L'ottavo peccato
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L'ottavo peccato - Antonio Matteo Ghione
XXIX
L'OTTAVO PECCATO
antonio matteo ghione
© 2013 di Ghione Antonio Matteo. Tutti i diritti riservati.
ISBN 978-1-291-68433-9
PARTE PRIMA:
Introietto
I
Ogni anno adorava tornare a farle visita. La guardava, la toccava velatamente, la baciava e prontamente lasciava quel suo luogo senza toccare la terra con i piedi.
Voltava lo sguardo verso la direzione opposta, alzava il bavero del cappotto e volava via.
Erano le sette antimeridiane ogni anno, la stessa data, gli stessi numeri indicati dalle due lancette.
Nel tragitto che lo portava a lei aveva nella mente ricordi, ma appartenenti al futuro. Pensieri e divagazioni su cosa sarebbe stato, su cosa avrebbe fatto, cosa sarebbe diventato. Viaggiava verso di lei con la mente, lanciando pensieri in avanti per farsi annunciare.
Il mattino ha il profumo della giovinezza, in primavera, all’alba, dopo un’incessante pioggia si assapora lo spirito del tempo. Pervade le vie respiratorie, accede ai neuroni e, per ricordarci quanto la sua meraviglia stia nel trascorrere senza invecchiare, osserva noi che invecchiamo spesso senza trascorrere. Esso, il tempo, benevolo, ci irradia con la sua essenza per lasciarci provare una volta di più cosa eravamo quando i pensieri erano leggeri più del vapore dell’alba attorno agli arbusti.
Si lasciava così alle spalle l’eterna visione e, passeggiando verso il ritorno, adorava, ad occhi chiusi, quei magnifici profumi.
II
Con le spalle rivolte alla porta d’ingresso, il volto rivolto verso l’alto e le mani incrociate dietro alla schiena, sembrava nel momento dell’adorazione.
Nonostante desse la schiena all’entrata, un attento o sensibile osservatore avrebbe sicuramente potuto notare il sorriso compiaciuto e altezzoso.
Si spinse addirittura al di là della scrivania del dottor Sullivan, occupando quello spazio tanto ambito quanto proibito, per osservare il rosso ocra con sfumature tendenti al chiaro, usato per vestire la donna dipinta appesa alla parete. Tempo prima, durante una seduta, notò il quadro. Notò il particolare della signora. Ella si specchiava, tronfia, nello specchio porto da una astuta quanto sibillina volpe fulvo smagliante, nascosta per metà dietro un piccolo armadio.
Il motivo di tale interesse non gli era chiaro ma la forza che lo aveva attratto sino a rompere la barriera della scrivania era tale da non poter restare in attesa del suo proprietario.
Il dottore lo trovò in quella posizione, in quello spazio non di sua competenza. Vedendolo così assorto non volle spaventarlo con un’entrata brusca o renderlo nervoso con un rimprovero per giunta ingiusto.
Già, perché lo spazio dovrebbe essere occupabile senza restrizioni o vincoli, quando questo non va a toccare lo spazio vitale altrui.
Dunque si limitò a schiarirsi la voce, come per annunciarsi. D’altra parte già la segretaria lo avvisò della sua presenza nello studio, giustificando il ritardo col quale sarebbe arrivato a causa della riunione straordinaria del Consiglio.
Avvisato dal suono gutturale, il signor Moore, si voltò e, con aria soddisfatta, salutò il nuovo arrivato accettando quasi di malavoglia le sue scuse.
Il dottore, conoscendo bene il soggetto, fece un piccolo sorriso di comprensione e, facendolo accomodare al proprio posto, prese lui stesso il suo.
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Sdraiato sul lettino osservava in alto, questa volta davanti agli occhi non aveva nessun dipinto, solo il soffitto, ma, con lo sguardo, sembrava ancora immerso in quell’ocra, come se stesse osservando il suo stesso volto riflesso dentro allo specchio dell’astuta ammaliatrice. Tanto furba da non mostrarsi per intero per il timore di esibire qualche punto debole nel suo corpo.
Stava lì assorto nel vetro di quell’oggetto tanto luccicante da abbagliare mentre mostra ciò che si è nell’anima più profonda. Un viaggio inumano nei colori dell’essere che lascia perdere ogni memoria di sé, come ipnotizzati dalla visione di strati di coscienza che, uno ad uno, raccontano il futuro di un passato trascorso. In un rifluire di sensazioni la mente ripercorse all’indietro il viaggio sino a ritornare su quel divano in pelle, quando il suono delle parole del dottore arrivò alle orecchie come una stilettata dritta nei timpani.
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Il rapporto, per quanto potesse sembrare astioso e colmo di contrasti, in realtà viaggiava a grande velocità. Grazie alla capacità di ascoltare del dottore da una parte e dal grande desiderio di raccontare le fantasie più nascoste e i comportamenti più insoliti dall’altra.
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Il dottor Sullivan scavallò le gambe, posizione preferita quando si trattava di ascoltare; per assumere una postura più rigida e composta atta alla risposta più consona.
Appena nominato il quadro, Sullivan si domandò cosa lo avesse attirato a pensare proprio allo specchio dipinto in mano ad un animale tanto scaltro quanto ammaliante.
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Non si incrociavano i due sguardi. Entrambi rivolti verso l’uscita, al termine di quella grande stanza impreziosita da dipinti raffiguranti immagini di giardini dell’Eden da una parte e visioni apocalittiche dall’altra.
Senza battere ciglio, cercando di non dimenticare il suo ruolo di conduttore della seduta, il dottore, dopo una breve pausa, riprese la conversazione. Ancora distante dal distogliere il paziente dall’adorazione di se stesso.
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Lei crede nella sua superiorità ma è mai riuscito ad essere davvero superiore agli altri?>>
Moore scoppiò in una risata quasi inumana e, mentre si contorceva, sul divano ripeteva le parole del dottore in modo confuso e rumoroso.
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Fissava con la mente quel corpo appeso alla croce, immaginando ai piedi del legno, là dove normalmente è conficcato a terra per reggere il peso della sofferenza, una volpe rossa, con un sorriso sinistro dipinto sul volto, che teneva tra le zampe un piccolo specchio, attrezzo fuori dal tempo in cui veniva inflitto tanto supplizio. Rifletteva il viso insanguinato e lacrimante del condannato come per mostrargli il volto di un uomo. Il semplice volto di un uomo con le spalle a contatto con il legno freddo e umido della croce e sulla testa incombenti nuvole gonfie e grigie più forti e più potenti anche di lui.
Distaccatosi da tali pensieri ritornò vigile sulle parole appena ascoltate.
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Avrà ali fredde come il ghiaccio oppure sarà vestito di luce ed avrà una voce profonda?
In ogni caso lo affronterò senza paura>>
La sicurezza di George Moore era sempre motivo di una sintesi tra orgoglio e malinconia per il dottore. Una forma acuta di pienezza di sé capace sì di portarlo a raggiungere mete inaspettate in carriera, ma che, per quanto egli non riuscisse ad ammetterlo, gli stava portando via una alla volta tutte le amicizie, ed infine l’amore.
Il suo sguardo trasmetteva sicurezza ma gli occhi, si sarebbe detto osservando bene, avrebbero voluto lacrimare tristezza.
Il dottore pensava ai tanti problemi che sarebbero stati causati in futuro da quella falsa superiorità nata all’estremità della razionalità, laddove il grigio sapere nulla può e nulla fa per arrivare.
Accadde quando capì i meccanismi per raggiungere i