Bianca Come l'Africa
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Book preview
Bianca Come l'Africa - Clara Piacentini
Ringraziamenti
PROLOGO
MAL D’AFRICA
Ormai aveva deciso, caparbiamente deciso. Sarebbe partita. A nulla erano valse le proteste dei famigliari, il tentativo del marito di dissuaderla. Lei voleva partire e questa idea senza ripensamenti l'aveva aiutata ad alzarsi da una sedia a rotelle, a tirarsi fuori da un ospedale dove stava da troppo tempo. Il marito si rassegnò ad accompagnarla, poi si sarebbe visto...
«Ti verrà il mal d'Africa, vedrai...» Era la frase che più si sentiva ripetere e che tanto la infastidiva. Coglieva nelle parole di chi era venuto a conoscenza della sua folle decisione una sorta di commiserazione, di imbarazzo, di invidia. Dietro quel commento, quel luogo comune idiota si nascondeva pure un'infingarda ammirazione. Le pareva di sentirli i commenti dei più. Aveva un bel coraggio a prender su così la sua vita e a partirsene, accettando quell'incarico. Aveva un bel coraggio e una bella dose di incoscienza a cacciarsi in quell'avventura abbracciata, per così dire, alle sue stampelle.
«Sei coraggiosa... Ti verrà il mal d'Africa». Non si sentiva né coraggiosa, né desiderosa di farsi venire il mal d'Africa.
Ah! Il mal d’Africa non esiste, pensava irritata. Il mal d’Africa sono i bambini con le mosche appiccicate alle cispe degli occhi e al moccio che cola dai nasi. Il mal d’Africa sono i loro ventri gonfi di vermi e i piccoli arti scheletrici. Il mal d'Africa sono la povertà, le carestie, gli aiuti umanitari, il desiderio di fuga verso i mondi dell'Eldorado. Fine.
Eppure si insinuavano in lei altri pensieri, altre immagini venivano a popolare la sua mente. Vedeva la danza delle giraffe, l’ondeggiare del loro lungo collo flessuoso, la rapida leggerezza delle gazzelle, il passo greve dei pachidermi, il risucchio delle acque all’immergersi dei coccodrilli e degli ippopotami visti solo nei documentari.
Pensava al continente nero dell'immaginario collettivo, all'Africa nera... Non sapeva nemmeno dove sarebbe andata a finire. Le venivano in mente fotografie dei Masai, le loro stature e i loro ornamenti, i loro muscoli e le loro pelli. Le venivano in mente ritratti di uomini, donne, bambini di Paesi diversi, il nero lucido dei loro corpi, i loro nasi larghi, piatti, le loro labbra pronunciate, tumide.
Era quella l'Africa che prevaleva nei suoi pensieri.
Non sapeva che tutto ciò che immaginava si sarebbe palesato ai suoi occhi. Non sapeva ancora nulla del Paese dove aveva accettato di andare a vivere per un incarico dai più ritenuto prestigioso. Sapeva di quel Paese solo quel poco di storia che con l’andar del tempo andava sfumando nei ricordi dei vecchi e in brevi capitoli dei libri di scuola. Bisognava essere buoni storici per conoscere tutti i fatti di una colonizzazione fallita e lei andò a cercarli nei libri di Del Boca e partì con la vergogna nel cuore.
Un popolo sorridente dai lineamenti delicati l’accolse fin dal primo giorno.
Fu vivendo nella città dell'altopiano e percorrendo strade ignote che si accorse che la notte era diversa, più nera, una notte morbida di velluto, avvolgente e conturbante.
Vide tante lune sorgere e tramontare capovolte, colmarsi e assottigliarsi in orizzontale, le vedeva adagiate come barche sull'acqua o sospese come campane nel cielo di un eremo.
Lavorò, viaggiò, amò. Visse.
Giunto il tempo del distacco, ringraziò grata dentro di sé e si allontanò senza voltarsi indietro. Provò, andandosene, solo uno strappo leggero, così leggero che quasi non se ne accorse. Vide l'ombra dell'aereo proiettata dal sole nascente su un pianoro dell'acrocoro e attribuì le lacrime alla stanchezza.
Riprese la sua vita in patria, nel luogo e nella casa desiderati e scelti.
Ripose i suoi ricordi nelle pagine di album che più non aprì.
Nei suoi nuovi giorni del mal d'Africa non c'era traccia.
E allora perché ancor oggi, in certe mattine, quando il sole filtra attraverso le tende, le pare di sentire l’odore pungente del berberé o l'aroma di caffè tostato mescolato a quello dell'incenso, perché ascolta passi e rumori inesistenti e il cuore le balza in petto, la mente si confonde negli attimi che precedono il risveglio e il disincanto?
L’ALTROVE
LA COLLINA DEGLI EUCALIPTI
Due grandi sassi, due massi, lontani, spiccano contro il cielo terso, appoggiati alla dolce linea curva del grande campo che, a seconda del periodo dell’anno, mostra i solchi della terra rossa o si veste del verde tenero e leggero del tef. È là che lei è solita dirigersi. Ormai conosce bene il suo territorio e ci va da sola. I bimbi non l’accompagnano più, timidi e sorridenti nelle vesti stracciate, agili come capretti sui piedini nudi. Hanno capito. Li ritroverà al ritorno, seduti in cerchio vicino alla macchina. Ci saranno i sorrisi di sempre, gli sguardi lunghi, lo scambio di parole attraverso gli occhi, parole sconosciute che non importa dire, che non servono a spiegare, che non è necessario forzare. Ci saranno piccole mani sporche di terra che aspettano fiduciose, i palmi raccolti, accostati aperti verso l’alto come ciotole preziose a ricevere una caramella, un frutto, qualche biscotto. Rimarrà in quelle mani il gesto di un saluto, di un arrivederci, di una speranza.
Lei cammina lentamente, attenta a dove posare il cammino. Costeggia il grande campo alla base, nel tratto piano delimitato dal bosco di eucalipti. Le piantine nuove cangiano dal bianco argenteo al blu metallico. Si ferma ogni tanto, guarda i massi per capire la rotta da seguire. Finalmente comincia a salire, tagliando di traverso il declivio per alleviare la fatica, cercando passo dopo passo un equilibrio che lei sola conosce. Sosta, ascolta il battito accelerato del cuore, il vento freddo che le soffia nelle orecchie, il leggero bruciore nella gola ad ogni sorsata d’aria rarefatta. Stira la schiena dolorante appoggiandosi con forza al sostegno dei bastoni. Capisce di essere quasi arrivata quando, in cima alla collina, emergono i tetti dei tucul, coni sfrangiati in una macchia d’alberi. Gli ultimi passi sono i più faticosi fra le zolle del colore della ruggine e le pietre che delimitano il ciglio, ma il masso più grande, sedile naturale per il dio delle alture, premia i suoi sforzi con il tepore della pietra ruvida baciata dal sole. Respira a fondo mentre lo sguardo spazia in quella vastità che ben conosce ma che la lascia ogni volta attonita a contemplare il susseguirsi delle ambe, l’argento del bosco in lontananza, il passaggio delle nuvole candide nel cielo di cobalto. Si accende controvento una sigaretta, fuma lentamente, piccolo rito che in breve termina con un mozzicone in tasca avvolto in un fazzoletto di carta. La mente è vuota di pensieri, colma delle immagini che gli occhi trasmettono perché rimangano indelebili e l’accompagnino per sempre, quando giungerà il tempo del distacco. Si nutre dell’immensità che l’attornia e a fatica si rialza quando sente i primi brividi di freddo percorrerle il corpo. La discesa richiede ancora più attenzione, ma è grande il compenso della bellezza che l’altitudine di spazi infiniti offre al suo sguardo. È esausta quando arriva in piano. Mentre valuta lo spazio che ancora la separa dall’auto ecco venirle incontro la magra figura alla cui silenziosa presenza da mesi si è abituata. Lui veste di rosso, ha indossato contro il freddo la giacca da pioggia che lei ha abbandonato in macchina. Cammina leggero come senza peso. Con un inchino appena percettibile del capo le toglie il bastone dalla mano sinistra, la prende, la tiene, alta nella sua destra, l’appoggia al petto mentre sostiene i suoi passi stanchi. Il sole sta calando rapido, illumina i capelli di lei, lunghe ciocche chiare mosse dalla brezza sfiorano il viso di lui, che le sembra piegato ad accogliere con desiderio la carezza. Lo sguardo le cade sull’intreccio delle loro mani, mani delicate dalle