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Leica II
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Leica II

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About this ebook

1943-1995. La macchina fotografica Leica II, che Manfred eredita dal padre con numerosi negativi, trascina tutti davanti alla propria coscienza e diventa il filo che lega diverse persone, alcune realmente esistite, che per vari motivi hanno posseduto quella macchina fotografica. Manfred ne incontra alcune a Berlino, città che segna per sempre il suo destino di uomo, e costoro gli raccontano la loro tragica storia, documentata dalle foto scattate dal 1933 al 1944. Egli rivive con amarezza, in un continuo confronto, sia il tragico ricordo di queste persone sia la sofferta relazione con il padre, scaturita da un rapporto intenso, possessivo e ardito. Leica II è un racconto sulla memoria e insieme una ricerca sul senso della perdita degli affetti, sullo sfondo cupo e drammatico della Seconda Guerra mondiale.

LanguageItaliano
Release dateAug 13, 2014
ISBN9788868150884
Leica II
Author

Vincenzo U. Luly

Vincenzo U. Luly è nato a Reggio Calabria. Si trasferisce presto a Napoli dove termina gli studi di Ingegneria, Architettura e Industrial Design. Da allora studia e vive alle falde del Vesuvio.

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    Leica II - Vincenzo U. Luly

    Leica II

    romanzo

    Vincenzo U. Luly

    Published by Giuseppe Meligrana Editore on Smashwords

    Copyright Meligrana Editore, 2014

    Copyright Vincenzo U. Luly

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868150891

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Vincenzo U. Luly

    Copertina

    Oranienburg

    Il costruttore di sogni

    Franz-Dietrich Starkepfel

    Il colore giallo

    Il testimone

    Il libro di Hersche

    Il sarto di Berlino

    Albert K. Woicycki

    Annika Berthald Dietriche

    Back to History

    Il secondo testimone

    La candela accesa

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    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Vincenzo U. Luly

    Vincenzo U. Luly è nato a Reggio Calabria. Si trasferisce presto a Napoli dove termina gli studi di Ingegneria, Architettura e Industrial Design. Da allora studia e vive alle falde del Vesuvio.

    Contattalo:

    ellenas@alice.it

    Oranienburg

    Berlino. Dicembre 1943. Il quadro di Rubens, raffigurante un melanconico Giovanni Doria a cavallo, riempiva tutta la parete in fondo all’ampio studio nell’ala nord del Ministero degli Esteri. La luce soffusa dalle finestre esaltava la bellezza dell’opera, una straordinaria inventiva di uno degli anticipatori del raffinato gusto Barocco. Il dott. Reinhard Stuckart, Segretario di Stato, aveva da poco ricevuto un plico con il corriere diplomatico. Prese dal taschino il fazzoletto, pulì gli occhiali a pincenez e lesse il contenuto soffermandosi su ogni parola. Rilesse ancora più attentamente le lettere e posando piano gli occhiali sulla scrivania, si diresse verso la finestra e pose lo sguardo oltre gli alberi. Finì di controllare i documenti, aprì la cassaforte, prese altri fogli, dispiegò tutto sulla scrivania e incominciò a prendere appunti. Avvertì la moglie che avrebbe tardato più del solito e riprese a scrivere. Lavorò per tutta la notte in un silenzio magico. Il sole freddo che entrava dalla finestra lo trovò la mattina ancora chino sulla scrivania tra le carte, con l’odore della pioggia che gli solleticava il naso.

    In quel momento tutto sembrava come prima, ma comprese malinconicamente che quella sarebbe stata l’ultima volta in tale maniera. Si rese conto di quello che sarebbe accaduto e che da quel momento sarebbe rimasto solo, sentiva la perdita di gran parte della sua vita di cui avrebbe voluto riprendere possesso come di una borsa importante da recuperare da un naufragio. Spense la luce del portalampada della scrivania, ancora accesa al chiarore del mattino, vide il sole riflesso sui vetri delle auto in cortile e si avviò verso l’uscita. L’automobile di servizio lo accompagnò a casa. Sua moglie Jutta lo accolse come sempre sull’uscio. Un rapido saluto e si avviò direttamente nel suo studio, chiuse la porta alle sue spalle, posò sulla scrivania la borsa di pelle nera che conteneva i documenti e aprì l’altra porta, quella tra le due sezioni della biblioteca. Fece scorrere uno dei cassetti dell’archivio e lesse i documenti da una cartella di colore grigio: sulla copertina l’etichetta in caratteri gotici aveva stampigliato: GANZ Sonderprojekt – Geheimnis (Progetto OCA – Segretissimo). Iniziò a distruggere in silenzio una serie di appunti e nomi in codice con accanto numeri e lettere, schemi e disegni.

    Quella sera la cena fu particolarmente veloce, piuttosto frugale, non fu servito il dolce. Reinhard era teso e Jutta notò quel particolare tremore del labbro inferiore che lei conosceva bene. Si avvicinò a lui, gli fece una rapida carezza mentre si avviavano sottobraccio in salotto, notò un rigonfiamento della tasca interna della giacca. Reinhard era armato.

    Erano in silenzio davanti la finestra, quando notarono l’arrivo di due autovetture scure che si fermarono davanti all’ingresso. Dalla prima, scesero tre persone che indossavano un soprabito di pelle nera abbottonato sino al collo; una sostò davanti al cancello e le altre si avviarono decise e rapide verso i gradini.

    «Gestapo», scandì Reinhard.

    Jutta lo guardò dritta negli occhi e in un attimo capì che non l’avrebbe rivisto tanto presto. Vide Manfred sulla porta del salone, il ragazzo si era reso conto di tutto. Il dott. Stuckart, controllato a vista, fu rudemente invitato a salire in auto a raggiungere il suo destino. Fu condotto negli uffici della Gestapo, isolato da tutti e immediatamente sottoposto ad un persuasivo interrogatorio. Gli furono contestati dei reati, appoggiati da documenti e da rapporti della RSHA. Reinhard era convinto che quegli interrogatori sarebbero serviti a dargli la possibilità di spiegare i fatti, ma il colonnello Foelcke che conduceva le indagini era arrogante e sprezzante: aveva avuto l’ordine di stroncare qualsiasi debolezza. L’accusa si basava su dati certi che lo identificavano, insieme ad altri, come ideatore del complotto per rovesciare il Ministro degli Esteri.

    Reinhard arrivò al campo di lavoro per detenuti politici di Oranienburg, a pochi chilometri da Berlino, ammanettato ad una guardia come un comune delinquente, privo di qualsiasi diritto. Indossò una divisa di fustagno con il numero 18G94 che dovette imparare rapidamente a memoria e zoccoli di legno; gli diedero una ciotola, un cucchiaio di legno e una coperta di lana ruvida con l’acronimo APG (Aufsichtsbehörde für politischen Gefangenen) – Ufficio per detenuti politici. Il campo dove era rinchiuso era organizzato in maniera da far realizzare l’annientamento psicologico della persona in esecuzione degli ordini impartiti dalla Cancelleria. Egli era sprofondato nel baratro della perdizione, veniva preso da un tremito continuo e non riusciva a controllare le sue emozioni.

    Reinhard aveva aderito al Partito, garantivano per lui le antiche credenziali della famiglia, la capacità e la sua esperienza in diplomazia. Aveva avuto rapporti con personaggi memorabili, individui la cui vita reale era perfettamente irreale, con il destino distinto irrimediabilmente da ogni altro, con l’idea di consegnarsi alla storia lasciando il segno di un miraggio. Aveva eseguito con alta dedizione e con la dignità della causa comune ciò che riteneva suo dovere, aveva sacrificato se stesso, isolato dagli affetti della sua famiglia. Ricordava di intere famiglie, di cui si perdevano le tracce, che improvvisamente si assentavano dalle loro abitazioni. Sapeva dai rapporti che arrivavano in ufficio che venivano trasferite da Berlino a Warthegau e Pankow per lavorare in aziende agricole. Per una strana associazione, si ricordò anche del pedagogo Grauss, che tempo prima aveva convocato al suo ufficio per informazioni.

    Il professore Grauss insegnante nella scuola di Manfred era di Konisberg e si era trasferito a Berlino facendo parte del consiglio dei professori del liceo Mahler. Lo aveva incontrato ad una conferenza, aveva apprezzato la sua relazione, notando la sua linea equilibrata, una dignità assoluta, una profonda melanconia. Seppe poi da una nota riservata che una mattina del giugno 1939, dopo avere ricevuto l’ordine di trasferimento a Pankow, il pedagogo Grauss decise di non lasciare i suoi bambini. Organizzò per loro una gita in campagna, vicino ad un laghetto. La madre amorevole li preparò con il vestito della festa e fece portare ai due più piccoli anche i giocattoli. Il padre affettuoso spiegò loro, attenti e felici, con dovizia di particolari che sarebbero andati prima a vedere i pesciolini nel lago, poi gli scoiattoli e i pettirossi nel bosco e poi avrebbero raccolto i fiori da portare alla mamma a casa. Un gesto gentile e gelido, un autocontrollo atroce, una disperazione immensa. La mamma li salutò all’uscio, li vide tutti insieme andare via in fila, con i più piccoli che si tenevano per mano e il sole brillare sui loro capelli biondi. Non li vide più tornare.

    Una mattina di inizio maggio 1945, l’attività nel campo di Oranienburg era inesistente. Il convoglio, composto da dieci camion e da due motocarrozzette, aveva percorso il giorno prima a forte velocità il tratto che separava l’area delle baracche dall’ingresso, oltrepassando il cancello, lasciando nell’aria una nuvola di polvere e fumi di scarico. Reinhard restò a trascinarsi le povere ossa insieme ad altri sopravvissuti, fermandosi davanti al cancello completamente spalancato. Appena tre giorni prima, avvicinarsi al paletto dipinto di bianco vicino all’ingresso, sarebbe costato la vita a chiunque. Nessuno degli internati osava avanzare, congelati dal dubbio e dalla sorpresa. Si fermarono tutti insieme, uno a sostenere l’altro, un’umanità spenta e fiaccata dalla distruzione delle menti e del corpo a ondeggiare sotto un sole pallido, videro da lontano avanzare un gruppo di soldati seguiti da mezzi pesanti. Reinhard notò che erano truppe scelte russe. Sul camion che lo portava via insieme agli altri, stringendo tra le mani un pezzo di pane marcio, seduto su una panca di legno che trasudava abbandoni e tragiche storie, cercava di emergere da quella realtà mentre il convoglio attraversava veloce il bosco e tutto sembrava stranamente tranquillo, percepì come proiettate su uno schermo le sue emozioni. Le sue mani tremanti erano rattrappite e contorte agli assi della sponda del camion e andò indietro a ricordare quel tempo che era passato veloce tra il fischio dei treni della vicina stazione di Oranienburg, due binari portavano direttamente all’interno del campo. Era ossessionato da quei fischi lancinanti, dallo stridere delle ruote dei carri e dalle porte che venivano aperte per far scendere un’umanità impotente e rassegnata.

    Reinhard era stato assegnato alla selezione dei bagagli dei nuovi arrivati al campo. Valigie per lo più modeste di tutte le forme e colori, pacchi di juta legati con lo spago grosso a proteggere i ricordi della vita. In un immenso stanzone affondava le mani nei ricordi di quelle persone disperate, violava la loro vita intima, ne rovesciava il contenuto e selezionava pettini, spazzole, scatoline di latta, pennelli da barba, forcine di tartaruga, calzettoni di lana, fotografie e piccoli specchi, alcuni scheggiati, già con il segno inciso del destino miserabile e le anime con i ricordi di una vita. Rivide le lunghe file di donne e bambini con visi bellissimi e tristi, tirare su col naso e raggiungere le baracche dove si sarebbero fermati per sempre.

    Nei momenti di solitudine di quel dramma immenso, Reinhard tornava con i pensieri alla famiglia dalla quale era stato allontanato. Avrebbe voluto urlare la sua rabbia e la tragedia nella quale era sprofondato, psicologicamente sconfitto, pur tuttavia deciso a non farsi sopraffare. Era rimasto fedele al suo onore e concordò con se stesso che quello che gli accadeva lo considerava il prezzo modesto da pagare. Adesso si rendeva conto di cosa avesse significato perdere e soffrire, portare con la sua coscienza come un fardello di grasso rancido il trauma della perdita della propria identità. Cercava un rifugio in cui proteggersi da ciò che lui aveva contribuito ad alimentare, subendo un trauma difficile da percepire perché così profondo, così imperscrutabile. Reinhard avrebbe dovuto vivere chissà quante vite per imparare a far parte della propria per analizzare il dramma della propria esistenza. Adesso era libero e sconfitto e lo invadeva un senso di vuoto.

    Il costruttore di sogni

    Ogni domenica la famiglia Stuckart si riuniva per il pranzo. Un grande camino riempiva la parete nord del salone addobbato con fiori e decorazioni e quella era la domenica che precedeva il Natale.

    La tavola era preparata come sempre: i portacandele, la grande decorazione al centro della tavola aveva tenuto impegnata per due giorni la cameriera e dal giorno precedente si lavorava in cucina per il pranzo domenicale: il rito dell’Eintopf si sarebbe concluso come sempre con una Apfelkuchen monumentale. Reinhard, ultimo erede di un’antica famiglia dell’Holstein, costruiva per tutti, da sempre ogni domenica, la rappresentazione di un sogno in cui, Jutta, Gerthe Kuglhe, la suocera, la famiglia del figlio Manfred, erano gli attori. La storia era filtrata tra la sua vita come lo scorrere dell’acqua in un canale e lui, nella porzione dell’esistenza in cui il bilancio della vita combatte con i ricordi, era perso nella ricerca dell’affetto di Manfred.

    «Papà, verrà anche nonna Gerthe», bisbigliò Manfred, aggiustando il plaid sui ginocchi del padre e Reinhard agitando la mano:

    «Come sempre Grossmutti Gerthe viene per controllare: io sono vivo, vivo. E poi, se vuole sapere mie notizie, può fare una telefonata».

    Reinhard davanti al camino, rincorreva i suoi ricordi. Le note del Tannahauser avvolgevano l’aria assieme l’odore dolce dei sigari Rosenberg. Ogni parte della casa era imbevuta di storia, il suo sguardo si perdeva tra i legni della pesante porta di quercia dello studio, il santuario della sua esistenza. Uno scrigno e una tana dove rifugiarsi, un ambiente cupo dove raramente concedeva l’accesso, arredato con mobili neri, alti, un falansterio medioevale, le porte-finestra che davano sul giardino con gli alberi di tiglio, le tende di stoffa pesante aggrappate al soffitto decorato erano socchiuse a filtrare la luce. Reinhard trascinò le gambe in direzione del suo studio, raschiando il pavimento come una lima sul legno, il rumore fuse il silenzio. Aprì la porta ed entrò, vide come sempre sulla scrivania la foto di Jutta; talvolta non ricordava più per quale potente amore avessero vissuto tanto insieme. Seduto alla scrivania si scopriva a sfiorare lentamente la foto della moglie, si sorprendeva ogni volta dell’immagine dolce di lei che l’aveva sposato decidendo di soffocare i suoi interessi di donna di cultura, così rapidamente come un foulard di seta si avvinghia alla gola con un gesto improvviso. Il loro matrimonio, un vortice poco emozionale, si era trasformato presto in una consuetudine maleodorante e forzata, un suono irregolare senza melodia, travolto da un senso di abitudine e continuità senza invenzioni. La loro storia privata era una trama di pensieri tesi e disperati, una strana casa di vetro dove custodire i sentimenti profondi.

    Jutta conosceva l’animo di Reinhard e aveva conservato quel maturo progetto di portare avanti la loro vita per ciò che avesse costruito per lui, o meglio, per quanto avesse realizzato con lui, tutto dipeso dalla sua forza in una complicità solenne nel contenere i ricordi del dramma e gli incubi – orda famelica di bestie immonde pronte ad azzannare – sempre presenti all’uscio della memoria e lei sempre preparata a difendere tutto e tutti, a scacciare quegli intrusi dal suo territorio e farli rientrare nella tana del tempo senza che minacciassero il sonno dei suoi cari. E ogni qualvolta che Reinhard veniva assalito dai fantasmi e ansimava alla ricerca di un respiro, lei, partner delle sue tragedie e dei silenzi era pronta e decisa finanche a diventare complice di quell’orda famelica realizzando qualsiasi cosa per placarla e quando finivano gli incubi lo guardava dolcemente negli occhi e le tessere d’oro del suo sguardo gli accarezzavano la mente sopita. La porta dello studio si aprì e la cameriera entrò reggendo un vassoio:

    «Herr Reinhard, ecco il the e i biscotti allo zenzero, i suoi preferiti. Non fumi più il sigaro, ascolti il dottore».

    «Vada via, mi lasci in pace».

    Manfred entrò nello studio e vide il padre, lo sguardo teso oltre il limite del giardino, seduto su quella poltrona, grande come il trono del suo regno inesistente, posta verso la porta-finestra. Reinhard era un costruttore di sogni e di ricordi, un artigiano infelice a sbucciare gli assi di legno della sua memoria, un cinico cavaliere ed eroe moderno che cercava di esplorare un passato antico, sepolto e consegnato nelle carte della Storia. Aveva il desiderio di avvicinarsi alla moglie che non era più la sua Jutta, ma un corpo isolato, preso e assediato dal male che non faceva distinzioni, staccata dal senso della vita nel momento critico quando lui ne aveva più bisogno. Reinhard e Jutta apparivano nel dramma come avvolti dal fascino tragico del personaggio impregnato del dolore diffuso e folgorante, irragionevolmente astratti di sé, ognuno inquilino pagante per vivere una vita normale. Abbandonati in un luogo devastato, incapaci di tornare in salvo alla riva dell’esistenza ordinaria, in essi tutto pendeva sbilenco, legato al filo sottile della memoria che falsava ed ingannava, certe volte dipanava i grumi, ma ne costruiva ed alimentava altri. Reinhard, regista dei ricordi ordinatamente infelici. Jutta silenziosa, seduta davanti allo specchio della sua camera da letto, veniva accudita dalla governante. La spazzola tra i capelli scivolava con un suono liscio e lei guardava intorno in cerca di se stessa, trascinata

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