Non Ammazzare
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Siamo spesso tentati di giudicare gli altri sulla base del nostro vissuto e delle nostre esperienze. Non sempre però ciò che abbiamo imparato dalla vita ci consente di valicare il confine della comprensione altrui. Allora giudicare diventa difficile.
Anzi, dovremmo imparare a non giudicare affatto.
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Non Ammazzare - Ruben Oddenino
NON AMMAZZARE
Racconti
Ruben Oddenino
Biografia dell’Autore
Laureato in Medicina e Chirurgia e in Scienze Giuridiche.
Professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in Chirurgia Plastica dell’Università di Milano, fa parte del comitato scientifico de La Rete
– Associazione per l’Integrazione dei Saperi Antropologici, Letterari, Filosofici, Psicologici.
Giudice onorario presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, dal1996 è iscritto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti come giornalista pubblicista.
Prima edizione 2015
E’ vietata per legge la riproduzione di quest’opera in fotocopia ed in qualsiasi altra forma (microfilm, CD,DVD, videocassetta,etc), ogni violazione sarà perseguita secondo le vigenti leggi civili e penali.
2015 © Ruben Oddenino
ruben.oddenino@live.it
PREFAZIONE
Dieci storie, dieci comandamenti.
Siamo spesso tentati di giudicare gli altri sulla base del nostro vissuto e delle nostre esperienze. Non sempre però ciò che abbiamo imparato dalla vita ci consente di valicare il confine della comprensione altrui. Allora giudicare diventa difficile.
Anzi, dovremmo imparare a non giudicare affatto.
L’Autore
NON AVRAI ALTRO DIO
ALL’INFUORI DI ME
Credo nel Dio che ha creato gli uomini
non nel Dio che gli uomini hanno creato
Alphonse Karr
Il muro era completamente scrostato. L’intonaco, in più punti, era giunto sino al rinzaffo e la parete, incolore e spoglia, si presentava come una carta geografica sporca e raggrinzita.
Per la scarsa ventilazione l’umidità trasudava in ogni angolo lasciando fiorire una muffa dall’odore stantio e sgradevole. Fuori, il caldo soffocante non lasciava tregua neppure all’ombra dei pochi alberi ai lati della strada polverosa che conduceva a Jeddah.
Erano almeno due ore che Abasi, all’interno dell’angusta cella in cui era detenuto, osservava i movimenti di quello schifoso scarafaggio che sembrava divertirsi andando su e giù per il muro, evitando accuratamente di cadere nella trappola improvvisata che aveva predisposto per lui. Madido di sudore, Abasi cercava di muoversi il meno possibile. Del resto, rinchiuso in quei tre metri scarsi, dove mai sarebbe potuto andare? Cercava di passare il tempo giocando con gli insetti o rimanendo disteso in un giaciglio improvvisato, nell’inutile tentativo di riposare. A fianco del pagliericcio c’era un tappetino da preghiera rivolto verso la Mecca per consentire le Salat, le preghiere che il Muezzin, modulando dal minareto la cantilena dell’adhan, ricorda di recitare cinque volte al giorno.
Abasi era cresciuto in Kenya, in un villaggio vicino a Msambweni, nella costa sud di Mombasa. Poche baracche sparse tra il verde delle palme e il rosso del terriccio polveroso che fa da sfondo all’azzurro dell’Oceano Indiano. Grazie all’aiuto dei missionari della Consolata Fathers, aveva potuto frequentare la scuola, ma solo quel tanto che basta per sapere a malapena leggere e scrivere. Per lui, che aveva le ciabatte infradito ricavate dai copertoni dei pneumatici era già molto. L’Africa ti insegna ad apprezzare ogni cosa che hai, per quanto poca possa essere, ma soprattutto ti insegna a dar valore alla vita. Per questo rideva sempre. Per lui non c’erano mai problemi, nemmeno quando, fidandosi di alcuni trafficanti senza scrupoli, si lasciò convincere ad andare in Arabia Saudita con la promessa di un lavoro dignitoso.
Il viaggio era durato 15 giorni, a bordo di un vecchio camion sgangherato che trasportava nel vano posteriore altri dodici disgraziati come lui. Quindici lunghi giorni attraverso l’Etiopia e le polveri del deserto nubico del Sudan. Migliaia di chilometri con poche soste, giusto per soddisfare i bisogni corporali e fare rifornimento di carburante. Bere e mangiare, poco. E sempre in viaggio.
Fra qualche giorno saremo in Egitto
gridò l’uomo che stava seduto di fronte a lui nel cassonetto
Come?
Il trambusto del motore, confondendosi con il rumore degli ammortizzatori sul terreno accidentato era tale da rendere quasi impossibile parlarsi.
Ho detto che presto arriveremo in Egitto
gli gridò ancora Kofi, un uomo più grande di lui di almeno dieci anni e come lui di lingua Bantu, ma che veniva da un villaggio ai confini con la Somalia.
Ho capito
rispose Abasi anche se, in realtà, non aveva capito niente. Sapeva che in Africa esiste un posto chiamato Egitto, ma non sapeva dove fosse esattamente e, a dire il vero, non sapeva nemmeno dove fosse l’Arabia, se non ciò che gli avevano spiegato poco prima di partire e cioè che si trova a molti giorni di cammino mantenendo il sorgere del sole sul lato destro.
Conosci l’Egitto?
gli chiese Abasi gridando a sua volta
Mio nonno era egiziano - gli rispose Kofi – ma io non sono mai stato là
Non dissero altro, anche perché la polvere e l’odore della nafta li costringeva a ripararsi il naso e la bocca dietro la maglietta, protetti dal palmo chiuso della mano.
Durante il viaggio aveva visto sorgere il sole molte volte e, altrettante volte, lo aveva visto sparire all’orizzonte. Nonostante la giovane età, il continuo sobbalzare sul cassonetto gli lasciava le ossa e i muscoli doloranti e la sera, nelle poche ore in cui il camion era fermo per farli riposare, era quasi impossibile prendere sonno. La notte, poi, il veicolo riprendeva la sua corsa sfruttando il buio per evitare i controlli nelle aree sorvegliate.
Lungo la pista capitava di trovare posti di blocco che costringevano l’autista a fermarsi. Nel silenzio del deserto notturno si sentiva allora un gran chiacchiericcio fra i mercanti di uomini e i poliziotti che presidiavano la zona.
Cosa succede?
bisbigliò Abasi rivolgendosi a Kofi con la paura di essere rimandato indietro.
"Zitto Abasi, non parlare… polizia…- lo zittì secco Kofi.
Ciò nonostante un sommesso brusio si levò dal cassonetto dando vita a quei passeggeri fantasma che, per tutto il viaggio e sino a quel momento, erano rimasti chiusi nel loro triste silenzio.
L’autista, sceso dalla cabina con il suo compare si mise a discutere animatamente con quello che doveva essere il comandante della pattuglia.
Questi fece un sommario giro d’ispezione attorno all’automezzo e diede un rapido sguardo al numero delle persone che formavano il carico umano. Ancora vociare e discussioni poi, concluso l’accordo in denaro, il trafficante diede con la mano due colpi sulla parete posteriore dell’autocarro e, rivolgendosi al carico di trasportati, disse: Akuna matata [nessun problema], si riparte…
Poi, il riavvio del motore e il camion che si rimette in cammino con il suo rumore di ferraglia.
Caldo di giorno e freddo la notte, il viaggio sembrava non finire mai.
Il sorriso tornò sulle labbra di Abasi quando, in