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La nube di Oort
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La nube di Oort

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La Nube di Oort – Ernesto Giorgi

I difetti del genere umano, la prevaricazione dei capi, le ingiustizie e la schiavitù delle masse dipendono da stretti motivi biologici ed antropologici, collegati sin dalla notte dei tempi alla debolezza fisica degli esseri umani stessi, che da un lato sarebbero dovuti essere indipendenti e dall'altro non potevano farlo, data la necessità di aggregarsi per la caccia.

Non esiste rimedio: siamo così e così resteremo, la menzogna dei capi è il prezzo necessario per l'organizzazione sociale dei deboli, che in realtà dai capi sono sfruttati.

L'uomo di Neanderthal era più forte, non parlava ed era immune dalle debolezze di Homo Sapiens Sapiens.

Sparì probabilmente perché incapace di mentire, distrutto dal Sapiens e questa specie, apparentemente scomparsa, diventa l'unica speranza per l'umanità.

Abitanti di altri pianeti hanno (da sempre) interferito in questo gioco. Alla fine, il Neanderthal viene recuperato (alcuni di noi hanno ancora dal 4 al 6 per cento del Dna Neanderthal).

Il finale è entusiasmante ed il libro è avvincente.

Essenzialmente, un romanzo culturale ambientato a Venezia.
LanguageItaliano
Release dateSep 3, 2014
ISBN9786050320060
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    La nube di Oort - Ernesto Giorgi

    2014

    Fare previsioni è un mestiere molto difficile, soprattutto quando le previsioni riguardano il futuro. (Niels Bohr, premio Nobel per la fisica nel 192, Copenhagen, 1885 – † Copenhagen 1962).

    Una dedica.

    Questo scritto è dedicato agli adulti che sono rimasti bambini. Essendo bambini, hanno il cuore puro ed onesto e pertanto saranno rifiutati dalle caste oggi al potere: nessuno li vuole e, se per errore qualcuno li ha voluti, se ne sbarazzerà non appena possibile perché la loro correttezza può essere pericolosa. Loro dovrebbero essere orgogliosi di non essere apprezzati dai disonesti: ed invece, influenzati dai costumi odierni, si sentono piuttosto dei falliti, dei disadattati.

    Molto spesso i loro parenti, per primi, non li stimano: Guarda Tizio, guadagna più di te... Guarda poi Caio, sembrava uno stupido e ha fatto carriera: egli vive e lascia vivere, non è un pignolo come te, non s'inalbera per ogni disonestà... Guarda anche Sempronio: è vero che ha un processo in corso per concussione, ma viaggia in Ferrari...

    Quante volte siamo stati influenzati dai parenti? Forse, molto spesso: la correttezza non è di moda, non fa fino. Il suggerimento della gente è: carpe diem... cogli l'occasione, caro mio, cerca di approfittare, fatti furbo...

    Da molto tempo ormai, quando si chiacchiera, vale l'opinione della maggioranza: Alessandro Manzoni, tuttavia, non faceva parte della maggioranza e nemmeno il Cardinale Borromeo...

    Alcuni di noi, pochi in verità, pensano che i veri falliti e i veri disadattati siano i disonesti, oggi di moda: chi ha barattato la felicità per qualcosa di meno degno; chi ha svenduto il proprio essere per ottenere in cambio l'avere. Magra consolazione, comunque: per accettare una posizione onesta del genere, fuori dai canoni di successo oggi imperanti, ci vuole molta, molta forza e bisogna soprattutto saper tacere e mandar giù, perché il proverbio della volpe e dell'uva è sempre in agguato.

    La persona onesta sarà sempre ipocritamente apprezzata di fronte e sbeffeggiata quando girerà le spalle: tale persona sarà dunque sempre ed irrimediabilmente sola.

    Questo scritto vuole offrire ai puri di cuore una speranza.

    Questo scritto vuole offrire ai puri di cuore almeno un sogno: quello di poter cambiare qualcosa, anche se questo avverrà probabilmente in un futuro non troppo vicino.

    Facilitazioni per il lettore: due tipi di lettura.

    In questo libro, i capitoli si possono suddividere in due tipi:

    Capitoli che andrebbero letti senz’altro. Tali capitoli recano nell’intestazione la scritta importante.

    Capitoli che possono essere omessi per vari motivi, ad esempio per una prima lettura o per evitare letture impegnate: questi capitoli contengono nozioni varie che non sono indispensabili per la comprensione del significato del libro stesso. Tali capitoli recano nell’intestazione la scritta facoltativo.

    All’inizio di ogni capitolo si definirà l’appartenenza dello stesso ad una delle due suddette categorie, cercando di riassumerne anche il contenuto (sotto gli eserghi¹), come si usava una volta, quando i titoli dei capitoli erano addirittura chilometrici.

    Ciò che ho affermato, può essere vero oppure non esserlo. Perché il popolo ci creda, è sufficiente che sia verosimile e che lo dica il Doge di Venezia. (Paolo Lucio Anafesto [Paolucio], primo Doge di Venezia dal 697 al 717, Oderzo, 640? † Venezia, 717?).

    Venezia, 22 aprile 2010.

    Giovanni Giuponi era maestro d'ascia allo squero² di San Trovaso in Venezia.  Il Patriarcato aveva comunicato che l'anno successivo il Papa sarebbe venuto per una visita pastorale. Si desiderava fare bella figura: Sua Santità avrebbe fatto un brevissimo tragitto in gondola dalla piazzetta di San Marco sino alla chiesa della Salute.

    Naturalmente, precisava il sindaco, non a bordo di una gondola qualunque che al massimo poteva avere due gondolieri, bensì a bordo di una bissona, una gondola speciale che poteva accogliere sino ad otto rematori, lunga oltre dodici metri, di quelle che si usavano per la Regata Storica, per lo Sposalizio del Mare³.

    Giuponi pensò che le dieci bissone a disposizione nello squero fossero troppo grandi. Il suo pensiero andò alla dogaressa, più piccola delle bissone e a quattro remi soltanto, molto decorata e a pianta simmetrica. La dogaressa era più maneggevole di una bissona e le dimensioni erano comunque più importanti e sontuose di una gondola tradizionale.

    Inoltre il colore non era il luttuoso nero, voluto secoli addietro da Marin Faliero⁴, ma bianco con profili rossi. Giuponi pensò che tale imbarcazione, com'era andata  bene per il Doge, potesse essere la soluzione migliore anche per il Papa. Si trattava di calafatarla⁵ ed aggiungervi qualche tocco di giallo, in modo che i colori predominanti divenissero quelli vaticani.

    Figura 1 - Venezia: squero con gondole da cerimonia.

    Restava il problema dei remi: nello squero ne aveva sei ma non erano nuovi ed erano tutti lunghissimi. Lui ne voleva otto, tutti nuovi, quattro lunghi e quattro normali. Ne avrebbe usati due lunghi e due normali per lo spostamento del Papa ed altrettanti li avrebbe tenuti di riserva, in caso di problemi. Otto remi nuovi di faggio, lucidi, belli e senza il pericolo che i gondolieri si piantassero delle schegge nelle mani.

    I remi dovevano essere verniciati a nuovo con cera diluita in essenza di trementina⁶.

    Bisognava andare a prendere il legno di faggio nel Cansiglio, nel paesino di Vallorch, da certi falegnami cimbri che conosceva lui. Anche il padre di Giovanni Giuponi era cimbro e maestro d'ascia: una generazione prima, era arrivato a Venezia, allo squero di San Trovaso, chiamato dal sovrintendente comunale della città.

    La Serenissima ottenne la sovranità del Cansiglio nel 1404 e da quella volta il bosco locale a faggeta acquistò enorme importanza: ogni albero era registrato ed era pure annotato l'anno in cui si sarebbe proceduto al taglio. Questo durò sino alla caduta di Venezia nel 1797 (per mano di Napoleone Bonaparte) ma la tradizione e i rapporti con gli abitanti del Cansiglio continuarono. Continuò anche la tradizione che i cimbri taglialegna si recassero a Venezia per lavorare negli squeri e nell'Arsenale⁷ di dantesca memoria⁸.

    Antonio Giuponi era pur sempre un cimbro, benché a Vallorch ci fosse stato solo due o tre volte, assieme a suo padre.

    Arrivato a Vallorch, Giovanni Giuponi si recò dai falegnami e chiese di Luigi Bortolot, proprietario cimbro della segheria. Disse a Luigi di essere il figlio di Adelchi e di essere l'attuale maestro d'ascia dello squero di San Trovaso. Aggiunse che aveva bisogno di otto remi in faggio e chiese di vedere il materiale. Con un tono riservato, Luigi gli disse: Ti accontento, ma mi dovresti fare un enorme piacere: dovresti portare a Venezia, non so bene da chi, un certo pacco; se mi dici di sì, prima parliamo dei remi e poi del pacco.

    Giovanni: Nei limiti del possibile, ti accontenterò senz'altro; d'altronde, farò poca fatica a consegnare un pacco a Venezia, sempre che non sia una bomba.

    Luigi: Ma quale bomba... c'è dentro un libro, uno scartafaccio o qualcosa del genere; c'è di mezzo un morto preannunciato da sé… dopo ne parliamo… ora vediamo il faggio per i remi e poi ti darò anche dell’essenza di trementina distillata dai nostri larici .

    Il faggio era ottimo, evaporato come si deve e la trementina era perfetta: si accordarono per tutti i dettagli e andarono in una trattoria vicina per parlare. Luigi disse che attraverso un bicchiere di vino merlot ci si guardava meglio: Giovanni convenne.

    Luigi: "Un giorno di alcuni mesi fa è venuto in falegnameria un cimbro mio amico, pastore, molto colto, benestante, laureato in materie storiche a Padova.

    Si chiamava Bruno Azzalini. Anche suo padre faceva il pastore ed era laureato in lingue a Venezia.

    Quando l'altro giorno son venuto a sapere che anche il figlio di Bruno si è laureato in composizione all'Accademia di Venezia, mi sono chiesto come possa quella famiglia avere tutti quei quattrini".

    Il pacco dei manoscritti.

    Luigi: "Per farla breve, mi disse che doveva affidarmi questo famoso pacco, perché per lui il tempo su questa terra stava per scadere e non poteva lasciare il pacco al figlio Carlo (quello dell'Accademia) perché era ancora troppo giovane; non mi dette alcuna spiegazione circa i motivi che lo spingevano a considerare il figlio musicista troppo giovane per custodire il pacco.

    Benché non ci fosse fretta, dovevo essere così gentile da far pervenire il pacco a qualche centro culturale, tradizionale, serio, per esempio una biblioteca o un museo. Aveva pensato a me perché sapeva dei miei rapporti con Venezia e anche perché il tempo della sua vita, diceva lui, stava per finire.

    Mi disse che sarebbe morto entro breve per un ictus cerebrale e mi fece giurare che avrei seguito le istruzioni per il pacco.

    Mi offrì una grossa somma di denaro per il mio servizio.

    Accettai, ci salutammo e dopo una settimana morì: ictus cerebrale… non mi ero dimenticato del pacco, ma poco ci mancava. 

    Fui talmente impressionato dalla sua morte annunciata che mi venne la voglia di gettare il pacco nella spazzatura ma non lo feci o meglio, non fui capace di farlo, perché una voce dentro mi diceva in continuazione che avevo giurato, avevo giurato… dal tono erano implicite delle minacce, se avessi trasgredito; inoltre, avevo accettato il denaro... ed eccomi qua: appena torniamo in falegnameria, ti vorrei consegnare il pacco da portare a Venezia; posso darti una parte del denaro".

    Giovanni: Non voglio denaro, l'accordo è che mi farai i remi.

    Giovanni Giuponi era esterrefatto e continuava a chiedere a Luigi Bortolot se fosse sicuro di quanto detto. Luigi confermava: si trattava di un manoscritto e, da quello che aveva capito, il manoscritto era per circa metà opera del padre del pastore, cioè Antonio e per il resto opera del pastore stesso, Bruno.

    Aggiunse che il musicista Carlo, figlio del morto, si era fatto vedere varie volte in osteria: sembrava in ogni caso che non sapesse niente del pacco consegnato da suo padre a Luigi Bortolot.

    Tornati in falegnameria, Giovanni Giuponi si fece consegnare il pacco, ripromettendosi di darlo al più presto a qualcuno, in quel di Venezia.

    Giovanni tornò a casa, a Venezia, in campo Santa Maria Formosa.

    Durante la notte non chiuse occhio pensando al pacco.

    Fra un pensiero e l'altro, si ricordò che al numero 5252, vicino a casa sua, si trovava la gloriosa biblioteca Querini Stampalia.

    Pensò: Domani mattina, chiamo subito la biblioteca e così la facciamo finita con questo manoscritto: con tutto quello che ho da fare...

    All'orario di apertura, la segretaria della biblioteca sentì il telefono che squillava.

    Giovanni: Signorina, io sono Giovanni Giuponi e ho ricevuto l'incarico di consegnarvi un manoscritto per cui vorrei parlare con qualcuno.

    La signorina smistò la telefonata e all’apparecchio rispose un uomo: Sono Paolo Ballarin, direttore della Querini Stampalia; in che cosa posso esserle utile?

    Giovanni: Sono Giovanni Giuponi, maestro d'ascia dello squero di San Trovaso della Cooperativa Gondolieri... ieri ero nel Cansiglio, a Vallorch, e mi hanno consegnato un pacco che probabilmente contiene un manoscritto; ho l’incarico di consegnarlo a un‘importante biblioteca e così ho pensato a voi, anche perché abitiamo molto vicini; vorrei venire anche subito.

    Ballarin: Grazie per il pensiero; io devo comunque chiamare i Carabinieri, i quali dovranno essere presenti: mi lasci il suo numero di telefono.

    Giuponi lasciò il numero e chiuse la comunicazione.

    Dopo dieci minuti suonò il telefono ed era Paolo Ballarin: Signor Giuponi, dato che mi ha detto di essere disponibile anche subito, può venire tra mezz'ora: nel frattempo, dovrebbero arrivare anche i Carabinieri per i controlli del caso.

    Giovanni Giuponi si preparò e nel tempo di mezz'ora fu in biblioteca. Stava per chiedere di Paolo Ballarin quando due Carabinieri, uno dei quali con la pistola in pugno, lo avvicinarono e lo perquisirono.

    Chiesero del pacco e lo stesso fu esaminato con uno strumento elettronico infernale. Superati tutti gli esami, Giovanni fu introdotto, col suo pacco, nello studio di Paolo Ballarin. I Carabinieri rimasero presenti per controllare cosa potesse succedere.

    Giovanni Giuponi raccontò la storia di Luigi Bortolot, il falegname di Vallorch, per filo e per segno.

    Paolo Ballarin: Giuponi, qui ne sentiamo tante, ma questa ha dell'incredibile.

    Allungò le mani sul pacco con fare appassionato e tolse il primo involucro di carta-paglia giallastra, di quella carta che usano i macellai.

    Esisteva all’interno un altro involucro che avvolgeva, legato con lo spago, un voluminoso plico di fogli manoscritti.

    Questo involucro recava una scritta manuale:

    Zimbar Earde: Sprichwörter

    S’ista di sun und renk, dar Taüvl hat  geschlakh soi baibe.

    Ballarin si rivolse ai due Carabinieri per dire loro che potevano accomiatarsi. I Carabinieri si fecero firmare un documento sia dal Ballarin Paolo che dal Giuponi Giovanni, salutarono e se ne andarono.

    Paolo Ballarin disse: "Che lingua sarà mai… Sprichwörter è tedesco, sun è inglese, ma il suo articolo di sembra sassone antico. Earde sembra tedesco antico e così pure sembrano dar, hat e geschlakh. Quindi potrebbe essere… Terra,  Proverbi… il sole e pioggia, il Diavolo ha battuto … "

    Giuponi: Io sono cimbro e a Vallorch parlano il…

    Ballarin non lo lasciò finire: "Cimbro! Certamente! E' una lingua sassone del tredicesimo secolo, dell'alta Baviera, qualcuno dice Danimarca… quindi Zimbar è un aggettivo per Cimbro.  Abbiamo allora: Proverbi della Terra Cimbra. Sole e pioggia, il Diavolo ha battuto... Il Diavolo … mah, non so, lo dobbiamo far tradurre a Luserna⁹ in Trentino, al Centro di Cultura Cimbra. Telefono subito…"

    Giuponi: Scusi direttore, io sono preso con i remi per il Papa e me ne andrei…

    Ballarin: Come? I remi per il Papa?

    Giuponi: Non ha importanza: le lascio il manoscritto e se non le dispiace, me ne vado…

    Ballarin: Va bene, Giuponi, la ringrazio per conto della Biblioteca e la saluto. Comunque ho guardato il manoscritto: sembra tutto in lingua cimbra, se è tale… grazie di nuovo; ho il suo numero di telefono e lei ha il mio. Per adesso, arrivederci.

    Giuponi: Speriamo invece di non rivederci perché questo non è il mio mondo; quando lo avrà tradotto, mi basterà una telefonata per soddisfare la mia curiosità. Addio.

    Giuponi se ne andò allo squero. Telefonò a Bortolot per comunicare le novità e tranquillizzarlo. Ora poteva e doveva pensare ai remi per Sua Santità.

    Celui-là se croit Kant parce qu'il l'a traduit. (Quel tale si crede Kant perché l'ha tradotto.) D. Gay de Girardin (scrittrice francese, 1806-1881), L'école des journalistes, 1, 5.

    Venezia, 21 novembre 2010.

    Quella mattina, Paolo Ballarin trovò sul suo tavolo di lavoro un plico raccomandato, molto voluminoso, proveniente da Luserna.

    C'era una lettera d'accompagnamento, dove s’informava che al Centro di Cultura Cimbra avevano fatto una copia anastatica dell'originale e della traduzione e se l'erano trattenuta per ogni eventuale necessità.

    Informavano che si trattava di diari, probabilmente scritti da gente strana, se non addirittura svitata.

    La scrittura era sicuramente di due persone almeno, se non di tre. La terza scrittura, che interveniva sempre come se fosse una correzione degli appunti, aveva qualcosa di strano nella sua uniformità assoluta.

    In tale scrittura le lettere erano tutte uguali: la lettera a minuscola era costantemente uguale a sé stessa; così pure la A maiuscola e così via.

    Le altre due scritture erano di persone colte, con buona prosa, nonostante la lingua cimbra non sia solitamente ben conosciuta. Sicuramente le due persone avevano conoscenze di altre lingue, compreso il latino e il greco.

    Ci si soffermava sulla terza scrittura, considerata quasi disumana, come se fosse stato un computer ad eseguirne la stesura grafica relativa. Inoltre la terza persona, o forse macchina, doveva avere una preparazione profondissima, come se avesse saputo tutto.

    Era insomma la parte più interessante del manoscritto per la sua originalità. Come importanza filologica, il manoscritto era da considerarsi interessante ma non troppo.

    In tutto il manoscritto, i due autori parlavano del Cansiglio, della pastorizia, e di Satana che li manteneva profumatamente.

    Oltre ad alcune descrizioni etniche e topografiche (Monte Pizzoc nel Cansiglio, Bus de la Lum) e faunistiche locali (cervi, daini, fagiani, lepri, capre, pecore), entrambi gli autori si diffondevano su immaginari e fantastici colloqui con Satana e su storie da lui raccontate.

    Erano storie cosmogoniche, psicologiche, psichiatriche, etniche, politiche, storiche, religiose e così via: fantasie, insomma.

    Una cosa interessante era che la terza mano, ovvero la terza persona, ovvero l’ipotetica macchina, scriveva sempre e solo per effettuare delle annotazioni in calce ai colloqui con questo immaginario Satana. Nient'altro. Sconsigliavano di leggerlo: sarebbe stato solo tempo sprecato.

    Allegavano la fattura per il loro lavoro, molto salata.  Al che, Paolo Ballarin procedette a numerare il manoscritto col primo numero libero, il 306666 (numerò inoltre la traduzione in italiano col numero 306666/T_it) e a metterlo in cassaforte tra i documenti importanti da leggere. Di questa cassaforte, solo lui aveva le chiavi.

    Pensò: Bravi, quelli di Luserna, molto bravi… ti rispondono dopo sei mesi, noi paghiamo profumatamente e loro se ne sono fatta una copia… ora telefono perché, quanto meno, mi avrebbero dovuto chiedere il permesso: la Querini Stampalia non può lasciare in giro copie senza motivo.

    Paolo: Qui parla Paolo Ballarin della Querini Stampalia di Venezia: volevo parlare…

    Una voce lo interruppe: "Ballarin, sono Rauter del Centro di Cultura Cimbra: è successo un fatto incredibile.

    Avevamo fatto una copia dell'originale e della traduzione del vostro manoscritto.

    Li avevamo lasciati su una scrivania, vicino ad una finestra. Improvvisamente, hanno preso fuoco e sono andati distrutti. Siamo a novembre e non può essere stato il sole: con ogni probabilità è stata una forma di autocombustione.

    Avevamo una versione elettronica nel computer: per fatalità, il disco si è sfasciato ed abbiamo perso tutto. Potrebbe rimandarci una copia? Qui, scherzando, abbiamo detto che potrebbe essere opera del Satana citato nel manoscritto…"

    Ballarin balbettò: Va bene…

    Era talmente colpito che s'era dimenticato di fare il calzettone a Rauter. Non voleva demordere e, per mantenere il prestigio della biblioteca, il giorno dopo richiamò Rauter per dirgli che almeno potevano chiedere il permesso di tenersene una copia, anche se tale copia, ormai, non c'era più. Gli passarono Rauter, il quale disse: Buon giorno, in cosa posso esserle utile?

    Ballarin: Rauter, sono Ballarin, della Querini Stampalia: ci siamo parlati ieri del manoscritto… del fuoco…

    Rauter: Scusi: quale manoscritto? quale fuoco?  io non la conosco…

    Paolo Ballarin sentì un brivido lungo la schiena: a Luserna non c'era più niente, né ricordi, né documenti scritti, né supporti magnetici, niente… si ricordò il cimbro morto per un  ictus e, se possibile, rabbrividì ancora di più.

    Paolo: Ma… e per la vostra fattura?

    Rauter: Ma di che fattura parla? Ha tempo da perdere? e sbatté giù il telefono.

    Paolo, a sua volta, mise giù la cornetta senza aggiungere altro e, presa la chiave, si avviò verso la cassaforte.

    La aprì e vide il manoscritto: era là, tranquillo, innocente, in attesa di chissà cosa… da quel momento Paolo fu un'altra persona. Improvvisamente si ricordò che il numero assegnato in automatico dal computer era il 306666: andò a controllare e si accorse che il numero era corretto. 6666, il numero di Satana… possibile?

    Allora controllò la lettera di accompagnamento inviata dal Centro di Cultura Cimbra: era un numero qualsiasi, 1456/GN. La fattura era la 226. Tutto finiva comunque col numero sei.

    Telefonò nuovamente a Luserna ma questa volta non chiese di Rauter. Disse alla segretaria: Signorina, ho qui una vostra accompagnatoria da archiviare, il numero è 1456, tuttavia non si legge la sigla dell'operatore: vuole controllare e comunicarmela? Inoltre la fattura numero 226 non ha il destinatario corretto.

    Dopo un minuto circa la signorina tornò al telefono dicendo che l'ultimo numero protocollato era il 1455/GN e GN era lei in persona. Il sei finale non era ancora stato utilizzato. Inoltre l’ultima fattura emessa dal loro ufficio era la 225. Grazie e arrivederci.

    Paolo ripose la cornetta e rimase a bocca aperta: il sei finale era sempre il numero di Satana; quel documento non esisteva più a Luserna… la fattura in suo possesso poteva essere considerata  ufficialmente un falso o qualcosa del genere.

    E per il pagamento? Paolo gettò la fattura nel cestino delle cartacce.

    Pensò che anche il maestro d'ascia avesse dimenticato tutto e così anche il falegname cimbro del Cansiglio.

    Chiamò subito Giuponi, il quale ricordava tutto perfettamente. Poi Paolo aggiunse: Giuponi, per cortesia, mi dia il numero di Luigi Bortolot perché lo voglio tranquillizzare e ringraziare…

    Anche il cimbro del Cansiglio ricordava tutto, perfettamente.

    A Luserna tutto scompare...

    Allora, solo in quel di Luserna non era rimasto più niente: Diavolo di un Satana…, pensò. Tuttavia, un sesto senso gli diceva di non andare ulteriormente a fondo, di lasciar stare… e così fece. Aperta la cassaforte, prese la versione italiana del manoscritto.

    La copia italiana, redatta al computer, era di una certa mole e avrebbe richiesto alcuni giorni per essere letta con attenzione. Decise di prendere appunti, dei passi più importanti, in un quaderno e si mise all’opera.

    Una nota introduttiva, fatta in quel di Luserna, diceva che, sulla sinistra di ogni riga, era riportato un numero romano, da uno a tre, dove i primi due erano gli autori del diario e il numero tre si riferiva a chi aveva fatto le annotazioni, là dove si parlava di Satana.

    Le prime pagine del volume, scritte da Antonio Azzalini, padre di Bruno, erano un riassunto della sua vita, sino al momento della tenuta del diario. Antonio scriveva di essere nato a Vallorch nel 1910 e si compiaceva della sua laurea in lingue, conseguita a Venezia. Scriveva in cimbro per aumentare la segretezza del diario. Faceva il pastore ma, da un punto di vista finanziario, «...la nostra famiglia non ha mai avuto né avrà mai in futuro problema alcuno».

    L'affermazione suonava troppo sicura, quasi arrogante e in un certo senso contribuiva a creare in lui un senso d'inquietudine: «né avrà mai  in futuro», diceva proprio così…

    Pensò: Un cimbro pastore, abitante su di un cocuzzolo di montagna, laureato in lingue e mantenuto da Satana… mi dovrei dare un pizzicotto perché forse sto sognando…

    Si ricordò del filosofo cinese Chuang-tzu¹⁰, il quale diceva che forse si era svegli quando si credeva di sognare e viceversa, qualcosa come nelle Metamorfosi di Franz Kafka.

    Fuor di metafora, forse aveva sempre dormito di fronte alla vita e solo in questi frangenti si stava risvegliando e cominciava a conoscere una realtà affatto diversa dalle sue attese.

    Paolo Ballarin terminò di stendere i suoi appunti nel giorno di san Valentino, 14 febbraio 2011.

    Terminati gli appunti, ripose la versione italiana del testo originale nella cassaforte e fece una dozzina di copie degli appunti stessi. Sistemò le copie in posti strategici. Alcune copie le mise a casa propria, alcune in ufficio, tre nella cassetta di sicurezza della sua banca.

    Poi chiamò suo figlio Toni e disse: "Tu compirai diciotto anni nel 2018 e mancano pertanto sette anni alla tua maggiore età: se non ci sarò più, ti prenderai dalla cassetta di sicurezza della nostra banca una o più copie di alcuni miei appunti che portano il titolo «Cimbri 2043», e te li leggerai attentamente. Prenditi nota del titolo.

    All'interno troverai anche un foglio che ti dirà a quale originale facciano riferimento.

    Si tratta di una cosa molto importante e, dato il contenuto, ritengo che per ora sia meglio che tu non li legga.

    Se invece alla tua maggiore età io sarò ancora vivo, cosa che mi auguro possa accadere, sarà mia cura informarti di tutto".

    Toni rispose: Papà, perché 2043? Perché cimbri?

    Paolo: "Per quanto riguarda i cimbri, ormai hai undici anni e questa è una bella occasione per fare una ricerca sul web.

    Circa il 2043, non posso risponderti, altrimenti sarebbe come rivelare tutto. Ti prego gentilmente di non farmi altre domande e che questo rimanga veramente un segreto tra noi due. Grazie".

    Toni capì che, anche insistendo, non avrebbe cavato il ragno dal buco e che il padre era deciso a non parlare.

    Suo padre faceva un lavoro affascinante e Toni sperava in futuro di fare qualcosa del genere anche lui, per dimostrare le proprie capacità.

    Per fare meglio, c'era una sola possibilità: la Biblioteca Marciana oppure il Museo Correr, entrambi in piazza San Marco oppure qualche altro degli innumerevoli musei della città. 

    Per questo era intenzionato a laurearsi in storia, che gli sembrava la laurea più adatta e omnicomprensiva. Inoltre suo padre gli aveva detto che gli storici erano sempre bene accolti nei musei.

    Dopo il colloquio col figlio, Paolo Ballarin inviò tramite corriere due copie a suo fratello Pietro, che da parecchio tempo viveva a New York, accludendo una lettera dove lo pregava di fare a suo figlio Martin lo stesso discorso che lui aveva fatto al proprio figlio Toni: lo scopo di Paolo era di spargere gli appunti un po’ qua e un po’ là, per evitare rischi. 

    Pietro e Paolo erano quasi coetanei: Pietro era nato nel 1977 e Paolo nel 1974; avevano quindi rispettivamente 34 e 37 anni.

    Si erano sposati entrambi abbastanza giovani ed entrambi avevano avuto un figlio nel 2000. I due ragazzi erano pertanto coetanei ed avevano in quel momento undici anni.

    Quando Pietro e Paolo si sentirono al telefono, Paolo fu informato del fatto che anche suo nipote Martin aveva fatto suppergiù le stesse domande.

    Pietro, Martin e Toni quasi dimenticarono l’episodio: non fu così per Paolo Ballarin, perché gli episodi correlati a «Cimbri 2043» erano stati veramente fuori dal normale.

    In ogni caso, Paolo non chiese mai al fratello se avesse letto completamente i suoi appunti. Sembrava tuttavia di sì, perché durante una cena di Natale a New York, Pietro disse: Sai, fratellino, mi piacerebbe leggere anche l'originale… poi, tra un brindisi e un augurio di Buon Natale, il discorso non ebbe più seguito.

    I ragazzi leggono gli appunti di Paolo Ballarin.

    New York e Venezia, 30 giugno 2018.

    Martin e Toni Ballarin avevano compiuto i diciotto anni fatidici ed avevano letto entrambi gli appunti di Paolo. Uno di qua e uno di là dell'Atlantico, si stavano scambiando l'opinione che si trattava di una cosa incredibile.

    Avevano una voglia matta di parlarne con gli amici, forse solo per darsi una certa importanza, ma c'era la proibizione assoluta di Paolo Ballarin, zio di uno e padre dell'altro. E su questo i ragazzi sapevano già che tale decisione era irrevocabile. Inoltre, nel caso fosse venuto a galla che avevano parlato con qualcuno, non avrebbero più avuto in lettura gli originali: questa era la minaccia di Paolo.

    I ragazzi non vedevano l'ora di leggere gli originali, anche se Paolo aveva spiegato che li avrebbe forniti non appena si fossero laureati e a patto che la notizia non fosse stata in seguito diffusa.

    D'altronde, gli appunti incutevano un certo timore per le implicazioni del loro contenuto e Paolo aveva fatto capire tra le righe che non erano cose su cui scherzare. Parlarono del 2043, citato nel titolo degli appunti. Secondo una stima effettuata da Paolo Ballarin e riportata debitamente negli appunti, nel periodo tra il 2042 e il 2045 si sarebbe dovuto assistere a qualcosa di eccezionale per la storia dell'umanità.

    Questo si ricavava dalle annotazioni effettuate dalla 'terza mano' nelle chiose a commento dei discorsi di Satana. Insomma, se era veramente Satana che chiosava, lo stesso scriveva che in tale periodo tutte le intelligenze dell'universo avrebbero fatto il punto sull'umanità. Inoltre i ragazzi avevano l'ordine di non parlare per telefono: avrebbero potuto farlo solamente di persona alla prima occasione.

    Il resto degli appunti faceva riferimento ai diari, a una storia dell'umanità rivista in base ai dialoghi tra uno o l'altro dei due cimbri e Satana (ma era poi tale? non era forse solo un'invenzione?).

    Sembravano insomma appunti di un discorso di fantascienza, con tanto di angeli sui carri di fuoco, piramidi, Roswell, Ufo… le solite storie incredibili.

    I ragazzi tendevano a sottovalutare gli episodi vissuti da Paolo in prima persona e dei quali erano comunque al corrente, come la sparizione dei documenti e dei ricordi da Luserna e così via. 

    Certamente la sottovalutazione dipendeva dal fatto che, nonostante tutto, il discorso dello zio-padre Paolo sembrava poco probabile, forse al momento degli accadimenti era stanco, chissà… se avessero potuto vedere gli originali…

    Figura 2 - Torre dell'Orologio: I mori, Venezia.

    Il sogno è l’infinita ombra del Vero.

    Giovanni Pascoli (poeta italiano, 1855 -1912), Poemi conviviali, Alexandros.

    New York, 7 luglio 2043.

    Martin si svegliò nella sua casa di New York, sulla quarantaduesima est, con un lancinante dolore alla testa.

    Eppure... eppure non aveva fatto alcuno strapazzo, non era rimasto sveglio sino a tardi... insomma, da parecchi giorni stava conducendo una vita assolutamente normale.

    Improvvisamente, ricordò come, verso le quattro di notte, avesse avvertito una specie di vertigine e un ronzio fortissimo agli orecchi; ricordò inoltre come le pulsazioni cardiache fossero salite vertiginosamente e come un senso di nausea affannosa lo avesse prostrato per una decina di minuti. Poi, giacché non aveva più disturbo alcuno, si era riaddormentato.

    Nel dormiveglia, avvertiva la sensazione di aver letto un manuale, o forse una novella o forse delle istruzioni: comunque qualcosa di nuovo era entrato a far parte di lui in modo profondo.

    Si trattava senza dubbio di cosa importante (così almeno gli sembrava), tuttavia non capiva bene l’accaduto.

    Aveva la sensazione che questa lettera, questo documento, zampillatogli nel cervello, dovesse essere messo nero su bianco. E d’altronde, colmo dei colmi, non ne era sicuro. Forse era solo un sogno?

    Martin Ballarin era nato nel 2000, all’inizio del nuovo secolo e aveva pertanto quarantatré anni.  Il padre, Pietro, era un matematico italiano, che veniva da Venezia, laureato a Padova e che lavorava all’università di Harvard; la madre era una canadese di Montreal, di etnia francese, ex professoressa di lingue.

    Martin conosceva pertanto l’italiano paterno, il francese materno e l’inglese scolastico.

    Sapeva inoltre lo spagnolo e un poco di tedesco. Le scuole frequentate erano a New York. Si era laureato due volte, prima in materie umanistiche e poi in legge.

    Lavorava all’Onu, dove era molto considerato per la sua intelligenza e per le sue capacità.

    Era un risolutore di problemi: gli ambasciatori e i burocrati di tutto il mondo, quando avevano qualche problema nello svolgimento delle loro funzioni a New York, si trovavano indirizzati a lui.

    Considerato un profondissimo conoscitore del Palazzo di Vetro, molto brillante e molto colto, era invitato continuamente a cena dai vari ambasciatori, sia perché volevano sdebitarsi dei favori ricevuti, sia perché apprezzavano veramente la sua colta compagnia.

    Non era sposato e pertanto nessuno gli preparava il caffè.

    Anche quella mattina era giunta l’ora di muoversi per andare al lavoro e quindi pensò di andare in cucina per farsi la colazione.

    Con suo enorme stupore, si ritrovò davanti alla sua scrivania, per scrivere al computer, come se una forza superiore lo avesse spinto a tale compito.

    Con stizza, si alzò di scatto e si diresse verso la cucina: pensò che forse un buon caffè lo avrebbe risvegliato.

    Bevuto il caffè, scese nella quarantaduesima strada e prese un taxi per il Palazzo di Vetro.

    Dopo anni che prendeva regolarmente il taxi, conosceva quasi tutti i tassisti e anche questa volta trovò uno di questi.

    Il tassista gli disse che tutti i passeggeri precedenti si erano lamentati della brutta nottata e, colmo dei colmi, anche lui, il tassista stesso, verso le quattro aveva avuto un improvviso e fortissimo mal di testa.

    Martin non disse nulla e convenne col tassista che forse dipendeva dal tempo atmosferico... tuttavia pensò che, se fosse stata una coincidenza, si sarebbe trattato di una cosa veramente strana. D’altronde, le coincidenze sono sempre strane...

    Arrivato all’Organizzazione delle Nazioni Unite, pagò e salutò il tassista, avviandosi poi verso il suo ufficio. Aveva un appuntamento entro breve con l’aiutante dell’ambasciatore d’Etiopia.

    Questo distintissimo signore arrivò con circa dieci minuti di ritardo e, in perfetto francese, si scusò infinitamente per il ritardo stesso, dovuto ad un  mal di testa improvviso, sopravvenuto verso le quattro del mattino: tale attacco lo aveva scombussolato e lo aveva fatto ritardare.

    A questo punto Martin non ce la fece a trattenersi e disse: Dottor Feibela, ha avuto per caso la sensazione di dover scrivere qualcosa?

    Feibela sobbalzò sulla sedia, impallidì e gli disse che le cose stavano proprio così. Non solo, aggiunse, ma il ritardo dipendeva dal fatto che aveva dovuto scrivere quel qualcosa proprio quando era pronto per uscire dal suo hotel: era stato un impulso più forte della sua volontà e non aveva saputo resistere.

    Con mano esitante, trasse dalla tasca un foglio, dove con grafia minutissima aveva scritto due facciate intere.

    Aggiunse che aveva avuto la sensazione di scrivere quasi sotto dettatura. Inoltre aveva scritto in un dialetto etiope: non uno qualsiasi, bensì il dialetto del suo paesino natio in Etiopia. Non aveva altre risposte o spiegazioni da dare.

    Chiese a Martin se volesse sentir leggere il foglio con traduzione in francese, al che Martin lo pregò di procedere, mentre un sesto senso gli suggerì che forse  poteva già conoscere il contenuto della lettura.

    Feibela lesse in francese e Martin a mano a mano impallidì: lo riconobbe come il testo che lui stesso avrebbe voluto (o dovuto?) scrivere la mattina, quando aveva deciso di opporsi e di farsi il caffè.

    Feibela aveva quasi finito quando Martin lo interruppe gentilmente facendo un cenno come per dire che voleva proseguire al posto dell’etiope nella recitazione e, con somma meraviglia di Feibela, finì la parte mancante in francese esattamente com’era scritta nel foglio in dialetto etiope. Feibela guardò Martin con gli occhi fuori della testa.

    Feibela continuava a ripetere: Incredibile, se non lo avessi vissuto ora, non ci crederei. Martin annuiva.

    Si erano incontrati per un altro motivo e l’impegno di lavoro che attendeva sul tavolo andava soddisfatto. Parlarono del loro lavoro, finirono i loro discorsi e si ripromisero l’un l’altro di riparlare del messaggio il giorno dopo.

    Quando il dottor Feibela se ne andò, Martin si mise al computer e scrisse: Istruzioni di questa notte, 7 luglio 2043, ore 4, ora di New York.

    A questo punto, come detto da Feibela, una strana pulsione lo possedette ed egli cominciò a scrivere al suo computer, senza motivo, in italiano.

    La scrittura procedeva spedita, in modo completamente automatico: c’era una differenza di sei secondi circa tra la comparsa del significato della frase nel cervello e la visione concreta della scritta da digitare.

    Stava scrivendo come sotto dettatura: scrisse tutto, senza fermarsi un attimo. La voce dentro di lui che creava le lettere non lo faceva in una lingua definita: erano concetti che, chissà per quale motivo, si depositavano nel cervello in lingua italiana.

    Non aveva provato a scrivere nemmeno una parola diversamente dal suggerito, sia perché non lo voleva fare sia perché aveva la netta sensazione che comunque non lo avrebbe potuto fare.

    Il contenuto sembrava una carta costituzionale, una legge o qualcosa del genere: conteneva ordini precisi e severi moniti.

    Martin lo aveva scritto senza prestare attenzione al significato, anche se era sicurissimo di averlo scritto perfettamente. Si riservò di approfondire il tutto. Era la prima volta che gli capitava una cosa del genere.

    Lucy Morgan, la segretaria.

    Spossatissimo e allo stesso tempo soddisfatto per quanto scritto, stampò una copia del messaggio e uscì dalla stanza, per recarsi, dopo il corridoio, nell’ufficio della sua segretaria Lucy: una bionda di ventotto anni circa, che lo salutò con un sorriso triste.

    Martin: Lucy, di solito mi fai un bel sorrisone e oggi invece ti vedo un poco triste: posso esserti utile?

    Lucy: Scusa Martin, ma stanotte ho dormito poco; verso le quattro ho avuto un attacco fortissimo di mal di testa e per questo mi sento molto debilitata...

    Martin di rincalzo: Non avrai mica scritto anche un foglio...

    Lucy lo guardo esterrefatta e disse: L’ho appena scritto adesso, non riuscivo a resistere... ecco il foglio... ma tu, come fai a saperlo?

    Martin prese il foglio e lo lesse: era in inglese, ma era la copia esatta del testo in italiano scritto da lui e del testo in dialetto etiope scritto da Feibela...

    Restituì il foglio a Lucy, la pregò di tenerlo sott’occhio mentre lui leggeva il proprio ad alta voce, traducendo contemporaneamente dall’italiano all’inglese. I testi erano in sostanza identici e Lucy ebbe la forza di balbettare soltanto: Ma... ma… com’è possibile?.

    Lucy si sedette di colpo sulla sedia, con occhio smarrito ed espressione impaurita.

    Martin disse: Qui è successo qualcosa di molto serio che non comprendiamo bene; francamente, non mi sembra il caso di scherzarci sopra.

    Raccontò il fatto del dottor Feibela e Lucy impallidì ancora di più. Inutile dire che, dopo aver girato per gli uffici vicini, i due ebbero la conferma che tutti avevano vissuto lo stesso episodio: solo le lingue potevano essere di volta in volta differenti e regolarmente si trattava della lingua più sentita da ogni persona.

    Martin decise di telefonare a suo padre: seppe così che era successo anche a lui. Pregò suo padre di chiamare a  Venezia suo fratello Paolo, zio di Martin, dirigente della Biblioteca Querini Stampalia.

    Si venne a sapere che era successo anche allo zio, ma alle dieci di sera: in entrambi i casi si trattava della stessa ora di Greenwich.

    In Italia il fenomeno era successo il 6 luglio 2043 alle dieci di sera. Il messaggio era lo stesso. Pertanto, tenuto conto dell’ora legale, si poteva attribuire al fenomeno un tempo unico: era successo alle venti del 6 luglio 2043, ora di Greenwich, ora della Terra.

    Martin improvvisamente pensò che potesse trattarsi di qualche nuova, pericolosa arma e pertanto si precipitò da uno dei suoi superiori, il dottor Mitchell, coordinatore dell’Anti-terrorismo al Palazzo di Vetro.

    Legem brevem esse oportet, quo facilius ab imperitis teneatur.

    (Occorre che la legge sia breve, in modo che l’inesperto possa comprenderla facilmente).

    Seneca (filosofo latino, 4 a.C. - 65 d.C.), Lettere a Lucilio, 94, 38.

    New York, 7 luglio 2043.

    Entrato negli uffici dell’Anti-terrorismo, Martin chiese subito del dottor Mitchell: mentre parlava, si rese conto che l’atmosfera non era delle migliori.

    Tutti andavano e venivano velocissimi, con documenti in mano e con un fare concitato, quasi febbrile.

    Disse al primo incontrato di voler parlare con Mitchell: ricevette una risposta sgarbata e non troppo chiara, dal tono della quale si capiva che non era quello il momento per chiedere del capo.

    Subito dopo, a Martin fu evidente che la notizia delle quattro di notte era già conosciuta da tutti e che la stessa aveva destato scalpore e preoccupazione.

    Comunque, la situazione in quel momento era che all’Onu il messaggio non era stato ben capito o meglio non interessava molto, perché era considerato un ballon d’essai¹¹, un tentativo qualunque senza senso: si riteneva che il vero scopo fosse di testare una nuova arma terribile e il vero pericolo era quindi il significante e non il significato.

    L’arma sembrava aver raggiunto tutti gli esseri umani nello stesso preciso istante.  Si riteneva che entro ventiquattro ore tutti gli altissimi esponenti mondiali avrebbero cominciato ad approfondire l’argomento.

    Martin era molto perplesso: il contenuto del messaggio non era stato nemmeno considerato e i responsabili dell’Anti-terrorismo all’Onu avevano dato maggior importanza al fatto che il messaggio fosse stato inoltrato simultaneamente in tutti i cervelli del mondo.

    Se fosse stato così, pensava Martin, il messaggio sarebbe potuto essere stato anche un semplice Ciao! o una cosa qualunque.

    In tal caso, i terroristi avrebbero potuto scoprire l’efficacia del sistema: tutti ne avrebbero parlato per il mal di testa eccetera.

    Invece si trattava di un messaggio lungo e complesso, anche se ancora poco chiaro.

    Non poteva pertanto trattarsi di uno scritto qualsiasi e, ricordando che il Messaggio gli era sembrato una specie di proclama, costituzione o forse ultimatum, decise di approfondire l’analisi dello stesso.

    Tornò nel suo ufficio ed espose a Lucy l’opinione prevalente negli uffici dell’Anti-terrorismo e la sua personale, completamente diversa.

    Lucy disse: Lasciamo che Mitchell e i suoi seguano la loro strada e speriamo che trovino qualcosa; nel frattempo, mi sembra opportuno seguire la tua idea: analizzare il messaggio in profondità.

    Non aveva ancora finito la frase che al telefono si fece vivo Jean Patron, amico di Martin, francese, legale della sua ambasciata all’Onu.

    Jean esordì andando al sodo: Ciao Martin, saprai del messaggio, ovviamente.

    Martin: Sì... sì...

    Jean: Bene, vorrei esaminarlo assieme a te e, se non hai niente in contrario, verrei a trovarti subito; ho avuto ordine di riferire tutto quello che verrò a sapere ai servizi segreti di Parigi: posso venire?

    Martin: Sì, vieni pure subitissimo e pensò come i francesi si stessero dimostrando molto rapidi e meglio indirizzati di quanto lo fossero gli americani al Palazzo di Vetro.

    Dopo dieci minuti, Jean Patron entrò nell’ufficio di Martin, lanciando, con fare perplesso, un foglio sul tavolo.

    Il testo del Messaggio.

    A tutti gli esseri umani del pianeta Terra:

    Dal 22 luglio 1969, la Terra è annoverata tra i pianeti che possiedono una specie capace di viaggi interplanetari. Questo comporta la qualifica di Pianeta con Civiltà.

    Si rendono pertanto necessarie alcune modificazioni per adattare gli esseri umani al loro inserimento nelle eventuali Assemblee Intergalattiche future.

    Come conseguenza di quanto comunicato e contemporaneamente alla ricezione da parte degli esseri umani di questo messaggio, un particolare gruppo di neuroni cerebrali è già stato modificato. Tali neuroni avranno la denominazione convenzionale di Codice di Sincerità.

    Il Codice di Sincerità corrisponderà allo stato di vero se l’essere umano sarà in totale buona fede nei confronti dei suoi simili, altrimenti corrisponderà allo stato di falso.

    La decisione sarà presa, in modo completamente autonomo, da alcuni circuiti sinaptici collegati con i neuroni suddetti.

    Il Codice sarà posto nello stato di falso quando un essere umano, in mala fede, si comporterà in modo da nuocere anche ad un solo suo simile.

    Il processo avverrà per auto-attivazione e senza possibilità di errore.

    A titolo di maggiore delucidazione, sarà considerato inoltre come comportamento nocivo per l’Altro: ritenere il proprio sesso o la propria razza come privilegiati rispetto all’Altro; perseguire l’Altro per motivi religiosi.

    In casi dubbi, il sistema autonomo ed autoregolato porrà il Codice di Sincerità nello stato di falso.

    Il singolo paese, pur se considerato sovrano, non potrà applicare leggi che vadano contro i punti precedenti.

    Nelle leggi dei vari paesi dovrà essere inoltre fatta esplicita menzione circa le parità di razza,

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