Sette sono i re
By Angelo Ricci
4/5
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About this ebook
L'uomo di fiducia dei boss sa a chi rivolgersi. Un professionista serio. Un mercenario che ha visto le peggiori guerre. Un uomo capace di innalzare uno scudo tra sé e la propria memoria. Qualsiasi missione è soltanto un lavoro da fare.
Un romanzo in cui la finzione narrativa si intreccia con situazioni reali che svelano aspetti poco conosciuti del racket dello smaltimento dei rifiuti e della gestione ambientale: dai pannelli fotovoltaici nocivi, ai concimi tossici, dalle finte riserve naturali ai piani regolatori manipolati. Il tutto nell'area interessata dall'Expo di Milano 2015.
Grazie a una scrittura asciutta, quasi chirurgica, Angelo Ricci racconta con ritmo incalzante una storia dura e cattiva che però non rinuncia alla filigrana di un sogno.
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Sette sono i re - Angelo Ricci
(Bandabardò)
1
Un fruscio sottile che sibila insistente.
Una decisa tensione delle sottili gomme, compatte di aria compressa, che segnano di scie sinuose l’asfalto grigio. Abbandonando minuscole particelle di mescola scura che si uniscono all’infinita pressatura del bitume.
Atomi evanescenti di carbonio senza peso che aiutano l’impegno costante dei quadricipiti femorali e dei muscoli sartori.
Toraci incurvati dalla sfida infinita contro l’attrito dell’aria e dalla guerra ingaggiata contro i minuti e i secondi.
Bicipiti rigidamente flessuosi chiudono, senza possibilità di fuga, ellissi delimitate da manubri lucidi e curvi e da strie imbottite di caschetti dai colori psichedelici.
Corpi rigidamente infissi nel perseguimento di un unico movimento. Essenzialità anatomiche, senza grammi di adipe superfluo, fasciate da tute aderenti fucsia e verde smeraldo.
La sagoma pluricellulare si snoda a lungo sulla strada, scindendosi per poi ricompattarsi, sgranandosi per poi diventare improvvisamente turgida.
Un braccio avvolto dal nero striato di rosa di una calzamaglia termica, appositamente studiata per ridurre al nulla l’attrito dell’aria e, forse, del tempo, disegna, con indiscussa autorità, un gesto imperioso, come un cavaliere templare che guidi una carica appena uscita dalle mura imprendibili della fortezza siriana del Krak.
Automobili e pedoni sono costretti a spostarsi all’improvviso, sfiorati da sguardi duri, di pietra, compresi nell’essenza della missione e celati dalle lenti buie di occhiali dalla struttura perfettamente aderente alla circonferenza del cranio
Non c’è nessuna staffetta. Non c’è nessuna moto della polizia urbana. Non c’è nulla.
Soltanto la forza impositiva e autoritaria di un organismo che ha, come scopo unico e ultimo, quello di spostarsi da un punto verso un altro. Alla velocità massima possibile che l’uomo, alleato con le migliori e più leggere biciclette, possa raggiungere.
È uno sfoggio di autorità feudale. È la rivincita della forza muscolare. È l’insurrezione dell’uomo contro la macchina e contro la pigrizia.
E, come tutte le insurrezioni, vuole le sue potenziali vittime.
Lo sciame migra attraverso le vie. Abbandona con velocità le strade provinciali delimitate dai fossi e dai campi. Occupa tutte e due le corsie, impedisce i sorpassi, rallenta auto e camion, nella speranza, racchiusa nella sua intelligenza multicellulare e collettiva, di poter incontrare qualcuno che trasporti un malato grave verso un qualsiasi ospedale e di poterlo così rallentare, incurante delle sue proteste, fino alla probabile morte. Pronto a riprendere la corsa infinita, sicuro dell’oblio indifferente notificato dall’espressione stolida delle molte facce di pietra della sua struttura.
Lo sciame dimentica in fretta i campi e i boschi che hanno segnato la sua migrazione iniziale ed entra a velocità silenziosa nei paesi della pianura, attraversando strade, violando il rosso dei semafori, accarezzando pericolosamente, con la sua scheletrica dinamicità di carbonio, i corpi dei vecchi che si stringono verso i muri e i passeggini spinti dalle poche madri che, immobilizzate dal panico, tentano di difendere i loro trabiccoli chiudendocisi sopra a riccio.
Migra lo sciame. Migra velocemente in silenzio. Attraversa paesini, dimentico del paesaggio superfluo, delle strade, delle case, dell’impaccio dei pedoni.
Tutto deve essere ricondotto all’autorità dello sciame.
Non un suono, non una parola escono dalle bocche contratte e impegnate nella gestione dell’equilibrio dei muscoli e della respirazione.
Nel sussurro senza sosta del suo incedere costante, lo sciame abbandona presto le poche case dei paesi per rituffarsi nella corsa e perdersi nell’inseguimento del tempo.
È un organismo compatto. Uno, due al massimo, alla guida. In coppia, uno vicino all’altro. In una danza di telai e di ruote al carbonio e di tute termiche dai colori sgargianti e fluorescenti che si diluiscono su un comune fondo nero. Nero come la pece. Nero come la notte. Nero come la morte.
È una instancabile oscillazione, appena scomposta dai gesti di comando che le due avanguardie impongono a chi ha la sfortuna di incontrarlo. Al gesto imperioso del braccio teso, puoi buttarti solo a destra o a sinistra. Non hai scampo. Passa lo sciame.
Pochi dei suoi microorganismi rimangono indietro. Giusto il tempo perché l’intelligenza collettiva del gruppo deceleri appena. Quel poco che basta a ricompattare al suo interno i ritardatari.
Lo sciame deve essere unito.
Sempre.
Abbandonate le case dei paesi, lo sciame si butta alla conquista di un’altra strada. Per violarla con la sua velocità, per segnarla con il suo sibilo.
Metabolizzando altri paesaggi superflui, altre strade, altri pedoni e altre automobili. In attesa dell’incontro con altre case, altre piazze, altri incroci. Lo sciame deve continuare la sua corsa. Deve proseguire il suo allenamento. Senza sosta. Nell’attesa di una gara. Una gara che, forse, non ci sarà mai.
2
Pareti di cemento.
Grigie.
Infinite.
Una fila di case simili a bunker.
Finestre piccole.
Pesanti sbarre d’acciaio a bloccare ogni apertura.
Il lamento ipnotico. Continuo. Dai toni nasali. Radio e stereo, ipod e autoradio. Flusso costante. Pulsare dolciastro e incessante di ritmi mbalax, raïe neomelodici.
Rumore circolare. Stridio di pneumatici. Polvere sollevata dalla strada piena di buche. Tre o quattro sono le giravolte delle moto delle staffette.
Jeans, nike nere e camicie hawaiane. Ampie. Tenute fuori dai pantaloni. Per nascondere le automatiche e le mitragliette. Sono in due. In piedi alla base della scala che porta al seminterrato blindato. Le teste dalla barba nera e incolta, gli occhi nascosti dai ray ban, spuntano fuori al livello della strada, quel tanto che basta per scambiarsi un cenno d’intesa.
Le moto delle staffette scompaiono all’improvviso. Così come inaspettatamente sono apparse. Brevi comunicati di via libera negli auricolari dei cellulari lasciano sulla strada secondi interminabili di silenzio, appena ritmato dal fluire continuo delle percussioni e delle voci cantilenanti degli stereo.
I quattro fuoristrada neri appaiono all’improvviso. Frenano con calma di fronte al seminterrato.
Le due camicie hawaiane svolazzano. Le braccia tatuate ferme lungo ai fianchi. Pronte a scattare sul metallo delle armi.
Altri jeans, altri ray ban, altri giubbotti e camicie scendono con consumata esperienza dai fuoristrada e si schierano attorno all’ingresso della scala.
Una piccola processione. Due giacche grigie e un blazer blu scendono lentamente la scala e oltrepassano una porta blindata che, per rispetto, si fa trovare già aperta.
Una stanza piccola. Odore di muffa. Di cemento fresco.
Un piccolo tavolo. Una tovaglietta cerata dai piccoli motivi geometrici.
Un fiasco di Lamezia rosso novello.
Quattro bicchieri.
Quattro sedie.
- Abbiamo un problema.
- Dove?-
- Al nord.
- In che posto?
- Vicino a Milano.
- Che vuol dire vicino a Milano?
- Nella campagna.
- E che è successo?
- C’erano da fare delle cose. Prendere delle decisioni.
- E allora?
- E allora queste cose si sono fatte. Queste decisioni si sono prese.
- Quindi?
- Si sono fatte e si sono prese senza di noi.
- Ma non ci sta lì un nostro uomo? Proprio lì nella campagna?
- Ci sta. Ci sta.
- E allora?
- E allora è successo che gliel’hanno messo in culo pure a lui.
- Qualcuno là, ha troppa voglia di mettersi in proprio.
- E questo non va bene.
- Non va bene perché se sgarra uno, poi sgarrano tutti.
- Il nostro uomo è ancora affidabile?
- Affidabile. Affidabile. Non ti devi preoccupare.
- Ci deve rimettere a posto le cose.
- E deve farlo rispondendo a noi. Non mi fido dei nostri che se ne stanno là, a Milano. C’è troppa roba. E loro si snervano. E non vengono più buoni per niente.
- Al nostro uomo ci ho già dato carta bianca. Ma ci ho detto che deve rispondere solo a noi.
- E le questioni operative?
- Ci pensa lui. Che se poi sbaglia, lo sa che è il primo a pagare.
Le due giacche grigie e il blazer blu risalgono la scala del seminterrato. In pochi attimi scompaiono nei fuoristrada che chiudono rumorosamente le porte.
Le due camicie hawaiane si fermano davanti alla scala. Le braccia tese. Le mani pronte. Pronte ad afferrare le armi.
I loro ray ban guardano verso destra e verso sinistra.
Il silenzio della strada è rotto dal rombo improvviso delle moto delle staffette.
Un giro. Due giri. Tre giri.
Comunicazioni rapide.
Via libera.
Le due moto partono veloci, seguite dai quattro fuoristrada scuri.
Le due camicie hawaiane scendono la scala e si rimettono a controllare la strada dal cortiletto del seminterrato.
La bottiglia di Lamezia rosso novello è ancora piena. Dritta in mezzo alla tovaglietta di tela cerata.
Nell’aria rimane solo il pulsare ipnotico delle radio, degli ipod e degli stereo.
3
Puzzano le tapparelle. Puzzano di merda.
Ogni volta che le alzo, annuso tra una lista e l’altra. Lo faccio per sentire il caldo o il freddo, a seconda del tempo. Ma sento sempre e soltanto puzza di merda.
Quattro casermoni di otto piani ciascuno. Che si guardano. Che stanno ognuno ai quattro lati di un giardinetto secco.
Un paio di panchine sfondate, con la ruggine del ferro che, ogni tanto, si colora degli ultimi