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L'Imam di Torino
L'Imam di Torino
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L'Imam di Torino

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SINOSSI : L’Imam di Torino

Le vicende qui narrate, riferite ad un episodio della guerra al terrorismo, sviluppano pensieri e immagini rappresentative della nostra società, dei problemi che angosciano ed esasperano la vita delle nazioni e di quasi tutte le popolazioni mondiali.
I personaggi principali coinvolti in questa storia appartengono al mondo dei servizi segreti.
Gli americani, dopo il crollo delle Torri Gemelle di New York, avevano assunto d’autorità il predominio della guerra ad Al Qaeda con l’adesione, non sempre convinta dei loro partner europei.
Il libro racconta la storia di un evento che coinvolge la Cia e il Mossad, uno dei partner più fidati, alle imposizioni americane e vari altri servizi segreti europei più riluttanti alle scelte e prescrizioni della Cia.
Combattono tutti per gli stessi ideali e contro i medesimi nemici ma sono spesso divisi sui metodi e sui mezzi migliori per combattere il terrorismo.
Il corso delle azioni dei protagonisti si svolge in luoghi lontani l’uno dall’altro e tutti gli avvenimenti si susseguono attraversando paesi dissimili, dalla Norvegia alla Russia, da Israele all’Afganistan per confluire in centri concentrici all’epilogo nella città di Torino.
LanguageItaliano
Release dateJul 29, 2014
ISBN9786050309447
L'Imam di Torino

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    L'Imam di Torino - Siegfried Futterlieb

    reale.

    Capitolo 1

    Non era più consentito sbagliare! Dai massimi livelli dell’agenzia giungevano messaggi inequivocabilmente chiari. Gli sbagli, gli errori commessi e archiviati negli ultimi anni, non saranno più tollerati.

    Per Michael Bakken erano considerazioni amare. Riflessioni che, dopo ventidue anni d’irreprensibile servizio gli procuravano profondo malumore e intensi mal di testa.

    Questo significava, fra l’altro, doversi occupare, in prima persona, di atti e pratiche che, nei tempi andati, avrebbe certamente delegato ad altri. Nel clima di tensione che stava vivendo la Cia, nessuno ormai si fidava di nessuno.

    I tempi erano cambiati e non in senso positivo.

    Il mestiere che aveva scelto racchiudeva un significato essenziale. Sapere che la propria attività era indispensabile per il bene del proprio paese. Essere consapevole che le azioni, spesso immorali o disoneste che il lavoro richiedeva avevano sempre una motivazione, una giustificazione, se non altro professionalmente etica, verso la propria patria. Un buon agente non doveva essere un robot, era un uomo come gli altri con delle idee, una fede, degli impulsi, delle emozioni e degli stimoli. La professionalità, l’addestramento e la disciplina servivano poi a controbilanciare possibili dubbi e perplessità sull’operato che il mestiere richiedeva.

    Un agente, specialmente quelli che avevano vissuto sul campo, metteva a repentaglio di continuo la propria vita. Non era possibile farlo senza un profondo convincimento non solo delle proprie idee ma anche, e soprattutto, di quello che si definiva la ragione di stato !

    Adesso a cinquanta anni appena compiuti, aveva qualche perplessità, un po' d’incertezze, molte riserve mentali e questa frustrazione lo turbava profondamente.

    Aveva da portare a termine molte pratiche, prima della partenza, e i pensieri e il malumore non favorivano la sua concentrazione.

    Chiamò il suo assistente e si tuffarono nel disbrigo di tutti gli impegni in sospeso.

    Il suo aiutante era giovane e molto promettente. Proveniva, con ottimi voti, da una delle più prestigiose università americane. Ingegnoso, intelligente capace, pieno d’entusiasmo per un mestiere che lo attirava fortemente, ma di cui era, in pratica, a digiuno. Il suo nome era George Allee e proveniva da un’ottima famiglia di Tallahassee nel profondo Sud degli Stati Uniti.

    Anche il suo aiutante era un effetto, una conseguenza delle nuove politiche del Bureau che costringeva funzionari di alto livello ad avere costantemente al loro fianco un sostituto che potesse subentrare nel corso di azioni sul campo. Era una delle tante baggianate, a parere di Bakken, ideate da gente che non aveva mai vissuto veramente la vita di un agente.

    Cinque ore dopo, era già l’imbrunire, una limousine di servizio, con i vetri scuri, varcava i cancelli di Langley, in direzione dell’aeroporto Dulles di Washington con bordo l’agente Michael Bakken e il suo giovane assistente George Allee.

    Il percorso fra la sede della Cia e l’aeroporto internazionale Dulles era breve e con traffico normale non richiedeva più di mezz’ora. Quella sera, con il ritorno dei pendolari alle loro residenze di periferia, ci misero più di un’ora.

    L’auto, prima di imboccare la sopraelevata che conduceva al Terminal delle partenze, si spostò a destra in una carreggiata laterale. A ottocento metri, un cancello tracciava i confini dell’area aeroportuale. Il controllo al posto di blocco, accurato e rapido, autorizzò la vettura all’ingresso. Procedendo lentamente fra magazzini, capannoni e hangar, la limousine si mosse verso una pista secondaria, dove erano parcheggiati diversi aerei di piccole e medie dimensioni.

    Il Lear Jet 60 era nell’area di area di servizio pronto al decollo.

    Michael avrebbe preferito l’utilizzo di un volo di linea. La sua posizione e il suo rango lo autorizzavano a viaggiare in prima classe. La durata del viaggio, per la loro destinazione era di dieci ore e venti minuti. Avrebbe potuto gustare un ottimo pasto, bere eccellente vino e riposare in una comoda poltrona letto. All’opposto doveva sorbirsi quasi dodici ore di volo, senza molte comodità, con cibo precotto, dividendo il limitato spazio disponibile con il suo giovane assistente. Anche queste erano le nuove regole della casa. La segretezza diventata paranoia. Gli era capitato di non uscire da Langley per settimane, dormendo in un locale attrezzato per le emergenze, attiguo al suo ufficio. Fra le varie cautele andava di moda l’utilizzo di macchine dai vetri oscurati e il volo su piccoli jet di proprietà e con piloti della Cia. Nessuno, al massimo pochi, dovevano sapere i suoi spostamenti.

    Il Lear Jet 60 era un aereo di medie prestazioni ma che i tecnici avevano notevolmente migliorato sia nella velocità di crociera, sia nell’insonorizzazione e soprattutto nel raggio di azione.

    Il volo che stavano per compiere li doveva portare in Israele. Per un aereo quale il loro era indispensabile uno scalo e, nel piano di volo, la sosta prevista era a Ponta Delgada, sull’isola di San Miguel, nelle Azzorre. Avrebbero poi percorso il tratto più lungo attraversando il Mediterraneo fino all’aeroporto Dov Hoz di Tel Aviv.

    Nessuna formalità per l’imbarco. L’autista aveva consegnato i bagagli a uno dei due piloti.

    A loro spettava solo uscire dalla vettura, salire i pochi gradini delle scale retrattili dell’aereo, chiudere il portello. Pochi minuti dopo il Lear Jet era già sulla pista di rullaggio in coda a grandi aerei di linea.

    Venti minuti dopo osservavano le luci di Washington nel crepuscolo della sera.

    Michael non aveva appetito, ma il suo compagno sembrava averne a sufficienza per entrambi. Spettava a lui darsi da fare e s’improvvisò steward apparecchiando la tavola, fra le loro due poltrone, e saccheggiando il contenuto delle provviste cibarie a bordo. Michael lo osservava con benevolenza. Era pieno di brio, d’entusiasmo, di buona volontà, di fede nel lavoro che aveva scelto, desideroso di piacere e di essere utile. In un certo senso gli rassomigliava, gli ricordava la sua giovinezza, anche se lui era, e sempre lo era stato, un introverso, mentre George era del tutto aperto ed espansivo.

    Consumato il loro frugale pasto ritennero che la faticosa giornata passata e le prossime lunghe ore di volo meritassero un bicchiere di buon whiskey. Michael scelse il suo solito Jack Daniels con ghiaccio e George uno scotch di puro malto.

    Iniziava a sentire la stanchezza di una giornata densa di lavoro e non era nell’umore giusto per incoraggiare la conversazione del suo collaboratore. Aveva voglia di riposare e rilassarsi.

    Il pilota venne a riferire sulle condizioni e previsioni del volo. Tempo ottimo sia sulle Azzorre sia sul resto dell’atlantico. Avrebbero trovato nubi sul Mediterraneo ma ad altezze più basse della loro quota di volo. Mancavano ancora due ore circa all’atterraggio a Ponta Delgado aeroporto di Tordela, dove avrebbero fatto il pieno di carburante utile ad arrivare in Israele. Ringraziò il pilota che tornò in cabina di pilotaggio.

    Sulla comoda poltrona di fronte George sembrava sonnecchiare. Anche lui chiuse gli occhi e il silenzio s’impadronì dell’abitacolo.

    Il rumore dei due jet, pur attutiti dai lavori d’isolamento acustico, gli impedivano di allentare la tensione della giornata e la leggera ansia che provava sempre all’inizio di un’operazione.

    In quello stato d’animo spesso trovava piacere e conforto nel ricordare il suo passato, soprattutto il periodo felice della sua vita, quello della spensieratezza, della gioventù, dei luoghi dove era cresciuto.

    Nessuno lo avrebbe mai capito. I luoghi che ricordava con maggior piacere erano regioni che venivano per lo più considerate, da tutti, come tristi, sperdute, isolate, con un clima pessimo e inverni bui con poche ore di tenue chiarore.

    Così si presentava Andenes, un villaggio di circa 5.500 abitanti situato a 300 chilometri a nord del Circolo Polare Artico dove la sua famiglia si era trasferita.

    Suo padre, Jan Anderssen Bakken, figlio di agiati contadini di Tromso, si era trasferito in America a diciotto anni, nel 1948, subito dopo la fine dell’ultima guerra e dell’occupazione nazista in Norvegia. In America aveva studiato, si era laureato e aveva ottenuto il brevetto di operatore radar unitamente alla nazionalità americana.

    Nel 1965 era stato assunto, da civile, con un contratto a termine, dall’esercito degli Stati Uniti e inviato, sia per le sue capacità tecniche sia per le sue origini e conoscenza della lingua, nella base Nato di Andoya, l’isola più settentrionale delle Vesteralen.

    Michael aveva nove anni, quando giunse in Norvegia. Per un breve periodo la famiglia visse all’interno della base americana. Molti nuclei familiari avevano bambini ed era stata predisposta una struttura scolastica, basata sul sistema d’insegnamento specificatamente americano.

    Sua madre, nata ad Aberdeen in Scozia, aveva conosciuto suo padre all’università di Chicago dove entrambi studiavano. Era una donna volitiva, coraggiosa, schietta, con idee moderne e una mentalità aperta. Al suo arrivo ad Andoya prese una decisione ardita. Dovevano vivere presumibilmente molti anni in Norvegia e non potevano e non dovevano viverli da estranei. Primo passo fu il trasloco dalla base militare al vicino villaggio di Andenes. Poi la scelta di un’insegnante locale che per diverse ore quotidianamente dava loro lezioni di norvegese. Dopo soli due mesi Michael andava nella scuola del paese con i suoi coetanei norvegesi.

    La maggior parte delle famiglie americane della base entravano in crisi dopo pochi mesi dall’arrivo nella base di Andoya. I mariti erano impegnati, con turni massacranti, spesso di ventiquattro ore continuate. Rientrati alle loro case erano stanchi e l’unico desiderio era di riposare e dormire.

    La base ospitava una flotta di aerei Orion P3 da ricognizione. Quattro motori a elica e forme aerodinamiche particolari. L’interno di ogni aereo era un concentrato di tecnologia dell’ultima generazione. Unico scopo della base era la caccia ai sottomarini, alle navi, ai pescherecci russi che transitavano dall’oceano artico, partendo dalle basi di Murmansk e Arhangel’sk, al mare di Norvegia dirette nell’oceano atlantico.

    Nulla doveva passare per quei mari senza che la Nato e l’America ne fossero informati in tempo reale. Gli aerei volavano con qualsiasi tempo e nelle condizioni più avverse. I piloti e tutti gli operatori radar e i tecnici elettronici che lavoravano a bordo, dovevano necessariamente possedere resistenza fisica, coraggio e capacità di sopportazione. Le condizioni meteo erano, soprattutto d’inverno, spesso proibitive. Specialmente fra i piloti era di fatto necessario un continuo avvicendamento.

    L’unico svago per le mogli era la crescita dei figli. Alcune coppie non ne avevano ed erano fra le prime a entrare in crisi.

    Il paese copriva un’area piuttosto estesa, con case molto tipiche, colorate di toni sgargianti, dall’azzurro, al giallo, al verde.

    Il centro di Andenes era piuttosto delimitato. La via principale si snodava dritta per circa due chilometri per sfociare su una piazza con vista sul porto. Nel centro del piazzale il monumento ai pescatori scomparsi in mare. Tutto attorno e negli ultimi ottocento metri della via principale la variegata e completa attività commerciale del villaggio. Due banche, un supermercato, una società assicurativa, un albergo, l’autorevole edificio

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