai ero qua con tutte le tre vecchie che contavano su di me.

    Poverette!

    Per prima cosa mi sono infilata i guanti, che non si sa mai. Guardavo gli strumenti nella valigetta, mentre le vecchie continuavano a parlare e ad indicare cercando di suggerirmi chissà cosa. Alla fine ho preso un bisturi a punta, ricordandomi quello che mi aveva detto Gilberto quando me lo aveva dato:

    Se c'è un ascesso, basta che lo fori con il bisturi appuntito.

    E così ho fatto, quasi senza guardare e poi è apparsa quella carne rosa!

    Quando finalmente riesco ad impedire che il mio stomaco cacci fuori il suo contenuto (credo di esserci riuscita solo pensando a quello che sarebbe successo dopo, in questa capanna opprimente e con questo caldo), decido di farmi forza e proseguire. Foro e tagliuzzo, per creare uno spazio per il drenaggio e ripeto l'operazione in altri due punti. Forse dovrei schiacciare per fare uscire tutto il marcio che la piaga contiene, ma mi manca il coraggio. Fa sempre più caldo, la mia maglietta è fradicia e incollata alla pelle e mi gira anche un po’ la testa. Arrotolo un pezzo di garza, la bagno con l’Amuchina, con un paio di pinze la spingo nel bubbone e frugo per cercare di far pulizia.

    La malata gira la testa ed emette qualche debole protesta. Le due amiche la zittiscono e continuano ad osservare in silenzio con gli occhi velati dalla cataratta. Una delle due ha appoggiato una mano sulla schiena della malata, forse per confortarla, la seconda ogni tanto con l'indice ossuto dà un paio di colpi sulla sabbia, scava una piccola buca, sputa e ricopre con un altrettanto leggero movimento della mano.

    Io intanto ripeto l'operazione con la garza cercando di non guardarla troppo quando la estraggo e mi accorgo che il gonfiore è diminuito. La vecchia riesce a piegare un po' la gamba, che prima invece era costretta a tenere tesa.

    Decido allora che è arrivato il momento della pozione magica: una pomata antibiotica. Per chi in tutta la vita non ha mai visto una medicina, come queste vecchie, un antibiotico è come un unguento miracoloso! Spremo un po' di Auromicina dentro la piaga e la ricopro con una garza sterile. Mentre sistemo la garza cercando di centrare l'apertura dell'infezione, sento sotto il dito qualcosa di duro e appuntito, faccio un salto:

    … un osso!

    e ritraggo la mano, ma poi penso che non ci dovrebbe essere un osso lì e se ce ne fosse uno rotto la vecchia non potrebbe certo avere piegato la gamba.

    Le tre paia di occhi sono fissi su di me.

    Così, con aria di non parere, tolgo la garza, riprendo le pinze e torno nella ferita cercando di incocciare la cosa dura che ha scontrato il mio dito. Quando tolgo le pinze mi sembra di essere Mandrake: un pezzo di vetro un po’ sporco di pomata, ma lucido e appuntito, lungo tre centimetri, troneggia tra le mie pinzette. Non credo ai miei occhi:

    ….mah come diavolo avrà fatto ad arrivare fin qui….?

    Ma la storia è piena di domande senza risposta!

    Le vecchie intanto sono in fibrillazione: Ah, OOh, eh eh ,… e si accalcano vicino alle pinzette per vedere meglio. Poi mi danno grosse pacche appiccicose sulla schiena e dicono frasi che di sicuro vogliono dire:

    Visto che ce l'hai fatta!

    Il mio sbigottimento è più grande del loro. Mi metto a rovistare nella piaga per trovare qualcos'altro, non si sa mai, ma con grande delusione delle mie vecchiette, questa volta non sembra esserci più niente e posso disinfettare e medicare. Rimetto la pomata, la garza sterile e bendo il ginocchio con una perfetta fasciatura a lisca di pesce.

    Quando le vecchie sollevano il lembo di stoffa per farmi uscire dalla capanna, un sole accecante mi colpisce gli occhi. Deve essere quasi mezzogiorno perché è già bello alto nel cielo. Carlo e il vecchio vengono verso di noi.

    Meno male, siamo arrivati a 20 tazzine, un’altra e mi si perforava lo stomaco.

    Anche il mio ha avuto qualche problema!

    Le donne raccontano quello che è successo e mostrano orgogliose il pezzo di vetro che è saltato fuori dalla ferita. L'uomo tiene una mano davanti agli occhi, per proteggersi dal riverbero accecante del sole. Mi si avvicina, toglie la mano e mi mostra gli occhi coperti dalla cataratta. Fa cenno al sole, al vento e ai miei occhiali: ha bisogno di qualcosa del genere. Mi indica anche gli occhi delle sue compagne che a loro volta si proteggono dalla luce con una mano ed un pezzo di velo. Hanno tutti la cataratta e sono destinati a diventare ciechi, per colpa del sole, del vento, del riverbero, e della mancanza di cure. Cerco di spiegare che per quello non possiamo fare nulla, che si dovrebbero operare.

    Hospital, hospital.

    Ma mi rendo anche conto della vacuità delle mie parole. Questi vecchi in tutta la vita non si sono mai allontanati dalle rive della loro marsa. Il posto più lontano dove siano mai stati è il pascolo dei cammelli. Di certo non saprebbero né come arrivare a un ospedale né come comportarsi una volta arrivati. E anche se lo sapessero non hanno denaro, né per il viaggio, né per l'operazione.

    Mi limito a estrarre dalla borsa una boccetta di collirio e a spiegare di usarne qualche goccia tutte le mattine. Se ne vanno contenti, ma è un po' un imbroglio. Non so quante altre persone in quelle condizioni ci siano nel villaggio, ma per questi tre il collirio non basterà neanche una settimana e sarà poco più che acqua fresca nei loro occhi bruciati dal deserto.

    Capitolo secondo

    Mar Rosso

    Le rive del Mar Rosso hanno pochi colori, ma sono i più belli del mondo. I toni del viola, del giallo, del verde cupo, che il sole accende al tramonto quando scompare dietro le dune del deserto, sono una sinfonia di luci che incantano. Restiamo a guardare quelle rive e quei colori al termine di giornate passate a spiare i granchi e i falchi pescatori e a nuotare nel mare più selvaggio del mondo tra nuvole di pesci, totani, coralli nell'acqua trasparente come quella di un acquario.

    In questa parte alta del Mar Rosso c'é sempre vento, e il suo canto aspro ci accompagna giorno e notte. È una carezza ruvida che non cessa mai, che odora di pietre cotte al sole e di deserto. Quando navighiamo ci aiuta perché spira sempre da Nord verso Sud, e ci spinge in poppa lungo la rotta che allontana dal Mediterraneo e avvicina all'Oceano Indiano. Quando stiamo fermi vicino a terra, però, il vento solleva un velo di polvere impalpabile che si deposita a bordo avvolgendo tutto quanto.

    La Barca Pulita ora è ferma in un ambiente lunare. Rive brulle e disabitate. Colline nere. Mare vuoto. In mezzo a questo nulla la nostra barca è tutto ciò che abbiamo: casa, rifugio, patria, salvezza e la sua pancia calda è la nicchia per lenire la stanchezza e lasciar fuori il senso di solitudine infinita che emana da questi luoghi.

    Ogni mattina però lasciamo la sua protezione e scendiamo ad esplorare le rive del deserto.

    E se si rompe il fuoribordo? Come facciamo a tornare in barca? Il vento ci trascinerebbe al largo, in un mare deserto, dove per centinaia di miglia non potremmo incontrare nessuno. Allora coccoliamo il fuoribordo come se fosse la terza persona dell’equipaggio:

    Hai controllato la candela?

    Certo, e ho anche preso una tanichetta con la benzina di scorta.

    I remi?

    Ne ho presi quattro.

    Quattro remi invece che due, una cima lunga e un ancorotto da gettare al volo sui reef in caso di necessità, sono alcune delle precauzioni che abbiamo adottato per paura di finire dispersi in mare aperto. E come ultima speranza ci portiamo sempre un paio di pinne a testa, perché, se non riuscissimo a rientrare a remi, avremmo almeno la possibilità di abbandonare il gommone e rientrare a nuoto. Può sembrare strano che a nuoto si possa fare meglio che a remi, ma un gommone con due persone a bordo offre una presa al vento incredibilmente più alta di quella di un nuotatore che, stando immerso, rimane, per così dire, immune dal vento.

    E quando lasciamo la barca, per ulteriore prudenza, dirigiamo sempre in direzione del vento. In caso di avaria, sarà il vento stesso a riportarci indietro, e dovremo solo acciuffare la barca al volo. Certo che questo limita del 50% le nostre possibilità di esplorazione, ma il restante 50% di questo mondo senza confini è sempre molto più di quanto si possa desiderare.

    E la sera scriviamo. Mi aggrappo alla matita e cerco di raccontare: colori, suoni, deserto. Ma è più difficile del previsto. Rileggo e non va mai bene. Dalla matita escono solo immagini deboli, come attraverso un vetro sporco. Allora chiudo gli occhi. Cerco di ricordare le sensazioni, e di metterle sulla carta, semplici, così come le ho vissute.

    Squali

    Entro in acqua sul limite esterno del reef, dove le colonie dei coralli improvvisamente sprofondano verso il basso. La Barca Pulita è lontana e vedo solo i suoi alberi spuntare dietro una lingua di sabbia marrone. La riva però è a soli 200 metri. Lascio il gommone che mi ha portato fin qui, respiro a lungo e mi immergo, nuotando piano verso il fondo. Scendo di qualche metro, mi aggrappo ad un masso e mi arresto, trattenendo il fiato.

    L’acqua è piena di pesci. Appena mi hanno visto si sono dati alla fuga, ma quando mi fermo si fermano anche loro. Poi, rassicurati dalla mia immobilità, si voltano e si avvicinano. Prima lentamente, ma col passare dei secondi diventano più curiosi, e la distanza diminuisce, mentre il silenzio intorno si carica di aspettativa.

    Il mondo dei reef, visto dal di dentro, è diverso da come appare attraverso lo schermo di un televisore a colori. A prima vista può sembrare un posto idilliaco pieno di creature fantastiche che si aggirano graziosamente tra i rami dei coralli senza nessuno scopo apparente, se non quello di farsi ammirare. In realtà, quello del reef, è un mondo dominato dalla paura. E quei colori che a noi sembrano tanto belli esistono solo in funzione di una lotta per la vita e per la morte che non cessa mai un momento. Le livree variopinte servono per attirare le prede, o per confondere gli aggressori, o addirittura sono segnali di avvertimento, come nel caso dei pesci farfalla che se ne stanno indifferentemente allo scoperto perché con i colori sfacciati del corpo e delle pinne informano tutti, come con un codice, del fatto di essere velenosi.

    Sott’acqua poi ogni anfratto nasconde un animale in agguato. Le piovre, perfettamente mimetizzate, fanno capolino dalle fessure nella roccia, con i tentacoli raccolti sotto il corpo, pronte ad attorcigliarsi al primo essere che passi troppo vicino; le murene trascorrono le giornate in agguato col corpo giallastro invisibile nella tana, con solo la testa che sporge dal buco. Persino gli anemoni di mare, che oscillano variopinti nella corrente come fiori al vento, non sono quello che sembrano, perché hanno braccia urticanti in grado di tramortire al semplice contatto. Infine ci sono i grossi predatori, come i barracuda, che si spostano a gruppi di centinaia e che attaccano tutti assieme, o le grandi cernie carnivore, con la bocca grande più della testa di un uomo, e gli squali, che pattugliano il fondo, con l’aria di chi non ha niente da temere.

    In questo mondo alieno bello e spietato ogni essere vivente passa la vita in bilico tra la ricerca di animali più piccoli da catturare e la paura di essere lui stesso divorato da quelli più grandi.

    Io resto immobile sul fondo, trattenendo il fiato, e dopo qualche decina di secondi sono circondato dai pesci. I primi ad arrivare, come sempre, sono i barracuda, col corpo affusolato coperto di linee più chiare, e la bocca socchiusa che lascia intravedere le file di denti aguzzi. Si fermano ad un paio di metri, ad osservarmi con occhio guardingo. Poi arrivano i pesci pappagallo, i labridi, le orate, i pagelli, e alla fine mi trovo al centro di un carosello di animali curiosi, che volteggiano lentamente davanti alla mia maschera, in un silenzio impressionante, mentre i miei polmoni cominciano a reclamare l’aria.

    Ci sono anche una ventina di carangidi, con il corpo tempestato di scaglie luminescenti, che insieme agli altri nuotano in cerchio attorno al mio corpo. Stringo le mascelle per vincere la voglia di respirare e mi costringo a restare immobile finche ne individuo uno della taglia giusta. Aspetto che passi davanti alla punta dell’arpione e faccio scattare il grilletto del fucile subacqueo. La freccia parte, vola nell’acqua, e colpisce proprio a lato della testa, dove il corpo si allarga ed è più facile mirare. Il carangide dà un guizzo, si impenna, frusta l’acqua furiosamente, con movimenti arruffati e disperati, col corpo trapassato dalla freccia, che a sua volta è legata al mio fucile da un corto sagolino nero.

    È in quel momento che succede. Un lampo grigio e argento. Uno strattone violento. Un altro strattone...

    Lo squalo è sbucato dal nulla. Forse è venuto da sotto. Forse da dietro, non so. Ha afferrato il mio pesce tra le mascelle e mi sta strattonando. Lui da una parte tira il pesce e la freccia, io dall’altra, senza più aria, trattengo il fucile con tutte le mie forze, in un tiro alla fune involontario e indiavolato. Il cordino che trattiene la freccia si tende violentemente e vedo l'asta piegarsi sotto lo sforzo. Impiego qualche attimo a rendermi conto del pericolo, mentre lo squalo tira e strappa, con strattoni formidabili, in una nuvola di sangue e di scaglie. Altri pescecani arrivano intanto e si lanciano sul primo, con le mascelle spalancate.

    Al diavolo!. Mollo il fucile e fuggo, nuotando all’indietro, con i polmoni che si contraggono per la mancanza d’aria. So che non devo uscire dall'acqua, e so che non devo perdere di vista gli squali. L'ho letto tante volte sui manuali di immersione e nelle storie di incontri analoghi capitati ad altri. Se puntassi verso l’alto non potrei più controllare lo spazio attorno al mio corpo, mentre è importante tenerli d’occhio per fronteggiare e scoraggiare ogni tentativo di avvicinamento. Li vedo entrare e uscire dal campo visivo della maschera mentre nuotano furenti, in un feroce carosello, con rapide sortite e improvvisi cambi di rotta, mentre l’acqua si è intorbidata per il sangue, quello del mio pesce e forse quello di uno squalo ferito.

    Raggiungo la parete del reef e mi metto con le spalle al corallo. I polmoni mi scoppiano, il cuore batte all’impazzata. Tre squali mi hanno seguito e disegnano nervosi semicerchi attorno al mio corpo. Cerco di restare con le spalle vicinissime alla parete verticale per impedire che possano attaccarmi da dietro.

    Se almeno avessi il fucile, penso. Anche un fucile scarico sarebbe pur sempre qualcosa da frapporre. C’è gente che se l’è cavata colpendo il muso dello squalo con un semplice bastone.

    Se ti avvicini ancora ti mollo un pugno! e allungo il braccio con la mano serrata verso lo squalo più vicino, mentre, senza perdere di vista gli altri mi lascio lentamente scivolare verso la superficie, coi polmoni che bruciano per la mancanza d’aria.

    È il momento più pericoloso. Molti pescatori sono stati aggrediti proprio nell’attimo in cui uscivano, mentre si trovavano con la testa fuori ed il corpo ancora dentro l’acqua. Allora lascio emergere solo la nuca, in modo che il boccaglio esca in superficie, mentre la maschera resta in acqua e posso continuare a tener d’occhio le bestie.

    L’aria che entra gorgogliando dal tubo di plastica mi inonda i polmoni come acqua fresca di un torrente di montagna. Resto col cuore in tumulto, e il respiro affannoso a guardare gli squali che sono rimasti qualche metro più sotto, come se non gradissero la luce forte del giorno. Sembrano più calmi, e tornano ad allargare i cerchi nuotando più lentamente.

    La battaglia sott'acqua è finita. Il fucile giace sulla sabbia, a trenta metri da me. La freccia è nuda e l’animale che mi ha rubato il pesce è scomparso. Gli altri pescecani scendono verso il fondo, in un silenzio irreale mentre due barracuda, grandi quanto me, mi passano accanto, diretti chissà dove, guardandomi con occhio alieno.

    Resto incerto, senza uscire, senza muovermi, mentre il mio cuore si calma e con lui il mondo dei reef, che riprende l'aspetto di sempre, con i pesci che si diradano e i coralli a foglia che oscillano lentamente. Riprendo fiato, respiro a lungo, mi immergo. Voglio recuperare il fucile dal monticello di sabbia candida dove si é depositato

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