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Bimbi senza volto
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Ebook134 pages1 hour

Bimbi senza volto

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Elena è un pensiero che vive dentro Carlo e che potrebbe vivere con un altro nome dentro tante altre persone. Una presenza delicata che si manifesta all'improvviso e chiede solo di essere ascoltata. I percorsi per capire la fortuna di esistere, di esserci, possono manifestarsi in tanti modi, Elena è stata questo per Carlo. Lo accompagnerà in una ricerca che partendo dal passato e attraversando il presente, lo condurrà ad affacciarsi nel futuro.
LanguageItaliano
PublisherCarlo Contini
Release dateMay 8, 2014
ISBN9786050303483
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    Bimbi senza volto - Carlo Contini

    scriverle.

    1

    Una fotografia che non c’è

    Tum-tum... tum-tum... tum-tum... tum-tum... Adesso ho la certezza che quella notte ormai lontana era il tuo cuore che batteva insieme al mio...

    Nella casa dei miei genitori, c’era una stanza che negli anni aveva perso il suo ruolo di cucina. Da tempo ormai era un semplice passaggio, utilizzato per accedere al giardino sul quale si affacciava. Rassegnata, a capo chino, accettava la nuova condizione immersa nel silenzio e nella quiete di un’attesa che, giorno dopo giorno, le erodeva la speranza. Attratto da quell’aura d’umiltà di cui era pervasa, la scelsi come luogo in cui compiere i miei studi; ma, una volta terminati, con piacere continuai a soggiornarvi, apprezzando il suo silenzio e la quiete.

    Era perfetta come luogo di lettura. In breve quella stanza divenne il mio rifugio; là dentro il tempo si fermava, lo spazio si espandeva e i pensieri trovavano la calma che chiedevano. Tra quelle quattro mura ritrovavo la pace e l’equilibrio, di cui a volte il quotidiano mi privava.

    Credo esista per chiunque un posto simile, magari una soffitta, una spiaggia, una scogliera, un bosco, l’automobile o altro ancora. Sono luoghi speciali in cui lo spirito ritrova l’armonia,  dove protetti e al sicuro ci si sente in pace con se stessi e in concerto con il mondo.

    Così era per me quella cucina abbandonata.

    Al centro della stanza c’era un piccolo tavolo quadrato sopra il quale avevo messo un mio computer che pareva dialogare con le sedie poste intorno.

    Addossato alla parete di fronte alla porta c’era il mobile che ospitava il lavello inox a due vasche e, sul suo sgocciolatoio, in luogo delle stoviglie riposte ad asciugare, quaranta centimetri di fogli e di quaderni custodivano i ricordi dei miei studi d’ingegneria informatica. A loro, oltre agli appunti e agli esercizi più svariati, era affidata l’incombenza del ricordo: rammentavano a me stesso che, all’occorrenza, ero capace di tenacia e sacrificio. Così di tanto in tanto li guardavo e, sorridendo, ritrovavo dentro me quella certezza.

    Alla destra del lavello si annoiava una cucina a gas a quattro fuochi. Altri due mobili, ormai vecchi, completavano l’arredamento: il primo di fronte al tavolo e il secondo alla sua destra. Al loro interno una lunga serie di bicchieri, posate, piatti, vassoi e varie altre suppellettili mandate in pensione anzi tempo, cercavano conforto nei ricordi. I ripiani a vista che i due mobili mettevano a disposizione erano anch’essi sommersi da libri, quaderni, riviste di informatica, pile di CD e DVD.

    Anche il vecchio orologio, appeso alla parete accanto alla porta, pareva essersi stancato di segnare inutilmente lo scorrere del tempo e aveva deciso di fermarsi alle 16:40 di un giorno imprecisato; aveva fatto il suo ultimo Tic Tac e, da allora, si era assorto in silenziose riflessioni senza tempo.

    In mezzo a tutto il mare magnum, a cui avevo generosamente contribuito, stoicamente resistevano alcuni vecchi soprammobili. In un angolo del mobile posto a  destra nella stanza, dall’interno di cornici assai modeste, provenivano immoti  gli sguardi di alcuni parenti ormai defunti. Nonno Angiolo (Papà di mia madre), nonna Francesca e nonno Salvatore, genitori di mio padre (per noi rispettivamente nonna Ciccedda e nonno Buriccu), di zio Antonio (cugino di Papà) e zia Tetta (sorella di Papà).

    Tutti loro erano da tempo passati a miglior vita.

    I loro volti e le immutabili espressioni, ricordavano i Moai dell’isola di Pasqua; mi avevano osservato senza posa durante le mie notti di studio, quasi volessero accertarsi che il mio impegno avesse sempre il giusto grado di rigore e disciplina.

    Una notte, come tante volte capitava, avevo trascorso un paio d’ore in compagnia del mio computer. Ascoltavo l’ultimo brano di Bob Acri prima di spegnere e andare a riposare. Le ultime note di SleepAway sfumavano mentre io, in piedi accanto al mobile, sfogliavo una rivista un po’ distratto e attendevo che il silenzio mi dicesse che era tempo di concedermi al riposo.

    Durante l’attesa, il mio sguardo si posò per un istante sulle foto. Lo facevo ogniqualvolta mi chinavo per staccare la spina dalla presa di corrente.  Guardarle era uno di quei gesti che la consuetudine priva d’importanza.

    Quella sera, però, accadde qualcosa di diverso, di inatteso.

    All’improvviso, nella mia testa, ebbi la sensazione di sentire qualcuno lontano che parlava.

    La voce che sentivo si avvicinava sempre più, finché sentii con chiarezza ciò che andava ripetendo come fosse una sorta di cantilena: «La mia foto lì non c’è... La mia foto lì non c’è... La mia foto lì non c’è».

    Non saprei dire con certezza se in quel momento fossi più sorpreso, spaventato o incuriosito da quanto accadeva, tuttavia continuai ad ascoltare.

    Superato lo stupore iniziale, la prima persona a cui pensai fu la mia nonna materna, Carla, dalla quale  ho ereditato il nome. Già da tanto mi ero accorto dell’assenza di una sua foto tra quelle esposte benché ne avessimo diverse che la ritraevano e nonostante anche lei, come gli altri, fosse da tempo deceduta.

    Quella presenza immaginaria, passeggiando serena nei meandri della mente, mi invitava a concentrarmi sull’assenza lamentata; credevo di conoscerne la ragione, avevo sempre pensato che questa fosse in qualche modo riconducibile al periodo dell’infanzia di Mamma. Tuttavia, qualunque fosse la ragione, la foto di nonna Carla non era là dove ci si poteva aspettare di vederla, ovvero vicina a quella di nonno Angiolo che, con i suoi capelli candidi, era parte del gruppo di Moai che mi osservava, severo ma dolcissimo al contempo.

    Ero ancora intento a seguire la coda di quei pensieri quando, quella voce adesso ancora più nitida, riprese a parlare: «Nooooo, non sono certo nonna Carla! » disse.

    Ma se non era della nonna quella voce che sentivo dentro me, di chi allora poteva essere? Continuavo a passare in rassegna le foto, nell’inconscia speranza che da queste potesse giungere un aiuto per risolvere quel curioso arcano. Dovevo e, a quel punto, volevo capire quale altro volto, oltre quello della nonna, mancasse tra quelli delle umili cornici ma, per quanto mi sforzassi, in quel momento la mia mente era incapace di formulare qualunque ipotesi. Non riuscivo in nessun modo ad individuare qualcuno che, a buon diritto, reclamasse il suo posto lì tra quelle foto.

    Nel frattempo il computer era già andato nel mondo dei sogni, mentre io, senza quasi rendermi conto, mi ero rimesso a sedere, sprofondato in una sorta di sonno artificiale. Continuavo a fissare quegli scatti in bianco e nero, pedinavo silenzioso i miei pensieri, li seguivo come fossi in una barca che, senza opporre alcuna resistenza, si affidava alle dinamiche dei flutti, alla volontà delle correnti.

    La curiosità, si sa, rende più abile la mente e la mia, come un’eco senza fine, continuava a ripropormi quella voce mentre pronunciava le ultime parole. Così, dopo un istante, mi accorsi che la voce che sentivo apparteneva a una bambina; non era quella di una persona adulta e, ancor meno, di una vecchia. Questo particolare restrinse di molto il campo delle mie ricerche, per riuscire a risolvere il rompicapo al quale ormai dovevo assolutamente trovare soluzione. Cercavo dunque con insistenza nella mia testa un volto, un sorriso, da unire a quella voce che, nel frattempo, aveva preso a ridacchiare con quel riso tipico che hanno i bambini quando ci fanno qualche scherzetto. Ma, per quanto interrogassi i cassetti della mia memoria, non trovavo nessuna risposta né il minimo indizio. Perché non riuscivo? Perché non ero capace di trovare soluzione a quell’enigma? E poi, cosa voleva da me quella bambina? Perché parlava con me?

    Ora la vedevo, correva davanti ai miei occhi: poteva avere più o meno cinque anni, era scalza e indossava un vestitino di cotone bianco e leggero. Non riuscivo tuttavia a vederne il volto; il suo correre e saltare agitava i suoi capelli che, muovendosi folti davanti al viso, mi impedivano di scorgerlo per intero. Mi passava davanti ridendo giocosa e, divertita, mi prendeva in giro. Sembrava si divertisse davvero tanto.

    Poi d’un tratto si fermò e, con l’aria di chi stava per assaporare la vittoria su quell’indovinello che non ero capace di risolvere, tenendo il capo chino, mi disse: «Ti arrendi? Sono certa che non riusciresti mai ad indovinare chi sono».

    Vinto dalla grande curiosità che, nel frattempo, mi aveva completamente catturato, decisi di stare al gioco: «Va beeene, mi arrendo, ma ora mi dirai chi sei?»

    Così sollevò la testa e, contemporaneamente, con le mani spostò i capelli indietro, mostrando finalmente il suo viso sorridente. I suoi occhi erano scuri e profondi; come fossero spilli, li puntò dritti su di me e, con una voce ora meno ridente, mi disse: «Tra quelle foto non potrebbe essercene una che mi ritrae Carlo, perché io non sono mai nata. È per questo che nei tuoi ricordi non trovi nessun viso a cui unire la mia voce, semplicemente perché io non sono mai esistita... intendo dire fisicamente. Io non sono mai esistita».

    Stava lì immobile davanti a me, la osservavo, guardavo quel volto dolce e la sorridente espressione che offriva. Aveva capelli biondi e gli occhi scuri

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