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La Scelta
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La Scelta

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About this ebook

Roma, 6 ottobre 1943. Il giovane brigadiere Flavio Cesari ha grande memoria, sa scrivere a macchina e, anche per questo, cura il censimento dei militari di razza ebraica all'Ufficio Riservato del Ministero della Guerra. È di Trastevere e non poteva desiderare di meglio mentre intorno infuria la follia sanguinaria. In segreto, è innamorato della giovane ebrea Eva. Mentre rientra a casa come sempre, passando sul Ponte Garibaldi, sbalordito vede i Tedeschi uccidere un suo collega inerme sotto gli occhi di tutti. Improvvisamente temendo per la sua vita, si unisce a un gruppo di sbandati. Da loro sa che il colonnello Kappler ha ordinato la deportazione in Germania di migliaia di carabinieri romani, colpevoli di non dare garanzie ai Tedeschi in vista del loro segreto, orribile proposito. Il terrore lo pervade perché, a quel punto, capisce che tutto è cambiato, e per lui, anche in peggio perché, a forza di compilare e aggiornare elenchi, Flavio è l'unico a conoscere con esattezza gli indirizzi di tutti i suoi colleghi.
E lo sanno anche le SS, che cominciano a braccarlo per le vie di una Roma occupata tra la brutalità quotidiana e le paradossali relazioni tra tutte le forze contrapposte.

Nota storica:
La trama è inventata e cucita su misura per un episodio cruento e misconosciuto della II Guerra Mondiale. I Tedeschi, dovendo liquidare il Ghetto di Portico d'Ottavia oltre ogni resistenza passiva delle Autorità italiane, ritennero opportuno rendere inefficiente i Carabinieri, tradizionalmente radicati nella popolazione, nell'unica maniera a loro congeniale: la deportazione in massa. Il fatto avvenne il 7 ottobre 1943 con la fattiva collaborazione delle altissime gerarchie dell'Arma stessa. Gli ufficiali necessari all'operazione furono minacciati nella persona e nella famiglia. La contabilità delle vittime è incerta, i documenti parlano di almeno 1500 deportati.

Dallo stesso autore, la saga del Maresciallo Maggio, protagonista in cinque libri nella serie "I Racconti della Riviera":
#1: Doppio Omicidio per il Maresciallo Maggio
#2: C'è Sempre un Motivo, Maresciallo Maggio! (prequel)
#3: Gioco Pericoloso, Maresciallo Maggio!
#4: Affari Sporchi, Maresciallo Maggio"
#5: L'Eroe

Dello stesso autore:
La Scelta (romanzo storico)
Qualcuno che ti protegga (romanzo di formazione)
Calciopoli ovvero l'Elogio dell'Inconsistenza (graphic-novel)

LanguageItaliano
Release dateOct 5, 2014
ISBN9781310275487
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    La Scelta - Francesco Zampa

    Capitolo 1

    Il censimento

    Non era difficile. Me l’avevano detto, infatti. Dovevo solo prendere una scheda per volta, controllare che fosse compilata per bene, spuntare il nome della persona interessata dall’elenco che avevo con la matita rossa o con quella blu. Alla fine, la infilavo in uno dei due raccoglitori davanti a me, sulla mia scrivania. La percentuale d’errore era ridotta al minimo: sì o no. A destra mettevo la maggior parte dei fogli. Non contenevano nulla di interessante. Ogni tanto ne capitava qualcuno anche a sinistra. Ero sempre riluttante prima di lasciarcelo. È vero, mi avevano spiegato anche questo. È solo un censimento, di che ti preoccupi? Preferisci andare in prima linea? No che non preferivo andare in prima linea, che domande. Solo che già non capivo perché era così importante se un ufficiale fosse ebreo o meno. Da quando mi ero arruolato non ne avevo conosciuto neanche uno, mica ce l’avevano scritto in faccia. Ho cominciato a farci caso solo dopo che era cambiata la legge. Qualcuno aveva cominciato a darmi gomitate e dirmi sottovoce: "Sai che Tizio è ebreo?. Io guardavo Tizio e non vedevo nulla di strano. , rispondevo comunque, me l’hanno detto." Quello annuiva, si tranquillizzava, alzava le sopracciglia, molleggiava la testa come se avesse detto chissà che, e potevamo continuare a chiacchierare del più e del meno. Ma era prima della guerra. Ora avevano cominciato a chiedere anche dei sottufficiali, della truppa, degli impiegati civili. E non risparmiavano neanche noi Carabinieri. Io per primo avevo dovuto firmare una scheda come quelle che mi arrivavano da tutta Italia. Avevo dovuto dichiarare di appartenere alla razza ariana. La Razza Ariana? Io ero nato a Trastevere!

    Ma non per questo mi avevano impiegato all’Ufficio Riservato del Ministero della Guerra. Avevano costituito l’ufficio dopo la promulgazione delle leggi razziali. Io avevo fatto l’avviamento, sapevo scrivere a macchina, e già erano cose rare. E poi avevo una memoria prodigiosa per nomi ed elenchi. Ricordavo tutti i miei compagni di scuola, i membri del mio plotone e della mia compagnia alla Scuola Marescialli. Un dono di natura. Però se il Maggiore del quinto piano non si fosse interessato per me non credo che sarei stato destinato lì. Una spintarella, eh sì. Faceva comodo a tutti e due. Mia madre faceva le pulizie a casa sua e aveva paura di perdere anche me. Mio fratello Fabio era andato in Russia e non se ne sapeva nulla. Massimo, l’altro mio fratello, era in Africa e arrivava una lettera ogni sei mesi. Mio padre aveva fatto il muratore e, purtroppo, era morto in un cantiere di un palazzo sulla via Appia. Il Maggiore doveva aver preso a cuore mia madre tanto da dirle: Stai tranquilla, Giannina, ci penso io. Era un tipo riservato. Fin da piccolo lo vedevo fare le scale a piedi con quella sua uniforme tutta decorata. Che timore! Fu così che a diciassette anni mi arruolai. La mamma mi raccomandò a lungo di non fare parola con nessuno di quell’aiuto, e ancora me lo dice. Poco dopo, il Maggiore partì per la Libia o per il fronte: non capii bene, ma non lo vidi più. Due anni dopo, appena nominato brigadiere, avevo iniziato a trattare la corrispondenza del Ministero della Guerra. Controllavo l’elenco degli Ufficiali nell’Albo del Ministero e chiedevo ai singoli Comandi di Corpo di tutto il Regno di invitare i loro dipendenti a compilare la scheda di proprio pugno e restituirla firmata. Non era una richiesta pressante, se il mio capo ufficio, il colonnello Felici, passava e mi diceva sempre: eeeeeeeehhhh sottovoce, accompagnandolo sempre con una smorfia e con il gesto della mano a mo’ di pala, seminascosta lungo il suo grosso profilo. Non ti preoccupare, capivo io. E io non mi preoccupavo. Quando le risposte arrivavano, facevo un segno di spunta nell’elenco dell’Albo, in corrispondenza del nome della persona interessata. Se non rispondevano, mettevo la richiesta sotto la pila e ripartivo da quella sopra, e così via.

    Ogni tanto, non molto spesso, per la verità, sentivo rumore di tacchi che battevano sulle scale e poi rimbombavano nell’androne. Il capitano Schüerrle delle SS arrivava senz’altro preavviso se non quello. Aveva degli stivali di pelle nera lucida e una divisa sempre impeccabile. Passava davanti alla mia postazione con una specie di passo dell’oca, tanto era imponente e rapido. Il suo attendente faticava a stargli dietro. Non guardava nessuno, si fermava davanti alla porta del mio comandante. Lasciava mantello e guanti ed entrava senza bussare. In un minuto, il comandante usciva e mi chiedeva di preparare il caffè. Dopo le prime volte, lo preparavo senza che me lo chiedesse non appena lo vedevo arrivare. Poi dovevo portare, uno dopo l’altro, tutti i faldoni del censimento dei militari di razza ebraica. Era impossibile controllarli tutti, ma Schüerrle voleva sempre così. Dava un’occhiata a qualche foglio a caso, oppure allungava lo sguardo mentre, seduto sulla poltrona davanti alla scrivania di Felici, sorseggiava il caffè.

    Quando andavo a riprendere i faldoni, Felici diceva ad alta voce che così non andava bene, che non si spiegava perché molti non avevano ancora risposto o perché la maggior parte delle risposte erano negative. Se uno non è ebreo, non lo è, pensavo io.

    Schüerrle ascoltava impassibile, ma quegli occhi chiari non riuscivano a nascondere il compiacimento nel vederci indaffarati alle sue richieste. Qualche volta mi sembrava strano che un capitano, anche delle SS, anche con quelle impeccabili divise nere, incutesse così apprensione in un colonnello. Però eravamo alleati, sicuramente era una sensazione sbagliata. Ero stato nei Balilla, sapevo bene che potevo servire la Patria anche evitando di pormi troppe domande.

    Quando Schüerrle se ne andava, Felici lo accompagnava alla porta, ogni volta più trafelato. La fronte aggrottata, le mascelle serrate, ascoltava concentrato quelli che dovevano essere importanti suggerimenti. Suggerimenti molto pressanti, avrei detto. Rientrava in ufficio e appuntava a matita rossa sulla copia sollecitare.

    Entrambi ci affacciavamo dalla finestra finché non vedevamo il tedesco salire sulla sua Kubelwagen e allontanarsi per via XX Settembre. Alla fine, Felici mi faceva riportare tutto a posto mentre sbuffava con la mano infilata nel colletto della camicia per allentare la cravatta prima che poteva. Io rimettevo a posto i fogli nei faldoni senza commentare. Lasciavo fuori solo quelli con gli appunti.

    A dire il vero, l’ultima volta che vidi Schüerrle in ufficio, trovai una cosa un po’ diversa. Di fianco al testo della nostra richiesta, Felici aveva scritto con la sua bella calligrafia: chiediamo 20 o 25 schede in bianco. Venti o venticinque? Non riuscivo a capire e controllai tutto dall’inizio. C’era la nostra richiesta ai comandi periferici di verificare la presenza di militari o dipendenti civili di razza ebraica. Poi c’erano una serie di risposte negative giunte nel giro di qualche mese. Quindi avevamo chiesto che ognuno compilasse la dichiarazione di appartenenza o meno, anche per i propri familiari. Nessun ebreo, o poco più. Ora, Felici aveva lasciato questo appunto. Ma se già avevamo visto che non c’erano, perché dovevamo chiedere altre schede? E come facevamo a sapere in anticipo che sarebbero stati venti o venticinque i possibili non ariani?

    «Pensi che sia facile ragionare con quelli?»

    «No, ma… non capisco come facciamo a stabilire in anticipo una quantità, visto che scriviamo a tutti proprio per accertarcene.» Dissi senza timori riverenziali.

    Felici era un uomo ragionevole. Le incongruenze alle quali aveva assistito da quando era a capo di quell’ufficio avevano di molto attenuato il distacco degli ufficiali nei confronti della truppa. Quella storia della razza ariana convinceva poco tutti; solo i più esaltati non si ponevano domande. La propaganda era capillare ma non riusciva a persuadere fino in fondo. Eravamo in Italia, e la gente pensava in un altro modo rispetto ai Tedeschi.

    Felici disse: «Loro vogliono trovare questi Ebrei. Li vedono dappertutto, pensano che qui sia come in Germania. Non capiscono che se la gente non abita al Ghetto o poco vicino neanche li conosce. Allora noi chiediamo venti o venticinque schede e la prossima volta che viene gli facciamo vedere che li abbiamo cercati ancor di più. Torneranno negative? Meglio per tutti.»

    Uscii e sedetti alla mia macchina per scrivere, una Olivetti M20 massiccia e molto efficace. Accanto avevo messo la lettera del Ministero della Guerra alla quale la nota di Felici si riferiva. La rilessi, come se non l’avessi già fatto tante altre volte:

    Roma, 6 settembre 1938 – XVI Era Fascista

    Oggetto: censimento personale di razza ebraica

    Ai fini della documentazione matricolare, interessa conoscere quali ufficiali, sottufficiali e personale civili dell’Amministrazione della guerra appartengono alla razza ebraica.

    Pertanto, tutti gli ufficiali (fino al grado di colonnello incluso), tutti i sottufficiali in carriera e i funzionari e impiegati civili dovranno rilasciare dichiarazione scritta precisante se appartengono, oppure non, alla razza ebraica.

    Agli effetti della dichiarazione anzidetta è considerato ebreo colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica.

    I Comandi di Corpo d’Armata raccoglieranno le dichiarazioni di cui sopra per tutto il personale anzidetto appartenente a enti comunque dislocati nel territorio di propria giurisdizione e trasmetteranno gli elenchi del personale che si dichiara di razza ebraica a questo Ministero con piego espresso entro il 15 corrente.

    Il Comando Generale dei Carabinieri Reali si regolerà in maniera analoga per il proprio personale.

    d’ordine

    IL CAPO DI GABINETTO

    Quest’ultimo punto mi riguardava. Aggiungendo quella riga, l’ignoto estensore della lettera o il Duce stesso, aveva in un lampo istituito questo Ufficio Riservato e mi aveva procurato questo posto a due passi da casa. Però! Il Duce! Da quasi cinque anni ero al sicuro a Roma mentre tutto intorno impazzava una guerra feroce. La legge razziale aveva cambiato anche la mia vita ma per il meglio, o così credevo in quel momento. Sì, qualcuno aveva subìto qualcosa, l’avevo sentito dire. Professori che perdevano il posto, giornalisti che venivano licenziati. Ma era gente ricca, se la cavava sempre, lo sapevano tutti, e anche queste liste chissà a chi sarebbero servite. Ci facevano scrivere e riscrivere per poi lasciarle chiuse in qualche archivio. E poi, se erano Ebrei, erano Ebrei. Questi erano i pensieri più o meno comuni ai quali mi rifacevo nella mia giovanile ignoranza irrorata di propaganda. Presi di nuovo gli elenchi e controllai una volta di più dall’inizio le richieste già fatte per vedere chi non aveva ancora risposto. Ogni giorno arrivava qualcosa anche se le comunicazioni erano sempre più difficili e non mi stupivo più di tanto del fatto che la Libia Orientale, per dirne una, rispondesse prima di Firenze o Napoli. Non sapendo bene come fare, ricopiai una delle richieste precedenti. Prima di tutto, cambiai la data e misi quella di quel giorno, così da non confondere quel nuovo sollecito con quelli più vecchi, identici:

    Roma, 6 ottobre 1943. - XXI

    Chiesi di nuovo la compilazione e l’invio delle schede. Ogni scheda conteneva un questionario. I destinatari dovevano compilarlo di proprio pugno partendo dal cognome, nome, ascendenza. La sequenza delle domande era sempre la stessa:

    appartenga alla razza ebraica da parte di padre SI NO

    se appartenga alla razza ebraica da parte di madre SI NO

    se sia iscritto alla comunità israelitica e quale SI NO

    se professi altra religione e quale SI NO

    se la conversione ad altra religione sia stata effettuata da lui o dai propri ascendenti e quali e in quale data:

    se il coniuge sia di razza ebraica SI-NO

    se i figli siano di religione israelitica o di altra religione SI-NO

    Eventuali benemerenze:

    Non mi sembrava possibile equivocarne lo scopo o sbagliarne la compilazione, però ogni tanto ne arrivava una sbagliata. Per ignoranza o timore, non capivo bene, qualcuno metteva un SI dove era chiaro dovesse andare un NO, generando equivoci a catena e costringendoci ad articolare una serie di spiegazioni che diventavano tanto difficili quanto il fatto era così semplice. I superiori temevano di non essere chiari, i Tedeschi diffidavano e vedevano l’inghippo dappertutto. Un SI al posto di un NO, era tutto qui. Un errore su un formulario incomprensibile per la maggiore parte degli interessati. Bastava leggere i loro nomi per capire che non potevano essere Ebrei più di Mussolini o Hitler stessi: Mario Rossi o Fulvio Bianchi, nati e residenti in province misconosciute della Sicilia, nomi e cognomi comunissimi. Se qualcuno di loro fosse stato ebreo, non ne capivo proprio la differenza. Quando qualcuno metteva il SI, nessuno aveva il coraggio di andare a cambiarlo, e io dovevo richiedere dichiarazioni su dichiarazioni. Una volta, un certo Gennaro Uceddu o Uccellu o Pusceddu, chi se lo ricorda, contrassegnò un SI perché non aveva capito nulla di quello che un collega frettoloso gli aveva chiesto. Era quasi analfabeta e aveva avuto difficoltà anche a tracciare quella croce. Lo richiamarono talmente tante volte a precisare che alla fine fui costretto io a compilare una scheda al suo posto, tanto era evidente l’errore materiale. Ma i Tedeschi erano malfidati e temevano sempre la contraffazione dolosa.

    Avevo appena messo le schede giunte l’una sull’altra, in modo che spuntasse solo il nome in alto, quando Felici si riaffacciò dal suo ufficio.

    «A che punto sei?»

    «Ecco, le avevo messe così,» le indicai, «e stavo per controllare l’Albo degli ufficiali...»

    «Ti aiuto, facciamo prima. Capitano Gianguidetti Flavio, Tenente Trestori Adriano, Capitano Silenti Salvatore...»

    Mentre lui parlava, io mettevo un segno di spunta sull’Albo con la matita rossa. Non ci volle molto, perché giungevano poche schede a settimana.

    «Quanti sono?»

    «Sull’Albo ho spuntato duecentoquaranta nomi, compresi quelli di oggi.»

    «Duecentoquaranta? Aspetta. Credo che... Io ne ho contate duecentotrentanove. Ci dev’essere un errore.»

    «Può darsi che uno sia sfuggito. Ora li riconto.»

    In quel momento, l’attendente di Felici si affacciò.

    «Mi scusi colonnello, sua moglie e sua figlia sono di là.»

    Il colonnello era in piedi, le braccia diritte appoggiate sulla scrivania. Guardò prima me e l’attendente senza dire nulla. Poi tornò sulla lista, ma il suo pensiero era già altrove. Appoggiò l’indice sulla mia copia.

    «Duecentotrentanove o duecentoquaranta, è importante. Non sono pulcini. Controlla per bene.»

    «Sono di certo duecentotrentanove, colonnello, deve averne contato una per due volte.»

    Uscirono. Non controllai nulla, perché sapevo già che erano duecentotrentanove. In effetti avevo sbagliato, non dovevo dirgli che erano duecentoquaranta. Sentirmi fare una domanda così diretta mi aveva fatto emozionare. Per fortuna, quell’errore non ebbe nessuna conseguenza.

    Stavo per andarmene quando il telefono squillò. Erano quasi le sei del pomeriggio. Per fortuna risposi, perché l’interlocutore stava cercando proprio me. Un altro squillo e avrebbe riattaccato. Oggi non mi stupisco più dell’apparente fragilità degli eventi. Le cose accadono in un modo perché è solo in quel modo che può andare, ne sono convinto. Una cosa accaduta non è fragile, specie se diventa fondamentale per la vita di tante persone. Ma allora non potevo avere tutte queste certezze. La persona mi dettò l’appunto, io lo trascrissi meglio che potevo perché lui non poteva trattenersi a lungo al telefono. Erano poche righe. Le lasciai nel mattinale. Il colonnello Felici lo avrebbe trovato, al più tardi, la mattina dopo e ne avremmo parlato. Avrei dovuto mentire e dire che non sapevo con chi avevo parlato, che non lo ricordavo o non avevo capito il nome. Una piccola bugia necessaria e ininfluente, che mi ero ripromesso di spiegargli a tempo debito.

    Come al solito, per fare prima, invece che dalla rampa principale uscii dalla porticina del pianerottolo, appena dietro la tenda. La scaletta a chiocciola portava subito al vicolo di lato, bastava tirare la porta per farla richiudere anche dall’esterno. Felici non voleva per via della sicurezza ma, siccome spesso succedeva che i familiari dei militari al Fronte venissero a chiedere notizie dei loro cari, mi era successo di fermarmi a parlare con qualcuno di loro. Purtroppo non ne sapevamo nulla e si creava confusione, quindi mi faceva comodo evitare di farmi vedere alla guardiola. Non ero neanche tenuto a dire nulla, essendo molto di meno di un portavoce. Insomma, più stavo zitto e meglio era.

    Dal Ministero a Trastevere ci mettevo poco meno di un’ora per tornare a casa a piedi. I mezzi pubblici erano scarsi e mi piaceva camminare per Roma anche se non era un bello spettacolo come prima della guerra. C’erano sacchi di sabbia e pattuglie di Tedeschi a ogni angolo; li vedevo sfrecciare nelle loro BMW col sidecar. In verità, le moto erano meno lucide di quando erano arrivate, e avevano anche qualche bozza. Forse giravano anche un po’ meno, vista la carenza di benzina, ma imperversavano per le vie sempre alla ricerca di fiancheggiatori. I manifesti della propaganda erano quasi tutti ricoperti da quelli che invitavano a non collaborare con i partigiani. Passavo davanti a Tedeschi e Fascisti dalle espressioni rassicuranti e dalle mani protese. Non erano in cima alle mie preoccupazioni. I pomeriggi inoltrati di fine settembre ignoravano le minime questioni degli uomini. La lucentezza diffusa e la dolcezza dell’aria infondevano comunque un desiderio di vitalità.

    E poi avevo la scusa per passare per il Portico d’Ottavia. Fino a qualche anno prima mi era capitato di andare a mangiare al Ghetto in occasione di una festa rionale e cose del genere. Ora, certo, non era più possibile. Se mi avessero visto, nessuna passione per i carciofi alla giudìa sarebbe bastata a giustificarmi. Avrei faticato molto a trovare qualcuno comprensivo: per essere precisi, dubito che l’avrei trovato, visto anche dove lavoravo. C’era di più. Quella ragazza con occhi neri e capelli lisci corvini. Li tirava su e li teneva con un bastoncino di legno. L’avevo vista crescere, si può dire, a forza di fare quella strada. Solo che in quell’ultimo periodo aveva fatto un cambiamento incredibile.

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