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Una canzone per Julia
Una canzone per Julia
Una canzone per Julia
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Una canzone per Julia

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About this ebook

Tutti dovrebbero avere qualcosa contro cui ribellarsi.

Crank Wilson se n'è andato di casa a sedici anni per fondare un gruppo punk e sfogare la propria rabbia contro il mondo. Sei anni dopo è ancora in cattivi rapporti con suo padre, un poliziotto di Boston, e non parla nemmeno con sua madre. L'unica persona con cui abbia rapporti stretti è suo fratello minore, ma occuparsi di Sean, a volte, può trasformarsi in un lavoro a tempo pieno.

L'unica cosa che Crank desidera dagli altri è che lo lascino in pace a scrivere la sua musica e a portare il suo gruppo al successo.

Julia Thompson si è lasciata alle spalle un segreto quando ha lasciato Pechino. Una volta arrivata a Washington, esso si è trasformato in uno scandalo esplosivo che ha minacciato la carriera di suo padre e incrinato la vita della sua famiglia. Ora che frequenta l'ultimo anno di Harvard, il suo passato continua a tormentarla e Julia rifiuta di perdere nuovamente il controllo delle proprie emozioni, soprattutto quando si tratta di uomini.

Quando Julia e Crank si incontrano durante una manifestazione pacifista a Washington, nell'autunno del 2002, la scintilla che scocca tra di loro minaccia di distruggere tutto quanto.

LanguageItaliano
Release dateSep 28, 2016
ISBN9781507118634
Una canzone per Julia

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    Una canzone per Julia - Charles Sheehan-Miles

    Una canzone per Julia

    Charles Sheehan-Miles

    Traduzione di Ernesto Pavan

    Una canzone per Julia

    Autore Charles Sheehan-Miles

    Copyright © 2015 Charles Sheehan-Miles

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Ernesto Pavan

    Editor Maria Idotta

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    Dello stesso autore

    The Thompson Sisters

    Una Canzone per Julia (Traduzione di Ernesto Pavan)

    Falling Stars: A Thompson Sisters

    A View From Forever

    Just Remember to Breathe

    The Last Hour

    The Thompson Sisters / Rachel's Peril

    Girl of Lies

    Girl of Rage

    Girl of Vengeance

    Fiction

    Nocturne (with Andrea Randall)

    Republic: A Novel of America's Future

    Insurgent: Book 2 of America's Future

    Prayer at Rumayla: A Novel of the Gulf War

    Nonfiction

    Saving the World On $30 A Day: An Activists Guide to Starting, Organizing and Running a Non-Profit Organization

    Become a Full-Time Author: Practical tips, skills and strategies to turn your writing hobby into a career (with Andrea Randall)

    Riconoscimenti

    Colgo l’occasione per ringraziare Sarah Hansen per aver creato la splendida copertina di Una canzone per Giulia, e la mia editor Lori Sabin, per la pazienza dimostrata nei confronti mentre sistemavamo i vari problemi del manoscritto.

    Un grazie sentito anche a tutti i miei magnifici beta reader. I vostri suggerimenti, le vostre domande e i vostri feedback mi hanno aiutato a migliorare moltissimo il romanzo. Jackie Trippier Holt, Jennifer Mirabelli, Stephanie Thomas, David Leibensperger, Darcie Sherrick, Wendy Wilken, Kerri Williams, Carol Davis Luce, Shaina Salisbury-Abbs, Rich Perez, Bryan James, Amy Burt, Elle Chardou: grazie mille.

    Khalil e Amirah, vi ringrazio per avermi lasciato lo spazio e il tempo per concentrarmi sulla scrittura. Quest’anno ha visto la mia vita cambiare, e ciò non sarebbe stato possibile senza di voi.

    Capitolo Uno

    La principessa dei sobborghi (Crank)

    26 ottobre 2002

    Forse è una mia impressione, ma avrei creduto che una ragazza al centro della più grossa manifestazione contro la guerra dai tempi del Vietnam potesse anche non essere così stronza.

    Figurarsi. Eccola lì, che muoveva le labbra senza che io capissi una sola parola. Certo, a voler essere onesti era un gran bel pezzo di donna, anche se si vestiva come una bibliotecaria: indossava una gonna a fiori lunga fino al ginocchio che le fasciava le cosce e un maglione color pastello, mentre sul polso destro sfoggiava una quantità esagerata di bracciali e braccialetti. L’azzurro pallidissimo dei suoi occhi creava un contrasto incredibile con i capelli biondo cenere. Aveva quell’aria da scolaretta che mi faceva venir voglia di passarle la lingua sul collo. Ma il fiume di parole che stava uscendo dalla sua boccuccia mi fece indietreggiare di un passo, irritato e, al tempo stesso, sulla difensiva.

    Non ho capito bene, esclamai, sperando di riuscire in quel modo a tappare la falla.

    La ragazza trasse un respiro profondo e chiuse gli occhi. Io sorrisi.

    Ho detto che non potete ancora allestire il palco. Ora è il turno di Mark Tashburn, dopodiché ci sarà una pausa di quindici minuti. Potrete farlo allora.

    Levai gli occhi al cielo. E dovremmo iniziare a suonare subito dopo, per caso?

    La ragazza sorrise e parve rilassarsi un poco. Non credevo di piacerle davvero. Sembrava un sorriso fasullo, che non sfiorava nemmeno i suoi occhi di ghiaccio. Mi chiesi che aspetto avrebbe avuto se avesse sorriso sul serio.

    Esattamente, rispose.

    Non è fattibile, obiettai. Ci vuole più di un quarto d’ora per montare tutto.

    Lei sospirò. E perché non lo avete detto prima?

    Ehi, non è colpa mia. Non so chi abbia fatto la scaletta di questo evento, ma è un macello. Se ci volevate pronti a suonare tra mezz’ora, avremmo dovuto cominciare a prepararci un’ora fa. Ci vuole tempo per montare le attrezzature e accordare gli strumenti.

    La ragazza fece un piccolo sbuffo, poi disse: Va bene. Solo… cercate di non distrarre troppo il pubblico, ecco.

    Mamma mia, che roba. Quella tizia ci era saltata addosso nel momento in cui avevamo iniziato a portare l’attrezzatura sul palco. Non che la folla stesse prestando attenzione. Dovevano esserci almeno centomila persone, tra hippie, fricchettoni e casalinghe senza nulla di meglio da fare. Mi chiesi, per la centesima volta, come diavolo avevano fatto a convincermi a suonare durante una manifestazione pacifista.

    Certo, quello sarebbe stato il pubblico più numeroso davanti al quale ci fossimo mai esibiti. Ma andiamo. Fino a quel momento, sul palco si erano susseguiti una serie di oratori che parevano residuati degli anni Sessanta. Se questo non era sufficiente a mostrare quanto poco di serio ci fosse in quella pagliacciata, non so cos’altro avrebbe potuto farlo.

    Ma chissenefrega. Quel genere di cose piaceva a Serena, che era molto impegnata sul fronte pacifista. E qualunque cosa piacesse a Serena era qualcosa in cui la banda sarebbe prima o poi rimasta coinvolta. Non avevamo un manager, ma lei ci si avvicinava a esserlo. Era la nostra seconda voce nonché chitarrista di accompagnamento, e aveva un sesto senso per capire quali canzoni suonare e quali no.

    E così ci mettemmo al lavoro per allestire il palco senza allarmare gli indigeni. Gli hippie. Quello che erano. Concludemmo a tempo di record, non certo grazie all’aspirante casalinga dei sobborghi, che passò tutto il tempo a fianco del palco intenta a dare ordini con un foglio in mano.

    Tra l’allestimento, l’accordatura degli strumenti e l’inizio del concerto, ebbi la bellezza di quindici secondi per respirare. Poi mi tuffai nel primo riff. Gli studenti tra la folla cominciarono subito a muoversi a ritmo, ma gli anziani e le casalinghe – santo cielo, ma quante ce n’erano? – ci fissarono come se sul palco fosse caduta una bomba atomica. Nel dubbio ci diedi dentro ancora di più con la chitarra e con la voce, sparando a tutto volume la versione originale della nostra Fuck the War in tutta la sua oscena gloria, invece della versione edulcorata che avevamo inciso in studio.

    Non fraintendetemi: i Morbid Obesity non sono esattamente un gruppo punk. Siamo più sull’alternative rock, con una punta di peperoncino. Che poi sarei io. Fino a quel momento, la nostra canzone più famosa era stata Fuck the War, pubblicata in EP qualche mese prima. È una canzone d’amore che parla dei miei genitori, ma per arrivarci bisogna ascoltarla con tutte e due le orecchie. Quando l’avevo scritta ci avevo messo tutto il mio cuore e ce lo mettevo di nuovo ogni volta che la suonavo.

    Era una giornata perfetta per suonare all’aperto: faceva freschino, ma si stava bene. Il cielo era limpido e senza nuvole. Di tanto in tanto, una brezza leggera accarezzava il palco, di fronte al quale si estendeva una folla di centomila persone di tutte le forme, dimensioni e colori. Non avevo mai visto una cosa del genere.

    Ero arrivato al secondo ritornello quando l’occhio mi cadde sulla destra del palco e vidi la principessina. Si stava muovendo al ritmo della canzone, dolcemente, ma in modo chiaramente distinguibile, con le labbra semichiuse in un modo che mi mozzò il fiato. Labbra piene. Labbra da baciare. Mi venne da ridere: quella donna non era decisamente il mio tipo. Beh, tranne per il fatto che era femmina e molto attraente. Ma non era il mio tipo.

    Quando ancora frequentavo le superiori, il Provveditorato agli Studi di Boston aveva fatto l’enorme cazzata di mandare per sbaglio un gruppetto di ragazzi ricchi provenienti da Back Bay alla South Boston High. C’era stato di che divertirsi. Purtroppo era durato solo un anno, anche se tuttora non so se fu perché l’errore era stato sistemato o semplicemente perché i genitori dei ragazzi li avevano mandati in qualche scuola privata. In ogni caso, la fanciulla mi ricordava alcuni di loro: imperiosi. Superbi. I più schizzinosi fra loro guardavano i ratti come me in un modo… nemmeno fossimo destinati a diventare i criminali del futuro.

    Forse era per questo che la ragazza mi attraeva così tanto?

    Quel pensiero mi fece venire voglia di stuzzicarla un po’. Così, quando venne il momento di cantare la seconda strofa, lo feci rivolgendomi a lei e a lei soltanto. Al secondo verso i nostri sguardi si incrociarono. Io non distolsi il mio. I suoi occhi, così distaccati e così blu, mi lasciarono di stucco. Si accorse che stavo cantando per lei e rimase di sasso, come un cervo davanti ai fari di un’auto in corsa. Adoravo quando le ragazze facevano così. Voleva dire che, dopotutto, anche lei era umana. Se fossimo stati a Boston, l’avrei presa e trascinata sul palco, ma supposi che il pubblico non avrebbe gradito.

    Dopo un momento di esitazione, fu lei a incontrare nuovamente il mio sguardo. Sorrise, come a dire So cosa stai facendo. Risposi al sorriso mentre sparavo un verso dietro l’altro. La base e le percussioni di quel pezzo erano forti; non si poteva non ballare. Ruppi il contatto di sguardi e corsi all’altra estremità del palco, tuffandomi nell’assolo e urlando le parole a pieni polmoni. Quindi chiusi il pezzo di colpo.

    Casalinghe e lobbisti rimasero scioccati, ma gli studenti furono contentissimi e chiesero il bis. La principessa dei sobborghi applaudì con un sorrisetto misterioso in volto. E all’improvviso mi venne voglia di conoscerla meglio.

    Purtroppo, non sarebbe stato possibile. Eravamo a una manifestazione pacifista, non in un locale per incontri. Subito dopo aver finito di suonare, iniziammo a smontare il palco. Fu allora che la fanciulla d’oro si impadronì del microfono e gridò: "Un applauso per i Morbid Obesity e la loro hit Fuck the War!" Mi fermai per lanciarle un’occhiata mentre era al microfono.

    La folla perse di nuovo la testa. Non era male. E ancora meglio era stato sentire il nome della mia canzone uscire da quelle labbra. Ma cinque secondi dopo, la principessa era già intenta a presentare i relatori successivi, un gruppetto di veterani del Vietnam e della Guerra del Golfo che parevano residuati bellici. Gli organizzatori della parata dovevano averli riesumati per dare all’evento un tocco di credibilità.

    Mark e io ci eravamo presi l’incarico di trasportare la maggior parte dell’attrezzatura, mentre Pathin smontava la batteria e Serena si occupava di staccare monitor e cablaggi. Mentre stavo facendo l’ultimo viaggio, la principessa dei sobborghi mi venne incontro in fondo alla scaletta. Inciampai mentre scendevo l’ultimo gradino e mi ritrovai a meno di venti centimetri da lei, con lo sguardo perso in quegli occhi fantastici.

    Siete stati molto bravi, disse con un cenno del capo, lo sguardo fisso nel mio. Grazie per averci dato una mano.

    Feci spallucce e sorrisi. È stato divertente. Molto bravi? Tutto qui? Gesù, era così vicina. Riuscivo a sentire il suo profumo, un odore delicato e ricercato.

    Allora… cominciò lei, guardandomi fisso negli occhi.

    Che imbarazzo.

    Quanto durerà ancora questo ambaradan? chiesi.

    Ci sono ancora una mezza dozzina di relatori e la marcia attorno alla Casa Bianca. Direi ancora un’oretta.

    Mark risalì sul palco proprio mentre lei stava rispondendo alla mia domanda. Il nostro bassista è un tipo massiccio che avrebbe potuto diventare un giocatore di football… in un qualche universo parallelo dove i giocatori fumano marjuana e passano il proprio tempo libero nella Fossa di Harvard Square. Comunque sia, Mark spalancò gli occhi quando aprii di nuovo la mia stupida bocca.

    Che ne dici di mangiare qualcosa insieme dopo la manifestazione?

    Per una frazione di secondo il sorriso della ragazza svanì e sul suo volto apparve un’espressione quasi rabbiosa. Ora, sapevo di non essere un tipo elegante, ma non ero nemmeno un criminale; non c’era motivo di fare l’offesa.

    Andiamo, insistetti, è solo un boccone insieme. Prometto che non farò nulla di biasimevole.

    Mark commentò ad alta voce: Non credo che lei sia il tuo tipo, Crank.

    La principessa chiuse la bocca e lanciò un’occhiata in direzione di Mark. Poi strinse gli occhi e serrò le labbra, e per un attimo pensai che volesse prenderlo a sberle. Aveva un bel caratterino. Questo mi piaceva. Va bene, disse. Dove andiamo?

    Feci spallucce. Ecco… non conosco bene la zona.

    Parve pensarci su per qualche istante. Troviamoci all’incrocio fra la Georgia Brown, la Quindicesima e K Street. C’è un locale dove si può mangiare all’aperto. Alle quattro va bene?

    Sì! Era una mia impressione, o aveva fatto un passettino verso di me?

    Mark ridacchiò e levò le tende.

    Perfetto, dissi. Ci vediamo alle quattro, aggiunsi, guardandola nuovamente negli occhi.

    Non sapevo cosa diavolo mi fosse venuto in mente.

    I bravi ragazzi perdono sempre (Julia)

    Non sapevo cosa mi fosse venuto in mente.

    Era solo che, quando il bassista era salito sul palco e se ne era uscito con quella sparata, aveva toccato un nervo scoperto. Ma seriamente, Crank non era il mio tipo, anche se suonava divinamente. In fatto di musica, sono una vera snob: ho gusti eclettici, ma adoro il punk al di sopra di ogni altra cosa e, nonostante le obiezioni dei miei genitori, ad Harvard avevo seguito tutti i corsi possibili che potessero collegarsi anche lontanamente all’industria musicale. Il punk dei Morbid Obesity era di qualità, ma anche diverso dal solito, originale. Doveva essere per via di quel ritmo battente e della voce di Crank. Quella voce era… era… roca, profonda, melodiosa. Avrei potuto ascoltarla per tutto il giorno. E questo non era normale per me. Non decidevo di punto in bianco di uscire con Tizio o Caio. Anzi, di solito non uscivo proprio con nessuno.

    In teoria avrei dovuto incontrare gli altri organizzatori dopo la manifestazione e dare una mano a stendere il piano di quella successiva. Per non parlare del fatto che avrei dovuto rimanere a disposizione della stampa. Tutto molto interessante, ma quando quel ragazzo era inciampato e si era fermato a dieci centimetri circa dalla mia faccia, non ero riuscita a dirgli di no. Impossibile. Anche dal punto di vista fisico, perché c’era stato un momento in cui avevo smesso di respirare.

    Non andava bene, proprio per niente. Non ero venuta fino a Washington per conoscere dei ragazzi. Specialmente il tipo di ragazzi che si faceva chiamare Crank, suonava la chitarra e, forse, si drogava anche. Ero venuta per una causa in cui credevo.

    Ma mentre Crank si incamminava verso il furgoncino della banda portando con sé la sua chitarra e un grosso amplificatore, non potei non guardarlo. E mi resi conto che in qualche modo avevo perso la voglia di sentire altri slogan. Fermare la guerra era importante, ma credevo davvero che sarebbe accaduto in quel momento? Anche no. La marcia era stata organizzata da ANSWER International, un gruppo che faceva capo a un’ala del partito dei lavoratori o qualcosa del genere. A mio padre sarebbe venuto un infarto se avesse saputo che avevo qualcosa a che fare con quel genere di attività, soprattutto visto chi la organizzava. Ma non avevo chiesto la sua opinione.

    Per cui mi ritrovai a scendere da un taxi in McPherson Square alle quattro del pomeriggio di un magnifico giorno di ottobre a Washington. Lo vidi immediatamente, seduto a uno dei tavolini sul marciapiede. Era spaparanzato sulla sedia, calmo e tranquillo, con i suoi jeans strappati e un drink di fronte a sé. Indossava una maglietta nera senza maniche che sfoggiava un teschio fiammeggiante e lasciava scoperti i tatuaggi intricati che aveva sulle braccia. I suoi capelli erano biondo platino e gellati a formare punte acuminate. Era strano vederlo in quel contesto, seduto a un tavolino dalla tovaglia bianca mentre sorseggiava il suo drink.

    Si alzò quando mi vide arrivare.

    Ehi, mi salutò. Avevo paura che non saresti venuta.

    Lo guardai con aria incuriosita. E perché?

    Crank si strinse nelle spalle. Beh, sono pur sempre un tipo strano che ti ha invitato fuori in una strana città…

    Chinai leggermente la testa di lato e risposi: Beh, in effetti sei strano, te lo concedo.

    Lui sorrise prima di tirarmi indietro la sedia. Un gesto inaspettato da parte di una persona dall’aria vagamente pericolosa.

    Ricominciamo dall’inizio, disse lui. Non ci siamo presentati a modo. Io mi chiamo Crank Wilson.

    Julia Thompson, gli feci eco. E il tuo vero nome qual è?

    Crank ridacchiò. Il mio vero nome è Crank. Così c’è scritto sulla mia patente e sul mio passaporto. Questo è tutto quello che devi sapere.

    Sarei inopportuna se ti chiedessi cosa passava per la testa dei tuoi genitori?

    Julia è un nome così classico, non credi?

    I miei genitori sono gente classica.

    Anch’io lo sono. Pensa che sono persino andato in tribunale per farmi cambiare nome.

    Ma perché Crank? chiesi.

    "Mi si addice, non sei d’accordo?¹"

    Mi appoggiai allo schienale della sedia e lo guardai. Molto attentamente. Crank era alto all’incirca un metro e ottanta e aveva lineamenti spigolosi. Lungo le sue braccia muscolose si attorcigliavano diversi tatuaggi, ma erano diversi da tutti quelli che avevo visto prima di allora. Sul braccio destro, quella che sembrava una pergamena con scritte note musicali si srotolava lungo i muscoli attorno alla zona del gomito. Il braccio sinistro, invece, mostrava il tatuaggio di quello che sembrava filo spinato e aveva una profonda scarnificazione, lunga otto centimetri, sul bicipite.

    Capivo il bisogno di cambiare nome. Cambiare identità. Scomparire.

    Immagino di sì, dissi alla fine. Perlomeno di primo acchito.

    La cameriera venne a prendere le nostre ordinazioni. Chiesi un tè gelato.

    Crank sogghignò mentre la ragazza si allontanava. Allora, che ci fa una ragazza di buona famiglia come te in mezzo a tutta questa sbobba pacifista? mi chiese.

    Sbobba pacifista? chiesi di rimando. Niente affatto. Un conto è stato andare in Afghanistan dopo l’11 settembre. Ma invadere l’Iraq… quella è tutt’altra cosa e non c’è motivo di farlo. Moriranno un sacco di persone. Per cui, sì, mi sono messa in mezzo.

    Crank si strinse nelle spalle. In linea di principio, sono d’accordo. Ma a voler essere onesti, non vedo che utilità abbia andarsene a spasso per Washington a protestare.

    Sospirai rumorosamente. Anche io ho i miei dubbi. Ma sentivo che era mio dovere fare qualcosa.

    Lui annuì, ma non aggiunse altro.

    Mi sporsi in avanti e aggiunsi: E tu? Il tuo gruppo ha accettato di suonare gratis alla manifestazione.

    Beh, rispose Crank, quello è tutto merito di Serena. È la nostra seconda voce nonché seconda chitarrista. E politicamente impegnata.

    Tu non lo sei?

    Non amo immischiarmi in certi affari. Anche se devo ammettere che suonare davanti a una folla come quella è stato una figata. Di solito lavoriamo nei locali.

    Qui a DC?

    No, più che altro dalle parti di Boston e Providence.

    Ebbi un momento di stupore. Boston? mormorai.

    Già, ribatté Crank. Vivo là. E tu?

    Pessima idea in arrivo. Avrei dovuto mentire, dirgli che abitavo in Siberia, o in Alaska, o magari in Alabama. Anche io vivo a Boston. Harvard? Il mio tono di voce cambiò leggermente verso la fine, come per trasformare la frase in una domanda. Come se non avessi saputo dove abitavo. Quell’insicurezza mi rese furiosa con me stessa.

    Crank ridacchiò. Avrei dovuto immaginarlo. Harvard.

    Cosa vorresti insinuare?

    Beh, è chiaro che non sei il tipo di ragazza con cui esco di solito.

    Non mi piaceva la piega che stava prendendo quella conversazione, ma a quanto pareva avevo perso il controllo della mia bocca. E quale sarebbe il tuo tipo?

    Mi rivolse una lunga occhiata prima di rispondere. Groupie. Sciacquette. La fauna dei bar della zona Sud di Boston. Non sono esattamente come te.

    Mi morsi il labbro. Non avevo una grande opinione di chi parlava in quel modo delle donne. Allora perché mi hai chiesto di uscire?

    Crank fece spallucce. A volte bisogna dare una scossa alla vita. Non è quello che stai facendo anche tu?

    Suppongo di sì. Nemmeno tu sei il tipo di ragazzo che frequento di solito.

    E come sarebbero quelli che frequenti di solito, Julia?

    Il tono con cui mi rivolse quella domanda era a metà fra il serio e il faceto. Gli lanciai un’occhiata, poi risposi onestamente: Di solito non frequento nessuno, punto. Ma quando lo faccio, di solito si tratta di persone ambiziose. Studenti di legge o di economia. Il genere di uomini che indossa giacca e cravatta e un giorno entrerà in Parlamento o diventerà dirigente. In altre parole, ragazzi che piacerebbero a mio padre.

    Crank mi guardò con una punta di malizia negli occhi prima di avvicinare improvvisamente il viso al mio. Stai dicendo che io non piacerei a tuo padre?

    Lo guardai negli occhi e trassi un respiro profondo. Erano blu e limpidi, molto limpidi. Il biondo platino dei capelli dava loro un risalto che mi avrebbe spinto a passare intere giornate a guardarli. Mi fissava come se stesse cercando di guardarmi dentro. Deglutii, la gola improvvisamente secca, e risposi: Di sicuro mio padre non approverebbe.

    Crank sorrise – un sorriso sghembo, infantile, che fece battere il mio cuore un po’ più forte. Mi accorsi in quel momento che uno dei suoi denti dell’arcata inferiore era leggermente storto. Lo rendeva ancora più carino. Quando pensi di tornare a Boston, Julia?

    Deglutii e trassi un respiro profondo. Poi risposi: Prenderò il treno domani mattina.

    Crank mi fece l’occhiolino. Conosci la città? Io non ci sono mai stato. Che ne diresti di farmi fare un giro per Washington? Ci divertiremmo.

    Non credo che sia una buona idea. Altroché! Sapevo benissimo che non lo era. La mia politica personale era di stare ben lontana dai ragazzi che mi piacevano.

    Il suo sorriso, che stava cominciando a diventare insopportabile, si allargò ulteriormente. So che non lo è. Per questo dovremmo metterla in pratica.

    Lo guardai storto. E cosa pensi che faremmo, esattamente?

    Suggerisco di iniziare con dei margarita, poi vedremo.

    Non riuscii a trattenermi. Risi di gusto e annuii. Poi risi ancora quando lui si produsse in un gesto di trionfo ed esclamò: Vittoria!

    Non sei un tipo discreto, eh?

    Crank si strinse nelle spalle, riuscendo in qualche modo a coinvolgere tutta la parte superiore del corpo in quel gesto. Ti sembro discreto?

    L’apparenza non è tutto.

    Lui mi guardò da sotto le palpebre semichiuse e disse: Va bene. Vediamo quanto conta l’apparenza. Noi non ci conosciamo per nulla, dunque… giochiamo a indovinare.

    Trattenni una risata. In quel momento la cameriera tornò. Crank ordinò due margarita e io un’insalata.

    Va bene. Comincia tu.

    Crank sogghignò. D’accordo. Vediamo… So che frequenti Harvard. E ti vesti in modo molto serio. Credo non che tu non sia una persona molto rilassata… non ti piace divertirti. Sei figlia unica. Vieni da… dalla California, direi, o forse dall’Oregon, a giudicare dall’accento. Tuo padre è… un dirigente. In banca, magari. Non hai mai fumato erba e il piercing che hai al naso è stato un atto di ribellione.

    Mi misi a gongolare. Santo cielo. Gongolare? Era solo un tipo ridicolo. Tutto qui?

    Mmm… scommetto che non hai mai perso un giorno di lezioni, a meno che non fosse questione di vita o di morte. Ma una parte di te vorrebbe liberarsi da tutto questo e fare una follia.

    Sorrise prima di aggiungere: Allora, come sono andato?

    Beh, non vengono dalla California né da alcun luogo nei paraggi. Ma immagino che in un certo senso tu abbia indovinato, perché ora la mia famiglia vive laggiù. Quello che è certo è che non sono figlia unica, visto che ho cinque sorelle. Carrie va alle superiori, Alexandra ha dodici anni, le gemelle ne hanno otto e Andrea cinque. Poi… no, non ho mai fumato erba. Mio padre è un ambasciatore in pensione; ho trascorso buona parte della vita in giro per il mondo. E non sono mai stata per la… ribellione. Ho vissuto una bella vita e non ho nulla contro cui ribellarmi.

    È incredibile come si possano dire un sacco di cose vere e, al tempo stesso, tenere nascosta la verità. Ero un’esperta in materia. Avevo trascorso una vita a tessere una ragnatela di mezze verità, un’armatura di parole che aveva lo scopo di nascondere il mio vero sé.

    Crank sogghignò e scosse la testa piano. Nulla contro cui ribellarti? Proprio niente?

    Zero assoluto, risposi. Tranne forse mia madre, che controllava ogni momento della mia vita. Ma non lo avrei certo raccontato a lui.

    Che tristezza, commentò Crank. Tutti dovrebbero avere qualcosa contro cui ribellarsi.

    Mi incupii e sentii che le mie sopracciglia si congiungevano. Non ho mai sentito qualcosa di altrettanto sciocco in vita mia. Come puoi dire una cosa simile?

    Crank fece spallucce e si appoggiò allo schienale della sedia, infilandosi le mani in tasca. Dimmi contro cosa lotti e ti dirò chi sei.

    È un modo di pensare piuttosto adolescenziale, non credi? Preferisco essere io stessa a dire chi sono.

    La sua risposta fu un sogghigno feroce. Non sei la prima ragazza a dire che sembro un ragazzino.

    Chissà perché la cosa non mi sorprende.

    Lui strinse gli occhi e disse: Ti piace insultarmi.

    Assolutamente no.

    Assolutamente sì. Fidati di me, piccola: Harvard non è l’unica strada per la felicità.

    Chiamami di nuovo ‘piccola’ e ti rovescio il drink addosso. Comunque, non ho mai detto che lo fosse, risposi, improvvisamente sulla difensiva. Lo stavo forse trattando con sussiego? Credevo di no. Certo, sono orgogliosa dei traguardi che ho raggiunto. Ma questo non significa che non sappia che il mondo è grande e che ci sono molti modi di vivere. Anzi, negli ultimi tempi non facevo che pensare che avrei dovuto trovarne uno io stessa. Più mi avvicinavo al momento della laurea e più sentivo la mia vita chiudersi su di me come le ganasce di una tagliola.

    So a cosa stai pensando, disse lui. Mi stai paragonando a uno dei tuoi ragazzi ben vestiti, vero? A un futuro dirigente o senatore.

    Meglio che essere paragonata a una sciacquetta o a una groupie, risposi seccamente.

    Ouch, esclamò lui. Bevve un lungo sorso del suo margarita.

    Immagino che ora sia il mio turno di tirare a indovinare.

    Crank sogghignò. Era un cretino. Ma un cretino molto attraente. Al diavolo. Quella faccenda era divertente, in un certo qual modo perverso. A Boston dovevo sempre stare attenta a come mi comportavo, perché le persone con cui parlavo sarebbero state ancora lì il giorno dopo e questo significava che dovevo mantenere un basso profilo.

    D’accordo, dissi. Ti piace fare lo sbruffone col tuo cuoio nero, le magliette sgargianti e le canzoni piene di rabbia. Ma io penso che tu venga da una famiglia bene. A scuola eri abbastanza bravo, ma non avevi voglia di frequentare l’università, così hai messo su una banda per rimorchiare le ragazze. Il tuo aspetto – i capelli, i tatuaggi – è tutto una facciata. Scommetto che sei una persona migliore di quanto dai a vedere.

    Il suo ghigno si allargò. Sbagliato, sbagliato e sbagliato. Sono nato nella zona peggiore di Boston da una famiglia di poveracci. Dalla scuola mi ci hanno cacciato dopo l’ennesima rissa. E non sono per niente una brava persona.

    Perché no? chiesi.

    Perché no cosa?

    Perché non sei una brava persona?

    Crank si appoggiò allo schienale e mi guardò senza rispondere. Sotto il suo sguardo inquisitorio, le mie guance si arroventarono e arrossirono. Mi sentivo come se mi stesse immaginando nuda. Il mio respiro si fece ansimante, perché sebbene quel genere di sguardo normalmente mi faceva schifo, adesso era diverso. Il mio corpo si stava rivoltando contro di me: i miei capezzoli si indurirono e qualcosa si agitò nel mio basso ventre. Mi passò per la testa – solo per un istante – che sarebbe stato interessante scoprire com’era Crank a letto. Di sicuro sarebbe stato diverso da Willard.

    Alla fine lui disse: Perché i bravi ragazzi perdono sempre.

    Non ti prometto nulla (Crank)

    Perché i bravi ragazzi perdono sempre.

    Mi pentii di quelle parole quasi subito dopo averle pronunciate, perché i begli occhi sexy di Julia si spalancarono. Un sacco. La ragazza raddrizzò la schiena e scrollò le spalle, come in preparazione a un incontro di boxe. Poi sul suo viso apparve un sorriso di circostanza. Era lo stesso che mi aveva rivolto quando ci eravamo conosciuti, quello che non le illuminava gli occhi. Mi resi conto che non era rivolto a me. Al nostro tavolo si era avvicinata un’altra persona.

    Era una donna di mezza età, dall’aspetto mascolino, con la mascella squadrata, le spalle larghe e corti capelli ossigenati. Mancava solo una giacca di cuoio e non sarebbe stata fuori luogo in uno dei locali dove suonavo. Ci salutò con un sorriso fasullo e disse: Julia Thompson… mi sembrava di averti riconosciuta.

    Julia appoggiò entrambe le mani sul tavolo e rimase impietrita. Fu come se qualcosa le avesse risucchiato la vita, lasciando al suo posto solo un manichino di plastica. Non sapevo chi fosse quella donna, ma chiaramente Julia la conosceva e non era felice di vederla. La salutò con un: Salve.

    La donna mi squadrò da cima a fondo in modo vagamente meccanico. Quando parlò, la sua voce trasudava malizia. Dovresti presentarmi al tuo ragazzo, Julia.

    Julia fece una smorfia. A dire il vero, lui non è il mio ragazzo. Ci siamo appena conosciuti. Maria Clawson, le presento Crank Wilson. Ora, se vuole scusarci, stavamo mangiando prima che lei ci interrompesse.

    Maria sbatté le palpebre. Non sapevo se la palese scortesia di Julia l’avesse offesa o meno, ma di sicuro io mi sentivo offeso. Pensavo che lei fosse migliore di così. Era stata maleducata con entrambi.

    Sorrisi alla nuova arrivata. Lieto di conoscerla, Maria. Non dia retta a Julia: si vergogna ancora di noi due. Allungai una mano e la misi sopra quella di Julia, che la allontanò di scatto.

    Maria si illuminò. Capisco. Da quanto vi conoscete?

    Signora Clawson, fece per intromettersi Julia. Alzai la voce per coprire la sua e aggiunsi un’occhiata maliziosa. Circa quattro ore, dissi. Ma sono state quattro ore molto intense, se capisce cosa voglio dire.

    Porco! esclamò Julia, attirando l’attenzione dei passanti.

    Le rivolsi una strizzata d’occhio molto lasciva.

    Santo cielo, esclamò Maria. Forse dovrei lasciarvi soli.

    Buona idea, fu il commento sarcastico di Julia. Perché non va a spargere il suo veleno da qualche altra parte?

    Maria si esibì in un sorriso falso come una banconota da tre dollari prima di allontanarsi con aria soddisfatta.

    Chi era quella donna? chiesi

    Julia si voltò di scatto verso di me, gli occhi che lampeggiavano furia omicida. Cosa ti è saltato in testa?

    Non te la prendere. Mi sono solo divertito un po’.

    Maria Clawson è una giornalista di gossip, Crank.

    Una che? Seriamente? Non sapevo neppure che esistesse la categoria. Beh, chi se ne importa. Non sono una persona famosa.

    Julia strinse gli occhi. Non ero preoccupata per te, in fatti, razza di idiota. Pensavo a me stessa.

    Ti vergogni di essere vista con me? chiesi con rabbia non del tutto simulata.

    Sono anni che quella donna coglie ogni occasione per gettare fango sulla mia famiglia.

    Beh, che vada a farsi fottere, ribattei io. Poi feci qualcosa che, probabilmente, non avrei dovuto fare. Mi alzai in piedi e mi guardai intorno. Vidi che Maria era andata a sedersi all’ultimo tavolino del marciapiede e stava parlando con una megera dai capelli blu. Ehi, laggiù in fondo! Maria! gridai, attirando l’attenzione di tutti compreso il barbone dall’altro lato della strada. Proprio tu. Vai a spettegolare da un’altra parte, bagascia che non sei altro!

    Julia nascose il viso tra le mani. Santo cielo, borbottò. Sei impazzito?

    Assolutamente sì, risposi io. Andiamocene da questo postaccio. Tirai fuori il portafogli e misi due banconote da venti dollari sul tavolo, proprio mentre il gestore si stava avvicinando.

    Mi voltai verso l’uomo. Ce ne andiamo, ce ne andiamo. Non farti venire una sincope.

    Julia emise un gemito. Io non lo conosco, borbottò.

    Ridacchiai prima di proporre: Che ne dici se facciamo quattro passi fino alla Casa Bianca?

    Ci farai buttare fuori a calci anche da lì?

    Non ti prometto nulla. Le sorrisi, feci mostra di salutare Maria Clawson – che aveva l’aria di una persona che aveva appena ingoiato un boccone amaro – e condussi Julia dall’altro lato della strada.

    Capitolo Due

    Cavolacci miei (Julia)

    Era ufficiale: Crank era pazzo. Esuberante, affascinante e dannatamente bello, ma pazzo.

    Era davvero un peccato. Mi divertivo a stare con lui. Ma sapevo già che, dopo la fine di quella giornata, non lo avrei più rivisto. Lunedì sarei tornata alle mie lezioni, alla mia vita. Il prossimo articolo di Maria Clawson sarebbe stato un problema abbastanza grave. E non dubitavo che ne avrebbe scritto uno. Dopotutto, le si era presentata un’ulteriore occasione di gettare fango su mio padre. Come al solito, la colpa era mia. Non ce l’avevo con Crank per il modo in cui si era comportato. Come avrei potuto? Maria Clawson non mi conosceva nemmeno, eppure mi aveva sfruttata nel suo tentativo di rovinare la carriera di mio padre, arrivando fin quasi al punto di rovinare la mia vita. Crank avrebbe potuto trattarla in modo peggiore e la cosa non mi avrebbe dato fastidio.

    Percorremmo la Quindicesima Strada, poi deviammo su Vermon Avenue, diretti verso la Casa Bianca. Le strade erano ingombre di persone, la maggior parte delle quali indossavano abiti casual autunnali. Se fosse stato lunedì, avrebbero avuto indosso dei completi mentre percorrevano il tragitto che li avrebbe condotti ai loro lavori negli uffici della pubblica amministrazione, delle associazioni industriali e delle lobby. Per il momento, la città apparteneva ai turisti e ai visitatori, nonché ai senzatetto che si affollavano in quella zona. Il cielo si era colorato di arancio mentre il sole scendeva a ovest. Presto sarebbe stato buio.

    Ci fermammo in Pennsylvania Avenue, appena all’esterno dell’assembramento di persone che continuavano a gridare slogan e agitare cartelli verso la Casa Bianca.

    In qualche modo, avevo la sensazione che a nessuno importasse nulla di tutto ciò.

    Mio padre è nella Guardia Nazionale, disse all’improvviso Crank.

    Ebbi un sussulto. Non credi che lo chiameranno qui, vero?

    Crank si strinse nelle spalle. Non saprei. Dopo l’11 settembre, è capitato qualche volta. Mio fratello è dovuto andare a vivere con mio nonno per qualche tempo. Diciamo che non è andata molto bene. So che sembra che non me ne freghi un cazzo di nulla, ma volevo davvero suonare a questa manifestazione. Nel mio piccolo, faccio quello che posso.

    Mentre fissava la Casa Bianca, la sua espressione era molto seria. Quel

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