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La Romanesca
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La Romanesca

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La cucina romanesca nasce dall’incontro tra la tradizione importata dagli ebrei trapiantati nella Città eterna a seguito di vari esodi e quella contadina proveniente dalle vie consolari, lungo le quali giungevano, dall'Agro romano, verdura, formaggi, vino e animali. Una cucina popolare da sempre intimamente legata ai prodotti della terra, esaltata da sapori chiaramente identificabili e, seppure spesso realizzata con materie prime “povere”, mai banale. Nascono così dai residui della lavorazione del mattatoio di Testaccio - il quinto quarto - capolavori come la Coda alla Vaccinara. Così come Gricia e Matriciana (diversamente da Amatrice, a Roma la chiamano così) sono diretta conseguenza della cucina dei pastori. Per capire come sia nata veramente la cucina romanesca è necessario approfondire intimamente le tradizioni culturali di Roma, fondersi con esse, percorrendo le tracce della memoria, orale e scritta, delle nonne romane, di osti e di artisti, oltre, naturalmente, di classici autori come Ada Boni, Livio Jannattoni, Luigi Carnacina, ecc. Per questo motivo il libro La Romanesca non è stato pensato come un semplice libro di ricette. Alla ricerca delle origini della cucina popolare, l'autore ha voluto affiancare alla parte gastronomica una serie di aneddoti e curiosità, con sconfinamenti nella leggenda, nel folclore, nella storia, nella letteratura, nel dialetto e negli usi e costumi popolari.
Il libro "La Romanesca" è in fondo un elogio della “cucina bassa”, il contrario di quella cucina arrogante dominata da un mercato che propone cibi industrializzati senza sapore, odore, né tanto meno stagione.

LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2014
ISBN9781310519413
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    La Romanesca - Francesco Duscio

    PRAEFATIO

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    Franco ed io ci conosciamo da più di trent’anni, siamo entrambi del segno zodiacale dei Pesci (persone generose, ma un po’ pigre nel darsi agli altri) e siamo legati da quel tipo di amicizia per cui non ti vedi per un sacco di tempo, ma quando t’incontri, è come se ti fossi salutato cinque minuti prima. Che poi non è altro che la vera amicizia, almeno secondo me.

    Ci hanno unito due grandi passioni, quella per la politica – presto ne siamo stati disillusi con profonde ferite – e quella per l’A.S. ROMA, foriera di tante illusioni coronate nei fatti solo con l’aver assistito alla conquista di due scudetti e a una dolorosa finale di Coppa Campioni.

    Ognuno di noi ha avuto anche altre passioni nella vita – ormai lunga – che ci siamo lasciati alle spalle: una di queste è la passione per il buon cibo, da Franco arricchita con la non secondaria passione per la cucina.

    Quando mi anticipò la sua intenzione di scrivere un libro su quest’argomento, lo incoraggiai, sicuro che sarebbe stato un lavoro impostato seriamente e dal risultato garantito in termini di originalità, competenza, e quindi di grande interesse per i lettori. Scriverne la prefazione – oltre che essere per me un grande onore – rappresenta un attestato di stima da parte di Franco nei miei confronti di cui gli sono veramente grato.

    Il suo libro è in fondo un elogio della cucina bassa, da intendersi non come una cucina minore, di serie B, rispetto alla cosiddetta Alta Cucina, tanto televisivamente di moda oggi. La cucina bassa è, invece, un luogo dove possiamo riporre la certezza delle nostre emozioni più fragili e intime.

    Infatti, una volta persa definitivamente la sfera femminile, la cucina è diventata arrogante, dominata da quel potere del mercato che propone cibi senza sapore, odore, né tanto meno stagione. Un cibo industrializzato, capace però di darci una tranquillità che è solo apparente nel non sapore o – ancor peggio – nel platealmente riconoscibile.

    Franco propone allora di riequilibrare la nostra primordiale condizione di raccoglitori di prodotti con un’agricoltura il più possibile ridimensionata in localismi rinnovati, frutto di una territorialità intelligente.

    Franco non propone alcuna dissertazione teorica, tutt’altro. Con grande gusto ci descrive raffinati o caserecci spuntini per quando siamo soli, piatti per coccolarsi in due, ottime idee per i pranzi in famiglia e i menù ideali per accogliere gli amici. Qualche esempio?

    L’ormai dimenticata preparazione delle lumache di San Giovanni, le polpette di calamari come le facevano gli antichi Romani, le ricette alla giudia dove la fanno da padrone carciofi, legumi e baccalà. Il pesce pescato ad Anzio, con le ritrovate ricette che utilizzano il pesce povero come le alici, il cefalo, l’arzilla. La tradizione del quinto quarto e delle frattaglie, con le ricette nate nelle trattorie sorte accanto al Mattatoio di Testaccio. La gricia, la matriciana, la carbonara, regine della cucina romanesca dei primi piatti.

    E infine i formaggi locali, ricotta e pecorino romano, protagonisti trasversali di ricette che coinvolgono primi, secondi e dolci.

    Tutto ciò condito da una non stereotipata, ma autentica dose di simpatica romanità, guarnita dal solito disincanto verso le tematiche serie. E non finisce qui.

    Franco – da ultimo, ma non meno importante – ci guida con maestria nell’arte della cucina del riuso, del cibo della sera prima che si trasforma in appetitosi manicaretti, d’ingredienti anche poveri, ma che possono diventare piatti straordinari.

    E ora non resta che sederci a tavola!

    Maurizio Di Paolo

    Maurizio Di Paolo, poeta e scrittore, vive a Roma, dove è nato nel 1958. Manager di una delle più grandi Aziende Italiane di Servizi, è stato anche Consigliere di Amministrazione di importanti Società. Il libro L’ultimo disco di De André, suo esordio come scrittore di narrativa, ha avuto il Premio Medaglia al concorso letterario di Cava dei Tirreni. Come poeta ha vinto nel 2013 la VI edizione del Concorso di poesia inedita indetto dall’Associazione Culturale Tapirulan.

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    I - INTRODUZIONE

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    Le ricette di questo libro hanno un filo conduttore: la tradizione della CUCINA ROMANESCA.

    L’intenzione è di presentare piatti di una volta da realizzare oggi, con gli strumenti che il progresso tecnologico ha, nel frattempo, messo a disposizione

    Per realizzare il libro, oltre ad essermi abbeverato ai classici autori (Ada Boni, Livio Jannattoni, Luigi Carnacina, ecc.) sono andato sulle tracce della memoria, orale e scritta, delle nonne romane, degli osti competenti e dei maniaci come me, appassionati cultori della cucina romanesca.

    Nel modo di confezionare le pietanze troverete quindi anche quegli ingredienti tradizionali (oggi, in gran parte, in disuso) come strutto e lardo, che poco si confanno alle raccomandazioni della sanità in fatto di contenimento dei livelli di colesterolo nel sangue. Potete senz’altro sostituirli con il mitico OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA (d’ora in poi chiamato semplicemente Olio evo). Quello della Sabina è tra i migliori d’Italia.

    Vi consiglio però, di tanto in tanto, di fare uno strappo alla regola: preparare qualcosa con le proprie mani, utilizzando ingredienti originali d’epoca, rappresenterà una piacevolissima personale esplorazione alla scoperta di gusti e aromi che non devono in alcun modo essere spediti nel dimenticatoio.

    Ogni capitolo del libro si sviluppa per temi e argomenti legati alla genesi delle ricette romanesche, alternando escursioni storico-gastronomiche ad aneddoti e curiosità, con sconfinamenti nella leggenda.

    Quindi non il solito ordinamento rigoroso per antipasti, primi, eccetera, che comunque potete trovare alla fine, nell’INDICE RICETTE MENÙ, dove le ricette sparpagliate del libro, per una più rapida consultazione, sono ordinate anche secondo i canoni tradizionali.

    Le dosi di ogni ricetta sono calcolate per quattro persone.

    Nel penultimo capitolo trovate la descrizione de I MIEI VINI, quelli che ho scelto per accompagnare le ricette descritte nel libro. Trattandosi di cucina romanesca, ho evidenziato quei VINI DEL LAZIO che ritengo essere i migliori in assoluto. Vi confesso che quando leggo frasi del tipo l’abbinamento perfetto a questo piatto è il vino xxx, resto sconcertato. Credo siano veramente pochi i piatti che vogliono obbligatoriamente l’accompagnamento di un solo tipo di vino. La mia distinzione è pertanto limitata a tre gruppi: I MIEI VINI BIANCHI D.O.C., I MIEI VINI ROSSI D.O.C. (ambedue anche nella versione SUPERIORE, da me preferita) e I MIEI VINI DA DESSERT E DA MEDITAZIONE. Per molte ricette vale la regola della scelta personale: se io indico, per esempio, che a quel piatto più si adatta un Frascati Superiore, nulla vieta di sostituirlo con un Colli Lanuvini o un Marino Superiore, o un analogo bianco dei Castelli. Se preferite bere gradazioni più leggere utilizzate, dello stesso vino, la versione NORMALE anziché la SUPERIORE.

    L’ultimo capitolo ha come titolo ALIMENTI E PREPARAZIONI DI BASE; se una ricetta prevede le fettuccine fatte in casa, gli gnocchi, la cottura di ceci e fagioli, la preparazione di brodo vegetale, besciamella, salse e sughi, oppure una pastella per friggere, una crema pasticciera, una pasta frolla o una pasta sfoglia, non sto ogni volta a ripetere la preparazione, rimandandovi alla consultazione dell’apposito capitolo.

    Oggi la mancanza di tempo è l’ostacolo principale per chi si accinge a cucinare. Avvaliamoci quindi senza remore di tutti gli strumenti che la tecnologia ci offre: dal frullatore all’impastatrice, dal mixer a immersione alla PENTOLA A PRESSIONE (la raccomando caldamente, basta saperla usare).

    Sempre nell’ultimo capitolo trovate i TEMPI DI COTTURA per la PENTOLA A PRESSIONE, oltre a una piccola TABELLA DI DOSI EMPIRICHE che può essere di aiuto, senza dover usare ogni volta il bilancino.

    Il formaggio utilizzato a Roma è sempre stato il PECORINO: il parmigiano, entrato ormai da tempo nell’uso quotidiano, l’ha, di fatto, sostituito in molte famiglie. Le ricette della cucina romanesca prevedono quasi esclusivamente l’utilizzo del PECORINO ROMANO. Se lo volete sostituire, totalmente o in parte, con il PARMIGIANO REGGIANO, fatelo pure, ma di nascosto. La ritengo pura eresia. In ogni caso, se proprio dovete abiurare la tradizione, fatelo esclusivamente con il PARMIGIANO REGGIANO, che preferisco rispetto al grana padano sia per il sapore sia per la fattura (nel padano è ammesso, anche se in piccole dosi, l’uso di conservante lisozima - E1105) oltre che per la stagionatura minima (12 mesi nel reggiano, 9 nel padano).

    In alcune ricette troverete come ingrediente la MOZZARELLA. Nella cucina romanesca si dovrebbe parlare di PROVATURA, che però oggi è difficilmente reperibile. Deriva il suo nome dalla prova che il maestro caseario faceva sulla massa di latte bufalino in lavorazione, per testare la qualità della filatura della pasta. Potete sostituire la provatura con le OVOLINE DI BUFALA: quando nel libro trovate la voce MOZZARELLA, la stessa deve essere intesa quindi come MOZZARELLA DI BUFALA, maggiormente utilizzata nella Roma dell’800 rispetto a quella di mucca. Le bufale hanno una passione per i pantani e gli acquitrini, di norma pascolano in regime di semilibertà mangiando sia vegetazione spontanea, sia coltivata. Se poi prendete un prodotto bio, avrete il meglio del sapore. Anche in questo caso, se non riuscite a trovare una buona mozzarella di bufala, comprate pure quella di mucca (sempre di nascosto… non lo voglio sapere), ma almeno procuratevi quella prodotta esclusivamente con LATTE ITALIANO (deve essere chiaramente indicato nell’etichetta, non basta la dicitura mozzarella italiana o mozzarella prodotta in Italia) che trovate nei migliori supermercati e salumerie.

    Francesco Duscio

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    II - CIUMACHELLA

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    CIUMACA, CIUMACHELLA, CIUMACATA

    Ciumaca a Roma significa lumaca, ma anche bella ragazza. Le lumache erano viste dai romani con la massima affettuosità, tanto che il termine Ciumachella era il vezzeggiativo più usato per l’innamorata. La maschera più famosa di Roma, Rugantino, il bullo strafottente, spaccone, arrogante (il nome deriva da ruganza=arroganza) tradisce il suo animo romantico rivolgendosi a Rosetta, in una delle canzoni più belle di Garinei e Giovannini, con il vezzeggiativo:

    ... ciumachella,... ciumachella de trastevere

    che miracolo che ha fatto mamma tua…

    a creà sto non plus urtra de armonia…

    sei ‘na rosa, sei ‘n biggiù ‘na sciccheria,

    ... ciumachella, ...ciumachella de Roma mia

    se ‘n pittore te volesse pitturà…

    butta tutti li pennelli... e sta a guardà!!!

    Le donne romane sono belle, ma se je sarta la mosca ar naso tirano fuori un certo caratterino, che è adeguatamente descritto in alcuni stornelli:

    LE TRASTEVERINE:

    A Roma a Roma belle le romane

    ma so’ più belle le trasteverine.

    Io so’ trasteverina e lo sapete

    nun serve bella mia che ce rugate (*)

    so’ cortellate quante ne volete.

    (*) che fate l’arrogante

    LE REGOLANTE (DEL RIONE REGOLA):

    Noi semo regolante e nun tremamo

    paura de nissuno nun tenemo

    ciavemo bona lingue e mejo mano.

    LE MONTICIANE (DEL RIONE MONTI):

    Noi semo de li Monti e semo donne

    a litigà ciannamo senza l’arme

    semo più forte noi che le colonne.

    Semo monticianelle e nun tremamo

    e lo spadino in testa lo tenemo

    er cortelluccio in petto, er sercio in mano.

    Questi versi forniscono una descrizione della donna romana che è perfettamente in linea con il carattere de La Romanesca (Cucina): certamente saporito, piccante, quasi aggressivo, si rivela, allo stesso tempo, sincero, genuino, semplice e schietto. Ti conquista proprio come na Ciumachella de Trastevere, stuzzicante, saporita, profumata e appetitosa.

    "Regazze da bacià e ciumache da magnà non ponno mai sazià!"

    * * * * *

    LA NOTTE DE SAN GIUVANNI

    Belle, che andate pé li sette sonni,

    svejateve, stanotte è San Giovanni,

    È notte d'incantesimi, è notte de magia,

    le streghe, in groppa ai diavoli, volano in compagnia...

    Nella notte tra il 23 e il 24 giugno (quella del solstizio, la più corta della stagione, considerata magica fin dai tempi antichi) i romani andavano a San Giovanni in Laterano a pregare il Santo e a mangiare le ciumache nelle osterie e nei chioschi allestiti. Così si esorcizzava il male rappresentato dal diavolo, con cui la tradizione popolare, per via delle corna, identificava le lumache. Era anche la notte delle streghe, dirette al Gran Noce di Benevento per celebrare l’annuale Sabba. Prima di uscire da casa, i romani mettevano fuori dalla porta una scopa e il barattolo del sale. Così una strega che avesse avuto l’intenzione di entrare, avrebbe dovuto (prima di mezzanotte) contare tutti i fili della scopa e tutti i chicchi di sale, cosa impossibile, perché se sbagliava a contare, regola voleva che dovesse ricominciare da capo. Altra magia della notte di San Giovanni era quella di riuscire a rappacificare, di fronte a un piatto di lumache e a ‘na fojetta de vino, parenti, amici, fidanzati, che avevano litigato. Le lumache simboleggiavano, con le loro corna, i risentimenti accumulati; mangiare lumache con qualcuno significava cancellare i rancori reciproci. Fino alla seconda metà del ‘900, da Piazza San Giovanni fino a Santa Croce in Gerusalemme e a Piazza Re di Roma venivano allestite lunghissime tavolate, dove si beveva vino dei Castelli e si mangiava porchetta di Ariccia e lumache. Le osterie servivano le lumache fino a notte alta, mentre le fraschette (osterie senza cucina) accoglievano i fagottari (il fagotto era la tovaglia a quadretti, annodata per i quattro angoli) che si portavano le lumache cotte da casa, oltre a tutto il resto, consumando solo il vino. Nel 1891, tra sfilate di carri allegorici e gare di giochi popolari, fu bandito il Primo Concorso Canoro della Canzone Romana. Vinse il primo premio (ben cento lire) la canzone Le Streghe di Nino Ilari, con musica di Alipio Calzelli, cantata da Leopoldo Fregoli appena a inizio carriera.

    Si tutte le streghe… sò come sei te…

    nun c’ho più paura… le vojo vedé!

    Considerato il grande successo, negli anni successivi si replicò. Le varie edizioni videro il successo di bellissime canzoni come Affaccete Nunziata, Nina si voi dormite e Barcarolo Romano.

    * * * * *

    LE LUMACHE DI CARTAGINE E DI ALBA FUCENS

    CARTAGINE - Gli antichi Romani erano golosi di chiocciole. Leggenda narra che, durante l’assedio di Cartagine, un soldato romano, seguendo il percorso delle chiocciole che stava catturando, trovò un passaggio segreto sotterraneo, attraverso il quale i Romani riuscirono a penetrare dentro le mura della città.

    Il primo allevatore fu Fulvio Lippino, che importava chiocciole da tutte le parti del mondo, organizzando servizi di traghetti proprio con la costa nordafricana, ma anche con quella spagnola, la Sardegna, la Sicilia, Capri. I Romani allora iniziarono a costruire in casa propria dei mini allevamenti, facendo crescere le chiocciole in piccoli recinti chiamati cocleari.

    Varrone, nel suo trattato Cochlearia descrive come si fa ad allevare le lumache. Plinio il Giovane nella sua Naturalis Historia racconta che le lumache venivano ingrassate con farine di cereali ed erbe aromatiche.

    ALBA FUCENS - È una tra le più antiche colonie romane, fondata nel 303 a.C. dai Romani su un’altura fra il Monte Velino e il lago del Fucino. Oggi è un pregevole sito archeologico che vi consiglio di visitare.

    Nella guerra civile tra Silla e Mario, Alba Fucens era schierata a favore di quest’ultimo: al termine del conflitto Silla la punì e, per soddisfare le richieste di uno dei suoi luogotenenti, Quinto Cecilio Metello Pio, distribuì ai veterani parte delle terre della città.

    Gli stessi veterani avevano anche partecipato alla spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia, che Silla era riuscito a catturare. La Numidia si estendeva nei territori a occidente di una Cartagine ormai rasa al suolo; alla sua distruzione avevano resistito le famose lumache, che i veterani di Silla importarono in abbondanza nei giardini delle proprie case, ad Alba Fucens, per allevarle.

    Ancora oggi, tra le rovine della colonia romana è facile incontrare la lumaca Helix Aspersa figlia delle generazioni (che si sono succedute nei secoli) originate da quella famosa chiocciola di Cartagine.

    "La signora bbrebbrè bbrebbrè, porta la fiasca e vino nun è, porta le corna e bbove nun è, dipigne er muro e pittore nun è, azzeccate che ccos’è?"

    COME SI PREPARANO LE LUMACHE

    Le migliori lumache sono quelle che si raccolgono nelle vigne: le rigatelle vignarole. Oggi troviamo soprattutto quelle di allevamento, che in realtà sono più sicure che quelle raccolte in campi dove potrebbero essere stati dati in precedenza dei prodotti pesticidi (proprio a causa di questi in molte regioni le lumache allo stato brado sono diventate così rare che ne è vietata la raccolta).

    Le lumache da allevamento hanno alimentazione solo vegetale e controllo sanitario; inoltre le troviamo già spurgate, operazione che altrimenti, per eliminare tutta la terra che è contenuta nello stomaco e nell’intestino, dovremmo fare da soli.

    Nel caso invece di lumache raccolte, per spurgarle dovete organizzare uno spazio all’ombra, in un luogo fresco: un recinto coperto con una rete molto fitta dalla quale non possano scappare (il sole diretto le ucciderebbe) che riempirete d’insalata, pezzetti di frutta e foglie di piante aromatiche (mentuccia, basilico). Cambiate ogni giorno la verdura e lasciatele nel recinto per almeno dieci giorni. Se invece comprate quelle allevate è sufficiente metterle per tre giorni a spurgare in un cesto areato e coperto con qualche foglia di mentuccia e mollica di pane, bagnata in acqua e ben strizzata. Passati i tre giorni, mettetele a bagno in un contenitore capiente pieno d’acqua. Scartate quelle che non escono dal guscio. Nell’acqua versate un pugno di sale e un bicchiere di aceto, mescolando bene con le mani per cinque minuti: vedrete che tireranno fuori abbondante schiuma. Fatelo per un paio di volte, fino a che l’acqua sarà pulita dalla schiuma, e alla fine sciacquate con abbondante acqua fredda.

    * * * * *

    LUMACHE ALLA ROMANA (CIUMACATA)

    Lumache un kg – Passata di Pomodoro (o Pomodori Pelati) ½ kg – Acciughe diliscate e dissalate 4 – Olio evo – Aglio 2 spicchi – Peperoncino – Sale – Mentuccia.

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    Fate spurgare le lumache e mettetele in una casseruola con acqua fredda.

    Cuocete a calore moderato. Man mano che l’acqua si riscalda, le lumache tireranno fuori dal guscio prima le cornette e poi il corpo. A questo punto alzate la fiamma fino a raggiungere l’ebollizione: le lumache cuoceranno senza avere la possibilità di rientrare nel guscio. Continuate la cottura per 20 minuti, quindi scolate e risciacquate le lumache in abbondante acqua fredda. Mentre le lumache lessano, soffriggete in un tegame capiente aglio e olio. Non appena l’aglio imbiondisce toglietelo e aggiungete i filetti d’acciuga, (schiacciandoli con un cucchiaio di legno), pomodoro, sale, peperoncino e abbondante mentuccia tritata. Cuocete per altri 10 minuti al fine di far addensare la salsa. Aggiungete le lumache e proseguite la cottura a fuoco moderato e tegame coperto (da 15 a 25 minuti, dipende dalla grandezza delle lumache).

    Mescolate ogni tanto, aggiungendo acqua calda se la salsa è troppo densa.

    Servite caldo nei piatti spolverando con altra mentuccia fresca, non dimenticando gli stecchini per tirar fuori le lumache dal guscio e il pane casereccio per l’inevitabile scarpetta.

    VINO DA ABBINARE: Frascati Superiore, Montecompatri Colonna Superiore.

    LUMACHE E FUNGHI PORCINI

    Lumache ½ kg – Funghi Porcini ½ kg – Acciughe diliscate e dissalate 4 - Olio evo – Aglio 2 spicchi – Peperoncino – Sale – Mentuccia – Limone – Pane bruschettato

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    Stessa preparazione della CIUMACATA, con la variante di aggiungere i funghi porcini tagliati a fettine (preventivamente puliti con una salvietta bagnata) nel tegame dove avete soffritto aglio, olio e filetti d’acciuga e aggiunto sale, peperoncino e abbondante mentuccia tritata.

    Cuocete a calore moderato per 5 minuti, aggiungete le lumache e proseguite la cottura a fuoco moderato e tegame coperto (da 15 a 25 minuti, dipende dalla grandezza delle lumache) aggiungendo acqua calda se la salsa è troppo densa.

    Alla fine spremete il succo di un limone, spolverando con altra mentuccia fresca. Servite caldissimo nei piatti su fette di pane bruschettato, non dimenticando gli stecchini per tirare fuori le lumache.

    VINO DA ABBINARE: Frascati Superiore, Montecompatri Colonna Superiore.

    * * * * *

    LINGUA E CUCINA ROMANESCA

    Romano e Romanesco sono sinonimi? Possono essere indifferentemente usati l’uno al posto dell’altro? La risposta è no.

    L’aggettivo/sostantivo Romano identifica ciò che è legato alla città di Roma, alla sua storia e cultura (Diritto Romano, Architettura Romana, Chiesa Cattolica Apostolica Romana, Cittadino Romano, ecc.).

    Il Romanesco invece identifica ciò che è legato alla cultura popolare di Roma e al suo dialetto.

    Dal medioevo all’età moderna il linguaggio colto della nobiltà e dell’alta borghesia si è sempre diversificato da quello della strada. Romano e Romanesco furono utilizzati anche per distinguere le classi sociali: Romano per nobili e borghesi della corte del Papa; Romanesco per volgo, bottegai, artigiani, operai, osti.

    LA LINGUA ROMANESCA

    Giuseppe Gioachino Belli nell’introduzione ai Sonetti dichiara di voler ritrarre le idee popolari (plebe ignorante ma concettosa e arguta) utilizzando il linguaggio parlato: una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.

    A Roma esistevano due lingue: latino e italiano toscaneggiante per i nobili, l’onomatopeico e ironico dialetto, espressione dell’anima popolare.

    LA ROMANESCA (CUCINA)

    Perché il libro ha questo titolo? Il fatto di essere popolare differenzia la cultura romanesca da quella romana, esistendo grosse diversità, non solo economiche e culturali, tra il popolo e le classi colte.

    La cucina è ROMANESCA perché nella stragrande maggioranza dei casi (tranne che per rari piatti di provenienza papalina/aristocratica) è espressione della cultura popolare, con utilizzo d’ingredienti poveri ed economici. Essa nasce dall’abbraccio tra la cucina ebraica del ghetto e quella dei prodotti di scarto del bue (il quinto quarto) intorno al mattatoio di Testaccio.

    Non è una cucina ricercata, ma per eseguirla servono ingredienti freschi e stagionali, provenienti dall’agricoltura e dagli allevamenti della campagna romana. Il condimento di maggior uso era lo strutto, oggi soppiantato dall’olio evo. Guanciale e lardo mantengono comunque un ruolo decisivo in alcune ricette, così come aglio, cipolla, sedano e carota, basilico, prezzemolo, salvia, rosmarino, alloro, menta romana (per la trippa) e mentuccia (per le lumache).

    GASTRONOMIA E LETTERATURA ROMANESCA

    Parliamo in altro capitolo del DE RE COQUINARIA di Apicio. Per i secoli successivi, solo dal Rinascimento si comincia ad avere qualche scritto. Martino dè Rossi (maestro Martino da Como) scrive a Roma nel 1465 il ricettario Libro de Arte Coquinaria, con ricette arricchite d’influenze regionali e arabe. Le opere che seguono nei secoli successivi sono scritti di eruditi gastronomi: Bartolomeo Sacci detto il Plàtina, conservatore della Biblioteca Vaticana, Domenico Romoli, detto il Panonto cuoco secreto (cioè personale) di Giulio III, Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di Pio IV e Pio V, Francesco Leonardi, romano di nascita, cuoco di Caterina II, ma trattano solo di cucina aristocratica e costosa, non certo di cucina popolare.

    È proprio a causa del suo carattere povero che la CUCINA ROMANESCA trova maggior riscontro, specialmente nell’Ottocento, nelle testimonianze dei poeti (prima Giuseppe Gioachino Belli, poi Trilussa), dei cantori (negli stornelli e nelle canzoni romane), dei pittori e dei disegnatori (su tutti Bartolomeo Pinelli).

    Le loro opere forniscono una descrizione dettagliata della vita popolare e degli usi e costumi in materia gastronomica.

    Solo dal 1900, numerosi autori inizieranno a scrivere di cucina popolare romanesca, prima su tutti Ada Boni (La Cucina Romana - 1927).

    "Magna bene, caca forte e nun avè paura de la morte"

    Il vero romano è sempre stato un amante del mangiar bene, dello star seduto comodamente co li piedi sotto ar tavolo per degustare piatti semplici, ma di carattere, conversando allegramente in compagnia degli amici e accompagnando il tutto col profumato vino dei Castelli.

    Avventori e osti sono stati i veri custodi di una tradizione di romanità che ha sempre difeso gagliardamente: la cucina romanesca rispecchia il gusto e il carattere gioviale e schietto di questa stirpe fiera di essere figlia di Romolo.

    Le osterie di Roma nel ‘500 erano più di mille e già da allora, come oggi, costituivano grande attrazione per i turisti e pellegrini stranieri. Se ne trova traccia, anche nei secoli seguenti, in diversi scritti di eruditi letterati, specialmente francesi e inglesi.

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    III - LUPUS IN FABULA

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    LUPUS IN FABULA significa il lupo nel discorso, in altre parole parli del diavolo, e spuntano le corna. Quando si parla di CUCINA ROMANESCA spunta sempre fuori la CUCINA ROMANA, e viceversa. Abbiamo visto come sia importante distinguere tra CUCINA ROMANA (quella dell’antica Roma) e CUCINA ROMANESCA (quella tradizionale pervenuta ai giorni nostri, che inizia a formarsi nel Rinascimento, per consolidarsi nell’Ottocento). Riprodurre oggi le ricette della cucina romana antica non è cosa semplice. Con le conquiste dell’Impero, sulle tavole dei ricchi romani arrivarono cibi, ricette, odori e sapori sconosciuti prima, come (ne cito solo una minima parte) il laserpizio, il cardamomo, il nardo indiano, il ligustico (indispensabile nella maggioranza delle ricette), le radici di costo, i semi (tossici) della ruta, la pastinaca, il silfio ecc. Servirebbe quindi una dispensa ricca di spezie ed erbe oggi poco reperibili o introvabili, non facilmente sostituibili da altri ingredienti.

    * * * * *

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