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TRACCE DI FUMO
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TRACCE DI FUMO

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About this ebook

Berlino, 1931

La Germania sta per cadere nelle mani dei nazisti. Truppe d'assalto e comunisti si scontrano nelle strade. Gli ebrei più ricchi e gli intellettuali pensano solo a come fuggire. I club di Berlino sono pieni di emarginati sociali e di persone dai più svariati orientamenti sessuali, pronti a raccogliere un ultimo ballo.
Hannah Vogel vive sola e lavora come reporter di cronaca nera.
Durante un’indagine di routine, trova la foto di suo fratello nella Hall dei Morti Senza Nome. Ma ha prestato i suoi documenti ad alcuni amici ebrei in fuga, e non può identificarne il corpo e fare avviare le indagini.
Sarà lei stessa a mettersi sulle tracce dell’assassino.

Recensioni:

«Narrazione intensa in un’agghiacciante ambientazione storica... un contesto insolitamente vivido da cui Hannah racconta la decadenza del suo mondo, cercando di non perdere la vita, o la testa.» The New York Times Book Review

«Un ritratto crudo e realistico della Berlino degli anni ‘30. Mantenendo sempre alta la suspense, la Cantrell riesce con un ottimo lavoro a descrivere le paure dell’epoca attraverso i suoi personaggi. Decisamente raccomandato.» Library Journal

«Un romanzo d’esordio inquietante. Evocativo, compassionevole, e coinvolgente.» Kirkus Reviews

«La Cantrell riesce a descrivere sia l’atmosfera gioiosa del cabaret, sia la disperazione che galleggia tra le bollicine di champagne. Un debutto promettente.» Booklist

«Ambientato nella Berlino del 1931, il romanzo di debutto della Cantrell, scrupolosamente documentato, tributa un oscuro requiem alla Germania di Weimar nei suoi ultimi giorni. Questo romanzo indimenticabile, doloroso da leggere quanto la storia che fa presagire, si conclude con un finale giustamente agrodolce.» Publishers Weekly

«Una storia umana e avvincente che cattura brillantemente l’atmosfera che si respirava a Berlino durante l’ascesa del nazismo.» Anne Perry, autrice del New York Times best seller "We Shall Not Sleep"

«Evocativo e sapientemente costruito. Il giallo di debutto di Rebecca Cantrell, "Tracce di Fumo", è un prezioso incrocio di tensione, amore e omicidio. La sua abilità nel fare ruotare la storia in una realtà viscerale rivela il talento di una grande narratrice. Davvero un notevole inizio per quella che sarà una lunga carriera.» James Rollins, autore del New York Times best seller "Il Marchio di Giuda"

«Fate spazio sulla vostra libreria per una nuova autrice di talento: Rebecca Cantrell. Con "Tracce di Fumo", ci conduce attraverso un giallo storico che funziona su ogni livello. Una storia affascinante che si legge tutta d’un fiato. Un’indagine brillante di una donna in pericolo. Una visione estremamente accurata di una società che sta scivolando sempre più nella pazzia. Il tutto scritto con una chiarezza, un ritmo e un’attenzione al dettaglio che ci lasciano intuire come questa autrice ci riserverà delle ottime storie ancora per molto tempo. Non perdetevi il suo debutto.» William Martin, autore dei New York Times best seller "Back Bay" e "The Lost Constitution"

LanguageItaliano
Release dateOct 6, 2016
ISBN9781633395879
TRACCE DI FUMO
Author

Rebecca Cantrell

New York Times bestselling thriller author Rebecca Cantrell's novels include the award-winning Hannah Vogel mystery series, the critically acclaimed YA novel iDrakula, which was nominated for the APPY award and listed on Booklist's Top 10 Horror Fiction for Youth, and The World Beneath, the first book in an exciting new series and the winner of an International Thriller Writer award. She, her husband, and son currently live in Berlin.

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    TRACCE DI FUMO - Rebecca Cantrell

    A mio padre, mio marito, e mio figlio

    Gli echi dei miei passi scomparivano nell'aria umida della Hall dei Morti Senza Nome. Mi fermai a fissare la fotografia di un uomo. Era steso contro l'argine di un fiume, una melma scura gli ricopriva le gambe e le braccia scolpite. Nonostante il pallore e la rigidità della morte, il suo viso era ancora bello. Un piccolo neo scuro ingentiliva il lato sinistro del mento. Sulla fronte, le sopracciglia formavano due archi neri simili ad ali di uccello, e i suoi lunghi capelli, fradici d'acqua, si ammassavano in ciocche dietro la testa.

    La fioca luce del mattino penetrava dalle alte finestre e illuminava l'ordinata esposizione di fotografie in bianco e nero che ricopriva le pareti della stazione di polizia di Alexanderplatz. Un centinaio di immagini mostrava i volti e le fattezze dei più recenti cadaveri non identificati di Berlino. Ogni lunedì, la polizia toglieva le fotografie più vecchie per fare posto a quelle che ancora non avevano trovato una identità, cosa che dalla Grande Guerra a Berlino capitava ormai troppo spesso.

    I miei occhi corsero in fretta alle parole scritte sotto l'immagine che aveva richiamato la mia attenzione: "Ripescato dall'acqua da una imbarcazione turistica la mattina di sabato 30 maggio 1931, cioè due giorni prima. Apparente causa del decesso: pugnalata al cuore. Tra i segni distintivi, erano elencati un tatuaggio sul fianco, a forma di cuore, con la scritta Padre". Nessuna identificazione.

    Io, non ne avevo bisogno. Conoscevo quel viso, lo conoscevo bene quanto il mio, o quello di mia sorella Ursula, con le nostre mandibole squadrate e le fossette sul mento. Io portavo i miei capelli color biondo scuro in un taglio a caschetto, lui teneva i suoi lunghi, proprio come quelli di nostra madre, o come quelli di una donna di mezza età, sebbene non fosse né una donna, né avanti con gli anni. Era il mio fratello minore: Ernst.

    Sfiorai con le dita il freddo vetro che mi separava da quella immagine, soffrendo come se stessi in realtà sfiorando quel giovane uomo. Non l'avevo più visto nudo da quando gli avevo fatto il bagno, da bambino. Presi la mia sciarpa di seta color pavone per coprirlo, realizzando immediatamente quanto questo gesto fosse irrazionale. Quindi, la serrai tra le mani: era stato lui a regalarmela.

    Sapevo che la procedura consueta prevedeva che il corpo fosse sepolto entro tre giorni. Forse quindi si trovava già in una tomba senza nome, avvolto in un sudario di ruvido lino. Quando Ernst se ne era andato di casa e aveva iniziato a guadagnarsi da vivere, aveva giurato che il suo corpo non avrebbe mai più sfiorato altro che seta e cashmere. Appoggiai il palmo della mia mano al vetro: quella fotografia non poteva essere reale!

    «Hannah!» mi sentii chiamare da un uomo con una voce profonda. Senza girarmi, riconobbi subito il tono baritonale di Fritz Waldheim, un poliziotto di Alexanderplatz. Quella voce, fino a quel momento, non mi aveva mai spaventato. «Sei qui per i rapporti?»

    Ritrassi la mano dall'immagine e mi schiarii la voce. «Certo.» confermai. Arrancai lungo il corridoio, con la gonna umida che mi sfiorava i polpacci, fino al suo ufficio nel Dipartimento di Polizia Criminale. Cercavo di mantenere il controllo delle mie emozioni. Ora non pensare a nulla, mi dissi. Lo farai più tardi, quando sarai fuori dalla stazione di polizia.

    Fritz mi tenne aperta la porta, lo ringraziai. Era un uomo gentile, marito di una amica di vecchia data, e temevo che avrebbe anche lui potuto riconoscere quella fotografia, se l'avesse osservata da vicino. Non doveva sospettare che Ernst fosse morto: i miei documenti, così come quelli di Ernst, erano su una nave diretta in America con la mia amica Sarah e suo figlio Tobias.

    A Sarah, nota per essere una piantagrane sionista, il governo tedesco aveva vietato qualsiasi tipo di viaggio. Per questo motivo le avevamo prestato i nostri documenti, perché lei e suo figlio potessero farsi passare per Hannah ed Ernst Vogel, due fratelli tedeschi in vacanza. La loro nave sarebbe arrivata presto a destinazione, e i nostri documenti ci sarebbero stati rispediti subito dopo, ma fino ad allora nessuno avrebbe potuto notare la presenza di Hannah ed Ernst Vogel a Berlino senza mettere in pericolo le loro vite. Anche se negli ultimi sei mesi era stato abbastanza freddo con me, Ernst aveva acconsentito al piano.

    «Sta ancora piovendo, vedo.» osservò Fritz, richiudendo la porta dell'ufficio e indicando l'ombrello fradicio che non ricordavo più nemmeno di avere in mano.

    «Almeno ripuliremo i marciapiedi dalle cacche dei cani.» dissi, con una risata forzata che quasi mi lacerò i polmoni. Le battute sulle condizioni del tempo rimanevano le nostre preferite. Scherzammo su questo, poi sul suo pastore tedesco, Caramel. «Come stanno Bettina e i bambini?» domandai. Cercavo sempre di mantenere un atteggiamento di leggerezza con lui: doveva trovare piacevole il fatto di passarmi i rapporti della polizia, così che non si soffermasse troppo a pensare che in fondo non era tenuto a farlo.

    «Stai piangendo?» mi chiese, con un'espressione preoccupata negli occhi grigi. Nulla mai sfuggiva a Fritz, l'esperto detective.

    «Solo un raffreddore.» Mi sfregai il volto bagnato con la mano, altrettanto bagnata. Odiavo raccontargli bugie, ma Fritz era sempre stato molto ligio alle regole. Non mi avrebbe mai capita, né perdonata, per avere prestato i miei documenti, nemmeno per salvare Sarah. «Solo un raffreddore, e questa pioggia.»

    Prese dalla tasca della sua uniforme un fazzoletto immacolato e me lo porse. Odorava dell'amido utilizzato da Bettina nei suoi compiti di moglie. «Grazie.» gli dissi, asciugandomi le guance. «Qualcosa di interessante?»

    Come ogni lunedì, ero venuta alla stazione di polizia per setacciare i rapporti del fine settimana alla ricerca di una storia interessante per il Berliner Tageblatt, magari qualche faccenda spaventosa con cui solleticare i nostri lettori. I lunedì erano il momento migliore per ottenere dei rapporti nuovi, perché le persone finivano nei guai più spesso nei fine settimana, e con la luna piena. Subito mi tornò alla mente la fotografia di Ernst: anche lui era finito nei guai durante un fine settimana. Ingoiai il mio dolore e resi a Fritz il suo fazzoletto.

    Fritz scosse la testa. «Abbiamo trovato qualche morto annegato, negli ultimi due giorni.» Si spostò dietro il bancone di legno che separava la sua area di lavoro da quella per il pubblico. «Soprattutto vagabondi, direi. Probabilmente alcuni sono vittime di qualche nuova lotta di potere tra bande criminali, ma non ne troveremo mai le prove.»

    Rimasi impassibile, mostrando il sorriso di cortesia che avevo imparato da bambina. In fondo ero grata ai miei genitori per le botte, gli schiaffi e i pizzicotti che avevo ricevuto da loro: mi avevano insegnato a mantenere sempre questo sorriso, indipendentemente da quali fossero i miei reali pensieri e sentimenti. Ernst mi aveva presa in giro spesso per questo, perché ogni cosa che lui invece pensava o sentiva, compariva sul suo viso nello stesso istante in cui gli aveva attraversato la testa. E ora lui era morto. Deglutii, cercando di nuovo di riprendere il controllo. Fritz corrugò la fronte. Nonostante i miei sforzi, sospettava comunque che qualcosa non andasse.

    «Quindi, non c’è nulla che valga il mio tempo?» chiesi a Fritz, perché questo era esattamente ciò che avrei detto in una situazione del genere.

    «Un gruppo di nazisti ha preso a botte un comunista, l'hanno ridotto in fin di vita. Ma questa non è una notizia.»

    «No, non è una notizia.» concordai. «Ma merita comunque di essere scritta, anche se il Tageblatt non la pubblicherà mai. Qualcuno dovrebbe pur preoccuparsi di ciò che stanno facendo i Nazi.»

    «Noi ce ne preoccupiamo.» disse Fritz. «Ma grazie ai tribunali, quelli escono ancor prima che noi riusciamo a metterli dentro.»

    Si voltò e si diresse verso un grosso armadio in quercia. Mentre lui cercava tra i tanti faldoni, ne approfittai per riprendere un po' di fiato e calmarmi.

    «Ecco qui.» Tirò fuori un plico di carte.

    Mi appoggiai al bancone e cercai di sembrare tranquilla.

    Fritz mi allungò i rapporti con le sue dita corte e asciutte. «Non c'è molto, purtroppo.»

    «Ehi!» urlò una voce maschile piuttosto acuta dietro a Fritz. «Non le può dare quei rapporti.» Un uomo basso e dal portamento militare corse verso di noi e mi strappò le carte dalle mani. «Chi è lei?»

    Fritz sembrò preoccupato. «È Hannah Vogel, del Berliner Tageblatt.»

    «Ha un documento?» mi chiese, fissandomi con occhi scuri da corvo. I suoi capelli neri erano perfettamente in ordine, la sua camicia stirata scrupolosamente.

    «Certo.» risposi. I miei documenti erano in realtà nella borsa di Sarah, su una nave in mezzo all'oceano. Frugai nella mia borsa, dissimulando, con il dolore che veniva nuovamente sopraffatto dalla paura.

    «Conosco Hannah da quando ha diciassette anni.» disse Fritz.

    L'uomo lo ignorò e mi segnò seccamente col dito. «I documenti, prego.»

    «Devono essere qui, da qualche parte.» Le ginocchia minacciarono di cedermi. Tirai fuori gli oggetti dalla mia borsa: un taccuino verde, un fazzoletto pulito, una stilografica color giada che Ernst mi aveva comprato dopo che se ne era andato di casa.

    «Cosa fa al Tageblatt?» Il suo tono risultò minaccioso. Mi si avvicinò ancora di più. Stavo pensando solo a come scappare via, ma mi sforzai di rimanere immobile, come chi non ha nulla da nascondere.

    «Cronaca nera.» risposi, alzando lo sguardo. «Con lo pseudonimo di Peter Weill.»

    «Quel Peter Weill?» il suo tono di voce cambiò immediatamente. Era un mio fan.

    «Già da diversi anni. Ho sempre lavorato a stretto contatto con la polizia.»

    Tirai fuori il mio pass stampa dalla borsetta e glielo porsi, poi aprii il mio album degli schizzi sul disegno di una corte pubblicato una settimana prima sul giornale.

    Il suo volto si addolcì in un sorriso. «Mi ricordo quel disegno. Ha un tratto piuttosto esperto.» Mi restituì il pass stampa, e lo infilai di nuovo nella mia borsa.

    «Grazie. È così raro che qualcuno lo noti. Ha un occhio molto attento.»

    Fritz trattenne un sorriso. L'uomo si impettì ancora di più e mi porse la mano.

    «Kommissar Lang.»

    Mi asciugai il palmo della mano sulla gonna, poi gliela strinsi. «Piacere di conoscerla.»

    «Piacere mio.» Dondolò di nuovo sui tacchi delle sue lucidissime scarpe. «I suoi articoli hanno una visione molto intelligente della mente criminale, e delle misure che dobbiamo attuare per proteggere i bravi cittadini tedeschi dai cattivi elementi.»

    «Cerco di fare del mio meglio, raccogliendo le informazioni direttamente alla fonte.» Spostai lo sguardo sui rapporti nelle sue mani.

    Mi fece un inchino e me li passò. «Troppi giornalisti oggi parlano solo con le vittime. O solo con i criminali.»

    «Sono anche loro delle fonti importanti.» Presi i rapporti con la mano che mi tremava leggermente. «Bisogna essere scrupolosi.»

    «Inoltre conosce molto bene anche la mente maschile. Lei e suo marito dovete essere molto vicini.»

    «Hannah non si è mai sposata.» intervenne Fritz. Gli angoli della bocca gli si contrassero nel tentativo di trattenere un sorriso.

    «Potrebbe autografarmi un articolo?» Il Kommissar Lang si sporse in avanti, con le mani chiuse dietro la schiena. «Ha un articolo sul giornale di oggi?»

    Non avevo ancora letto l'uscita del giorno. «Non ne sono sicura.»

    «Ce n’è uno su quello di ieri.» disse Fritz. «In prima pagina.»

    «Vado a prenderne una copia.» Il commissario si affrettò fuori dalla stanza. Fritz tornò alla sua scrivania senza dire nulla. Le sue spalle erano scosse da una risata, ma continuava a mantenere una faccia seria. Mi costò molto, ma riuscii a rivolgergli quel sorriso di ammonimento che si sarebbe aspettato da me.

    Quando lessi i rapporti, non ci capii nulla. Sulla carta davanti a me scorrevano righe di caratteri neri che la mia mente non riusciva a convertire in parole. Le mani mi tremavano. Finsi di prendere appunti, e sperai che Fritz dalla sua scrivania non se ne accorgesse. Mi sforzai di non pensare ad altro che ai numeri e mi misi a fissare il mio orologio di seconda mano, contando in silenzio ogni ticchettio. Trascorsi tre minuti, rimisi i rapporti, non letti, sul bancone. «Hai ragione, Fritz. Non c'è un granché qui.»

    Oggi, non avrei trovato per la penna di Peter Weill alcun rapporto su omicidi sensazionali, né stringhe a proposito di qualche rapina. E allo stesso tempo non avrei potuto fare nemmeno una domanda sull'omicidio su cui avrei più voluto indagare. Ernst ed io non dovevamo attirare l'attenzione: se Sarah e suo figlio fossero stati ancora in viaggio, avrebbero potuto essere subito arrestati. A causa del suo attivismo politico, a Sarah era stato negato l'ingresso negli Stati Uniti per ben tre volte, e comunque era ormai diventato piuttosto difficile lasciare la Germania anche per gli ebrei non politicizzati. Tremavo al solo pensiero di cosa sarebbe potuto succedere se i Nazionalsocialisti, i Nazi, avessero conquistato la maggioranza al Reichstag. La corsa al capro espiatorio ebraico era ormai radicata in profondità in tutta l’Europa, e per quanto lo trovassi disgustoso, dovevo ammettere che Hitler era stato fin troppo intelligente a servirsene per i suoi scopi politici. Di certo, era piuttosto probabile che nel breve periodo le cose sarebbero peggiorate invece di migliorare.

    Mi voltai e marciai verso il corridoio, sforzandomi di non guardare la fotografia. Forse, se non l'avessi fatto, sarebbe tutto svanito.

    «Fräulein Vogel!» mi chiamò il commissario. Lo sentii correre dietro di me.

    Qualcosa non andava. Mi avrebbe chiesto di nuovo i miei documenti, quei documenti che non avevo? Immaginai di fuggire attraverso la porta di ingresso della stazione di polizia, invece mi girai verso di lui, pronta a mettere insieme una qualche storia per giustificare i miei documenti smarriti.

    «Ha dimenticato il mio autografo!» disse a corto di fiato.

    «Mi perdoni.» Fui pervasa da una sensazione di sollievo. «Mi è sfuggito di mente. Sono veramente in ritardo per il processo Becker.»

    Il Commissario Lang annuì. «Il tizio che ha violentato le studentesse nel parco, giusto?»

    «Esatto.» In una qualsiasi altra circostanza, gli avrei chiesto qualcosa sul suo coinvolgimento nel caso, ma oggi dovevo a tutti i costi andarmene prima di crollare.

    Mi diede il giornale.

    «Mi scuso fin d'ora se c'è stata qualche imprecisione. Il mio editore ci va sempre piuttosto pesante.»

    Mi porse anche una penna. «Venga nel mio ufficio a firmarlo.» Mi indicò l'altra parte del corridoio, dopo la fotografia di Ernst. Sapevo che, se l'avessi seguito, mi avrebbe di sicuro intrattenuta con i racconti dei suoi arresti, e che successivamente si sarebbe offeso se non li avessi tutti riportati sul Tageblatt. Avevo già avuto simili esperienze con innumerevoli agenti di polizia, che poi alla fine si rivelavano sempre fonti di scarsa utilità.

    Appoggiai il suo quotidiano alla parete e lo autografai. «Devo arrivare presto in tribunale. Voglio assistere al momento in cui l'imputato entra in aula e si va a sedere al suo posto. Si intuisce molto da questi momenti.»

    Annuì. «Sì, si possono capire moltissime cose dal modo in cui una persona cammina.»

    Gli resi il giornale e mi incamminai verso la porta di ingresso, cercando di non farmi tradire dal tremolio delle mie ginocchia.

    Fuori, una folata di vento cercò di portarmi via l'ombrello, ma continuai ad avanzare, bestemmiando e quasi piangendo quando inciampai nell'acciottolato della metropolitana. Mi affrettai lungo le scale di calcestruzzo, contro la calca delle persone che andavano al lavoro. Chiacchieravano e ridevano tra loro, allegramente perse tra i dettagli mondani delle loro vite. Io, invece, volevo solo arrivare a casa e rimanere sola.

    Nella mia testa si alternavano mille immagini di Ernst. Le più dolorose risalivano alla sua infanzia. Era stato un bambino meraviglioso e, più tardi, un grande amico. Mi appoggiai al muro della stazione della metropolitana, col viso rivolto verso le piastrelle, e singhiozzai, sola, al sicuro tra la folla. Appena riuscii ad alzarmi e a camminare di nuovo, ripartii.

    Una volta a bordo del treno, collassai sui sedili di legno e respirai profondamente. Passai le dita sulle doghe in quercia della panchina; il legno era chiaro, come i capelli di Ernst. Dall'altra parte, di fronte a me, sedevano due uomini con cappelli di feltro nero e i volti nascosti da due quotidiani. Uno era il Berliner Tageblatt, l'altro il Völkischer Beobachter, una porcheria nazista.

    Una folata di aria umida mi colpì dritta in viso quando due ragazzini, con il treno in corsa, tirarono la leva delle porte. Il vagone era entrato in un tunnel, e i ragazzi si stavano sfidando a lasciare penzolare le loro braccia nel buio, senza sapere se sarebbero rimasti feriti nell'impatto contro qualche ostacolo letale. In quel momento i loro genitori li credevano a scuola, al sicuro. Chiusi gli occhi e non li riaprii fino a quando non percepii che il vagone era uscito di nuovo alla luce del sole.

    Il treno si fermò alla stazione di Kaiserhof. Avevo saltato la coincidenza di Friedrichstadt. Sarei dovuta scendere lì per andare a prendere un autobus per Moabit per raggiungere il luogo del processo, invece proseguii verso ovest verso il più ricco quartiere di Wilmersdorf. Alla fine, questa linea mi avrebbe portata fino al giardino zoologico di Berlino, a solo pochi isolati di distanza dal palazzo in cui viveva Ernst. Rimasi a bordo, incapace di fare qualsiasi altra cosa.

    Quando scesi alla stazione dello Zoo, mi diressi verso le scale, esitando ad ogni gradino come una donna anziana. Ormai erano rimasti solo pochi passeggeri in giro. Mi feci strada attraverso gli edifici alla moda, lesinando a malapena uno sguardo per le guglie neogotiche della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche.

    Non appena arrivai di fronte al palazzo di Ernst, Rudolf von Reiche si materializzò fuori dall'edificio in tutta la sua altezza, magrissimo e aristocratico, con un completo a tre pezzi grigio e una camicia così bianca da ferirmi gli occhi. Aveva con sé una scatola di cartone grande quanto la cartella di scuola di un bambino e per poco non mi fece cadere giù dalla scalinata d'ingresso. «Ah, Hannah, la Regina dei Borghesi!» mi disse con un tono gelido, togliendosi il cappello grigio di fronte a me.

    «Salve, Rudolf, Corruttore di Bambini.» Feci un passo indietro per riuscire a guardarlo in faccia. Trenta centimetri più alto di me, e ancora non aveva imparato a tenere le giuste distanze. Non mi aveva mai perdonata per averlo disprezzato, e io non lo avevo mai perdonato per avere sedotto mio fratello, allora sedicenne, trascinandolo fuori dalla mia casa fin dentro la sua vita di decadenza. Appena una settimana dopo averlo conosciuto, Ernst aveva già lasciato la scuola e l'appartamento, e aveva iniziato a cantare al nuovo El Dorado, un club gay sulla Motzstrasse. Da allora, non lo avevo quasi più visto. Rudolf aveva trasformato quello studente diligente in una chanteuse.

    «Non è più un bambino.» disse Rudolf. Il portone principale gli si richiuse dietro le spalle. «E ora è lui stesso a corrompere i ragazzi più giovani.»

    «Cosa sei venuto a fare qui? Devi incontrare Ernst?» Sapevo che non era così, ma anche una sua bugia poteva essere illuminante per me.

    «Non è qui.» Rudolf contrasse le sue labbra sottili. «Sembri ancora più pallida in quell'orribile cappotto, Hannah. Ha lo stesso colore dei sacchetti di carta. E il taglio è completamente sbagliato. Sei passata dal cestino della spazzatura per vestirti?»

    «Dov'è?» Un peso freddo mi si era incastrato nello stomaco.

    «Sicuramente a fare capriole con quel nazista con cui sta uscendo.» Rudolf scrutò la strada con attenzione.

    «Nazista?» balbettai.

    «Un ragazzo più o meno della sua stessa età. Piuttosto sexy.» Rudolf sollevò la scatola contro il suo fianco sottile. «Qualcuno che di sicuro avrebbe la tua approvazione.»

    «Quando hai visto Ernst per l'ultima volta?» Cercai di ricordare la data scritta sotto la fotografia. Il corpo era stato ritrovato sabato.

    «Venerdì sera.» disse Rudolf, tirando su col naso. «Non che la cosa ti riguardi. O che riguardi me, dato che mi ha mollato per quel ragazzo.»

    «Hai permesso che se ne andasse dal bar con uno sconosciuto?» Non appena le parole mi uscirono di bocca, mi sentii come una vecchia zitella senza speranza.

    Rudolf scoppiò a ridere, con un suono che mi ricordò il nitrito di un cavallo. Poi si avviò per strada. «Tuo fratello fa sempre ciò che vuole.»

    «Cosa c'è in quella scatola?» Lo seguii. Diedi un'occhiata dietro di me alla rampa di gradini davanti al palazzo di Ernst, immaginandolo lì intento a spazzarla, e nel frattempo ad ammonire me e Rudolf perché litigavamo per lui come avrebbero fatto due cani con un osso. Un osso delizioso, avrebbe aggiunto, arcuando le sopracciglia. Mi morsi il labbro. Lui non avrebbe mai più sceso quei gradini.

    «Nella scatola ci sono solo dei piccoli regali che avevo fatto a tuo fratello per dimostrargli i miei sentimenti. Quando ancora li ricambiava.» Rudolf scosse la testa come un cavallo, senza scombinare i suoi fitti capelli grigi. Trattenni un sorriso di fronte a quel gesto così femminile, di certo non era qualcosa che avrebbe fatto davanti ai suoi clienti più ricchi.

    «Posso vederli?» Mi affrettai per tenere il passo con le sue lunghe falcate.

    «Perché?» chiese Rudolf. «Non sono cose tue.»

    «Nemmeno tue, se le avevi regalate a Ernst.» gli feci notare.

    Rudolf strizzò gli occhi e si fermò. Un folto gruppo di operai con i cappelli e le camicie sbottonate, in arrivo dalla stazione della metropolitana, ci passò accanto.

    «Le stai rubando, Rudolf?»

    Rudolf si lasciò sfuggire un sospiro, e il suo viso butterato si afflosciò sotto il peso dei suoi cinquant'anni. Di certo era arrabbiato, ma era anche ferito. «Finirebbe per gettarle via. E se per lui oggi non hanno più alcun valore, vorrei riaverle indietro.»

    «Hanno forse un significato economico?»

    «Io non ho bisogno di rubare oggetti insignificanti. Prenditeli. E restituisciglieli, quando lo vedi.» Mi gettò la scatola di cartone tra le braccia.

    Un sottile brandello di seta rossa spuntava da sotto la chiusura della scatola. Lo accarezzai con le dita: era uno dei fazzoletti di Ernst. Ero stata io a insegnargli a cucire. Avevamo ricamato moltissimi fazzoletti insieme, sempre rossi e sempre, se potevamo permettercelo, di seta.

    Un vento freddo mi sferzò il viso e mi sollevò il collo del cappotto. Rimisi il pezzo di seta rossa al suo posto, lontano dalla vista. «Sai come si chiama quel nazista? O dove abita?» domandai a Rudolf.

    «Certo che no.» Rudolf tirò di nuovo su col naso.

    Mi domandai se avesse sniffato cocaina nell'appartamento di Ernst.

    «Mi tengo lontano da quella gente.»

    «Il tuo naso sta sanguinando.» Andai alla ricerca di un fazzoletto nella mia borsetta.

    Rudolf tirò fuori dalla tasca un fazzoletto con i bordi di pizzo e se lo portò al naso. Una macchia rossa si formò sul lino bianco. «Dannate allergie.» disse. «Devo andare. Informa Ernst che abbiamo ancora molte cose di cui discutere.» Alzò una mano per chiamare un taxi. «Fai in modo che capisca quali saranno le conseguenze.»

    «Ossia?»

    «Niente di piacevole.» Immediatamente, un taxi si arrestò davanti a lui, così come probabilmente gli succedeva ogni giorno. Salì a bordo senza voltarsi indietro, e il taxi si allontanò lentamente come un grosso scarafaggio nero.

    La mia testa si riempì di pensieri su Ernst e il giovane nazista. Avevo sempre desiderato che uscisse con un ragazzo più vicino alla sua età, ma di certo non con un nazista. Io ero socialista, e disprezzavo i nazisti per molteplici ragioni, inclusa la volontà di ridurre di nuovo le donne al ruolo di casalinghe: secondo loro, il nostro mondo doveva essere fatto solo di bambini, cucina e religione. Un ventaglio di scelte davvero poco accattivanti per chi non aveva intenzione di avere né un marito, né dei bambini. E non volevo nemmeno fermarmi a pensare a cosa sarebbe accaduto a ebrei e comunisti se i nazisti avessero preso il potere. Avevo il sospetto che bambini, cucina e religione fossero alternative di gran lunga migliori di quelle che i nazisti avrebbero lasciato a loro.

    Eppure, Ernst trovava attraenti quelle camicie marroni e quei pantaloni color cioccolato. In precedenza aveva frequentato solo uomini molto più anziani di lui, ma avevo sperato che alla fine sarebbe finito con una ragazza carina. Amare gli uomini era pericoloso, e lo avrei protetto da quel pericolo se avessi potuto, o avrei fatto in modo che non prendesse quella strada. Ma sapevo bene che non aveva altra scelta: lui era stato così sin da piccolissimo. Di sicuro avrebbe potuto scegliere un uomo meno predatore di Rudolf, e magari questo nuovo ragazzo aveva rappresentato un piccolo miglioramento, per lui. Soffocai un singhiozzo. Un miglioramento troppo piccolo, e arrivato troppo tardi. Se non altro, fino a quando c'era stato Rudolf, lui era ancora vivo. Mi sfregai il viso con le mani, cercando di non pensare che Ernst ormai non c’era più.

    Ma era davvero possibile che Ernst avesse lasciato un uomo benestante come Rudolf? Lui era molto attento alle proprie necessità, e anche quando in passato aveva tradito Rudolf (sapevo bene che l'aveva fatto spesso), era stato molto attento a tenere nascoste quelle storie. Rudolf era un uomo geloso e molto potente.

    La campana della Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche rintoccò le dieci. Io ero in ritardo per il processo. Se non mi fossi presentata, avrei potuto perdere il lavoro, perdere tutto. Pensai a come convincere la padrona di casa di Ernst a lasciarmi entrare nel suo appartamento, ma mi dissi anche che non sarei riuscita ad affrontare le sue stanze, i suoi vestiti, il suo odore.

    Arrancai di nuovo verso la stazione della metropolitana. Un cartello con una grossa U bianca su un fondo blu scuro segnalava l'ingresso. Ernst chiamava quei cartelli "sorrisi vuoti". Lui aveva preferito la prigionia di un taxi con un compagno ricco, rispetto al rumore e alla calca di un vagone della metropolitana, e ora sarebbe stato sepolto da solo, senza quello sfarzo che tanto amava. Strinsi a me la scatola di Rudolf e mi incamminai verso la banchina.

    Mentre aspettavo il treno, sbirciai nella scatola, ansiosa di scoprire cosa contenesse e senza il coraggio di tirarne fuori alcunché. E se Rudolf l'avesse riempita di gioielli costosi? O se ci avesse messo della cocaina, o un qualche stravagante oggetto sessuale?

    Ripresi la metropolitana in direzione del tribunale, osservando il

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