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Fiabesca demenzialità
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Fiabesca demenzialità

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"Fiabesca Demenzialità" non è una fiaba per i più piccoli, ma un romanzo umoristico per adulti, sebbene con tanti personaggi classici come lupi, pirati, streghe, fate, sirene, maghi, sultani, principesse e un unico protagonista: Scary, soprannominato da tutti Picci Molletto, per motivi abbastanza evidenti. Picci affronterà un'improbabile avventura tra goliardia e demenzialità assolute. Per chi ha voglia di ridere e di fuggire un po' dalla realtà quotidiana.
LanguageItaliano
Release dateMay 6, 2014
ISBN9786050301090
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    Fiabesca demenzialità - Laura Marina Caporali

    Unico

    Capitolo Unico

    ( basta e avanza )

    Scary

    C’era una volta, in un luogo lontano lontano…

    No…

    Ci sono io e sono un giovanotto di nome Scary.

    Scary non è in Inglese, anche se mi sarebbe piaciuto. Non ha il significato di -spaventoso, che incute paura- ma è semplicemente il diminutivo italiano di Scarafaggio e ciò, per me, non è una bella cosa, lo dico sinceramente. Nel senso che avrei preferito un nome più comune, del tipo Paolo, Matteo, Carlo, Massimo. Ce ne sono talmente tanti che non era proprio il caso di chiamarmi Scarafaggio e all’anagrafe non avrebbero nemmeno dovuto accettarlo, ma pur di levarsi mio padre dalle balle…

    A proposito di mio padre, abitavo, appunto, con lui, un bravo e onesto falegname e con la mia mamma, una dolce fatina, in una piccola, ma confortevole casetta al centro di un ridente paesino di brave persone, gente seria che pensava solo al proprio lavoro.

    Insomma… non era proprio così, anche se avrei voluto tanto che lo fosse.

    Prima di tutto sono tornato a essere un ragazzo solo poco più di un anno fa, dopo essere stato per dodici mesi un bambolotto di pezza, proprio per colpa di mio padre, un alcolizzato che nascondeva le bottiglie di Vodka in giro per la baracca dove abitavamo insieme.

    Mi detestava, perché non mi ero lasciato vendere a due compaesani depravati del nostro squallido paesino, un postaccio dove la gente non si fa mai i cazzi propri.

    Per punirmi, convinse mia madre a fare una magia e a tramutarmi in una pupazzo parlante.

    Sarei rimasto un bambolotto per sempre, se non fossi riuscito a rompere l’incantesimo e a ritornare umano. C’è mancato poco che scadessero i trecentosessantacinque giorni che avevo a disposizione per sciogliere l’incantesimo, ma ce l’ho fatta, appena in tempo.

    Comincerò a narrare dall’inizio, da prima della mia nascita, quando ancora i miei genitori non si conoscevano.

    Il mio babbo si chiamava Ceppetto, ma si faceva chiamare da tutti Ceppone, per attirare le ragazze, insomma, capitemi, una sorta di pubblicità.

    Effettivamente un’ottima trovata, perché le fanciulle ci cascavano eccome. Attratte dal soprannome, meritato, lo concedo, di mio padre, si buttavano in relazioni sessuali che sfociavano, tutte o quasi, nel progetto di accasarsi con lui.

    Il brutto è che, dopo un paio di giorni sotto lo stesso tetto, si accorgevano che il mio vecchio non aveva nessuna voglia di lavorare, ma preferiva insegnare a loro come segare, piallare, costruire mobili e tutte quelle operazioni che tanti bravi falegnami eseguono quotidianamente con gioia e senza la bottiglia nascosta nella gamba del tavolo.

    Ceppone finì presto per ritrovarsi solo, dunque, ma si consolò subito con una nuova conoscenza, la cocaina, che andò ad affiancarsi alla Vodka nelle sue abitudini giornaliere.

    Finì così per trascorrere le proprie giornate tra il lavoro, la droga e l’alcol, ovvero lavorando quindici minuti e bevendo ventitre ore e quarantacinque minuti, con il naso bianco per le pause coca-caffè.

    Finché un giorno non conobbe mia madre, la Fata Rosina.

    Ella non era veramente una fata, ma Ceppone era talmente ubriaco e fatto, il pomeriggio in cui la vide, da non rendersi conto che l’ospedale del paese aveva appena chiuso definitivamente il suo reparto psichiatrico e mia madre era stata lasciata andare, libera di vagare per le strade, agghindata nel suo vestito lungo color rosa, cappello a punta con le stelle disegnate a colpi di pennarello e, naturalmente, l’immancabile bacchetta magica, rigorosamente finta. Le stelle erano disegnate malissimo, ma mio padre non se ne accorse, perché rimase folgorato da quella visione.

    Mi concepirono proprio quel giorno, dietro una siepe dell’ospizio dove il babbo andava spesso per rubare il vino ai vecchietti.

    Dopo i trenta secondi dell’amplesso, saliti a un minuto grazie all’effetto ritardante della coca, Ceppone chiese a Rosina di sposarlo, con un progetto ben chiaro in mente, secondo il quale avrebbe delegato a lei tutto il lavoro di falegnameria. Ella accettò subito, prima ancora di tirarsi giù la gonna e ricomporsi, abituata alle proposte di matrimonio giornaliere che le facevano i pazienti del reparto psichiatrico.

    Mia madre non si rese mai conto di essere incinta durante i nove mesi della gravidanza, impegnata com’era nel tentare magie sugli attrezzi da falegname di mio padre, cercando di animarli perché potessero compiere loro tutte quelle operazioni che il marito era ben lontano dal fare e che ella non aveva minimamente intenzione di imparare.

    Non si chiamava davvero Rosina, ma non so quale fosse il suo vero nome, in quanto non se lo ricordava. Pensava solo a volteggiare, convinta di volare in cielo, agitando la bacchetta e rotolando spesso per terra.

    Il pancione cresceva giorno dopo giorno, ma lo attribuiva alla troppa magia nascosta nel suo ventre di Fatina Invisibile dei Cieli e degli Abissi, come amava chiamare se stessa.

    Si definiva, appunto, invisibile, perché la poveretta credeva di possedere, oltre ai poteri magici, anche il dono dell’invisibilità e, più volte, mio padre l’aveva dovuta recuperare per le strade, mentre girava nuda, convinta di non essere vista da nessuno.

    La baracca in cui vivevano non era mai stata pulita, ma, da quando la Fatina Invisibile dei Cieli e degli Abissi vi abitava, sembrava ancora più sporca di prima.

    Mio padre le diceva di pulirla, ma non poteva insistere visto che era il primo a non avere voglia di fare niente.

    Per fare prima, la chiamava usando solo le iniziali:

    F.I.C.A. le diceva non sarebbe meglio levare almeno uno dei dieci centimetri di polvere che ci sono sul tavolo? Non riesco più a vedere i piatti.

    Vaffanculo! gli rispondeva timidamente lei e la discussione finiva lì.

    Mia madre aveva lunghi capelli biondi che non lavava mai e in cui fecero il nido pulci, pidocchi, scarafaggi, una rondine, un piccolo rospo, due gechi, una lucertola e dove un alligatore depose il suo primo uovo.

    Il giorno in cui venni alla luce, venerdì 13, le doglie la sorpresero mentre era sotto la scala a tentare di dare vita alla scopa. Si spaventò e corse verso il letto, dopo avere rovesciato il barattolo del sale grosso, quello del sale fine, rotto lo specchio e imprecato più volte in modo molto volgare.

    Io non uscii subito dal suo ventre, ma solo dopo alcune ore in cui le provocai dolori terribili. Così, quando finalmente venni al mondo, mi guardò con amore ed esclamò:

    "Sei tu che mi hai fatto venire il mal di pancia?

    Non ricordo di averti mangiato, ma spero che tu possa arrostire all’inferno!

    Cibo avariato, dico sempre che bisogna stare attenti ai supermercati. Con la crisi espongono anche merce scaduta!".

    Subito dopo, ricadde con la testa sul materasso e uno scarafaggio mi schizzò dritto in fronte, dandole un’ottima idea per il mio nome.

    Mio padre apprese con gioia la notizia, mi salutò con un affettuoso Ehi tu, moccioso, non avvicinarti alla mia bottiglia! per poi riaddormentarsi immediatamente.

    Vi chiederete se fu un grillo parlante a insegnarmi a muovere i primi passi.

    Macché grillo! Quelle sono cose da fiabe! Gattonavo tra cimici e piattole e non ho mai sentito parlare nessuno di loro, anche se il babbo diceva di sentire delle voci, un po’ come Giovanna d’Arco.

    La mia infanzia non fu poi così male, ero convinto che i miei genitori mi volessero bene, almeno finché, quando avevo dodici anni, non mi vendettero a due pervertiti che si facevano chiamare il Porco e la Maiala.

    Mi cedettero a loro per pagarsi una crociera nel Mediterraneo. Non me ne resi conto finché non vidi mi madre con addosso un grosso salvagente, rosa con tante stelle disegnate male e con i pennarelli. Chiesi a mio padre dove avesse intenzione di andare mamma così conciata, ma egli fu piuttosto evasivo.

    Andiamo a fare una gita in barca per qualche giorno mi disse, con il naso tutto impolverato, mentre nascondeva della Vodka in valigia.

    Tu andrai a stare con due bravi signori, avranno cura di te aggiunse mia madre, giunta in quel momento, prima di roteare nel suo nuovo salvagente e di cadere per terra.

    Il Porco e la Maiala, i due bravi signori in questione, mi aspettavano nella loro abitazione, un loft affacciato sulla via principale del paese.

    Mi accorsi subito che qualcosa non andava, fin dal momento in cui insistettero per aiutarmi a fare pipì.

    Sono sempre stato un tipo sveglio io, per cui mi insospettii immediatamente quando, dopo essere entrati in bagno con me, essersi spogliati completamente, avermi osservato con attenzione mentre facevo i miei bisognini, essersi accarezzati reciprocamente e scambiati qualche bacio, misero in bocca delle mentine!

    Eh no! mi dissi "Qui qualcosa non quadra!

    Come mai mangiano mentine?

    Non saranno dei debosciati, per caso?" poi, con scatto fulmineo, mi diressi verso la piccola finestra aperta per scappare.

    Purtroppo non considerai le dimensioni della piccola apertura e rimasi incastrato, con la testa e il busto all’esterno e le gambe e il sederino… beh… avete intuito, no?

    Non mi arresi e cercai in tutti i modi di liberarmi, mentre i due mi tenevano stretto per i pantaloni, cercando di levarmeli.

    Non ho ancora capito bene perché cercassero di levarmi i pantaloni.

    Riuscii a fuggire dopo pochi minuti e mi buttai sul cespuglio di rose sotto la finestra. Non fu piacevole l’incontro con le spine, soprattutto perché sia i pantaloni che i miei mutandoni erano rimasti in mano ai due maniaci.

    Mi accorsi che proprio a due passi c’era una fattoria e decisi di entrarvi a cercare qualcosa con cui coprirmi.

    Una decina di asini brucavano nel prato davanti alla stalla.

    Quando mi videro senza mutande, quei quadrupedi maleducati prima mi fissarono proprio lì sotto, poi si guardarono e cominciarono a ridere come matti, coricandosi sulla schiena e sghignazzando con gli zoccoli per aria.

    Da quel giorno venni soprannominato Picci.

    Una settimana dopo tornarono i miei genitori e io raccontai loro a che genere di persone mi avevano affidato.

    Mia madre non mi seguì con molta attenzione: era impegnata a dare il mangime ai due pesci che si erano installati nei suoi capelli, durante la crociera.

    Ero certo che papà non sapesse nulla dei vizietti segreti di quei due depravati, almeno finché non lo sentii scusarsi con loro, telefonicamente, per il mio disdicevole comportamento.

    Rimasi un po’ perplesso, ma mi ripresi subito, pensando che, forse, se mio padre si comportava così, era perché aveva i suoi buoni motivi.

    Pensai ad altro, decidendo che avrei fatto cambiare idea agli asini della fattoria sul soprannome da darmi.

    Pensai di andare da loro in stato di eccitazione, in modo tale che restassero tutti a bocca aperta per lo stupore e si beccassero un bel complesso d’inferiorità. Comprai, quindi, delle riviste porno da un edicolante. Data la mia età, si rifiutava di vendermele, ma chiuse un occhio quando gli feci notare che la crisi di quotidiani e riviste, anche a causa dell’avvento di Internet, non guardava la data di nascita di nessuno.

    Quarantasette riviste, tutte con un poster al centro. Quando giunsi dagli asini maleducati ero

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