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Vendo Onori
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Ebook113 pages1 hour

Vendo Onori

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Dopo Terza Repubblica, Alberto Attolini ritorna raccontando la storia di Gaudio e del suo mestiere insolito: venditore di vanità e status sociale. Un dispensatore di felicità attorno al quale si muove una serie di personaggi improbabili ed esilaranti.
LanguageItaliano
Release dateJul 28, 2014
ISBN9786050315097
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    Vendo Onori - Alberto Attolini

    Alberto Attolini

    Vendo Onori

    Avvertenza

    Tutto quel che è scritto in queste pagine è unicamente frutto della fantasia dell’autore. Pertanto ogni riferimento diretto o indiretto a persone realmente esistenti o a fatti realmente accaduti è da ritenersi assolutamente casuale. Si specifica, infine, che l’immagine di copertina, una cromolitografia francese di metà Ottocento, riproduce le insegne di Ordini legittimi, per nulla assimilabili a quelli oggetto di satira in questo libro, che – si ribadisce – sono invenzione dell’autore.

    I

    Piacere, mi chiamo Gaudio. Beh, cosa c’è di strano? In fin dei conti è un nome come un altro... Certo, non comunissimo, però ha il pregio di restare impresso nella memoria.

    Il mio destino era stato scritto dai miei fratelli: quattro e tutti maschi. Papà e mamma desideravano una femmina a tal punto che – quando lei si scoprì nuovamente in stato interessante –  non presero neppure in considerazione l’ipotesi di avere un altro maschio. Pensarono i più bei nomi da ragazza e, dopo lunghe cernite, scelsero Letizia. Erano così convinti di avere in arrivo una bimba che non vollero neanche sapere il sesso del nascituro. Il giorno del parto fu una sorpresa per tutti: Letizia ero io, un maschietto! Colti così, sui due piedi, papà e mamma fecero già tanto a rendersi conto che, come nome, Letizia proprio non andava... A furia di pensare a Letizia, infatti, non avevano riserve. L’unica soluzione possibile fu virilizzare il nome scelto, volgendolo in Gaudio. Io, al momento, non ebbi nulla da obiettare, anzi, obnubilato da coccole e latte materno rimasi decisamente soddisfatto. Per qualche anno tutto filò via liscio.

    Il dramma venne dopo. Man mano che crescevo mal sopportavo di essere preso in giro da compagni di giochi e adulti per colpa di quell’accidente di nome impostomi in un momento di smarrimento generale. Fortunatamente, però, me ne feci presto una ragione e imparai a portarlo a spasso, convenendo molto saggiamente che, in una terra popolata da schiere di Iames, Iller, Viller, Vilson, Vainer e Viliam, c’era posto anche per me.

    A scuola non brillavo esageratamente, ma non ero neppure un somaro. Mi piaceva la storia. Che bello il Medioevo, con quei cavalieri coraggiosi, con le dame svelte di coscia, con i buffoni di corte, le corazze, gli scudi, i paggi, i tornei... Quanto mi affascinavano quei re terribili! Me li immaginavo costantemente appollaiati – scusate, assisi – sul trono con in testa la corona, in mano lo scettro, sulle spalle il manto d’ermellino, la barba fluente e curata. Tutto il giorno lì a somministrare saggezza, magari consigliati da quei sant’uomini dei vescovi. A quell’epoca l’idea di un monarca perseguitato dalle emorroidi mi pareva blasfema. Il mio pallino era proprio diventare un gentiluomo, emergere dal mio sostrato familiare plebeo. Un papa affermò pubblicamente di non essere conte ma contadino. Io avrei affermato, un giorno, il contrario.

    Non penso di essere il solo ad aver coltivato questo genere di ambizioni. Se l’Italia è repubblicana, gli italiani sono decisamente monarchici, anzi, feudali. Tutti quelli che di cognome fanno Conti, Baroni, Marchesi o Nobili, sono aristocratici ipso iure. Se uno ha la ventura di chiamarsi Savoia è senz’altro parente della casa reale. Se, poi, sommiamo tutte le nonne contesse che abbiamo sentito nominare dai nipoti, dovremo convenire che in Italia la plebe fu introdotta in occasione del mutamento istituzionale del 1946.

    Accanto alla nobiltà di sangue, esiste quella di portafoglio. Al giorno d’oggi l’idraulico o il muratore possiedono automobili e case che un notaio stenterebbe a sognare. L’elettricista ha la segretaria che parla cinque lingue, mentre il carrozziere può permettersi l’autista. Figuriamoci gli industriali! Un sospiro da casa Agnelli pesa più di una risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu. È ovvio che chi può cerchi di emergere, anche facendo leva su casi di omonimia. Se per caso conoscete un Moretti, state certi che vi dirà di essere parente di quelli della birra. E non parliamo dei Moratti! Questa uguaglianza di nome è ancora più appetibile: poiché un ramo di questa dinastia petrolifera è dichiaratamente di sinistra, la consanguineità diventa oltremodo intrigante e chic.

    Il feudalesimo italiano si vede anche nel campo delle professioni. A fronte delle caste italiche, l’India pare una nazione di improvvisati dilettanti. Dimmi chi è tuo padre e ti dirò chi sarai. Si tramandano di padre in figlio non solo i mestieri per dir così privati, quali l’avvocato, il dentista, l’industriale o l’artigiano, ma anche i posti da dipendente, gli impieghi pubblici e finanche le cariche elettive! Non ci credete? Provate un po’ a vedere con che frequenza si ripetono i cognomi tra le diverse generazioni di medici ospedalieri, di professori universitari, di notai, di parlamentari. Del resto è naturale: il padre pensa sempre ai propri figlioli. Fa un po’ incazzare il fatto di dover digiunare mentre gli altri sbafano anche la tua razione, però – prima o poi – ci si abitua.

    Di fronte a tanta aristocrazia, di sangue o di portafoglio, io mi trovavo nudo, non avendo né l’una né l’altra. La mia nobiltà era quella dell’animo. Vita retta, sani principi, rifuggire atteggiamenti sconvenienti, esser sempre misurato, neutro, cortese con tutti, non elevarmi mai, stare al mio posto, non ostentare la mia cultura. Le ricchezze vere, come diceva Seneca, erano per me quelle che si sarebbero salvate da un naufragio. Questi erano i miei imperativi in gioventù. Povero coglione!

    * * *

    Un altro mio pallino era il giornalismo, cosa che mi spinse a iscrivermi a giurisprudenza (inutile che vi chiediate cosa c’entri: dal momento che è stata la facoltà frequentata da tanti giornalisti famosi, qualcosa c’entrerà per forza). Già mi vedevo nel molteplice ruolo di avvocato, giornalista e storico, nobilitato dal sovrano. Ancora non mi rendevo conto di aver sbagliato epoca. Il mio ideale di dotto apparteneva indubbiamente ai secoli passati, quando tale categoria non era inflazionata e poteva permettersi il lusso di fare un po’ di tutto senza sentirsi dare del cialtrone. Al giorno d’oggi, a dire il vero, malgrado la forte settorialità che pervade ogni ambito, tali uomini d’eccezione non mancano. Purtroppo, tuttavia, il poliedrico gentiluomo, versato in tutti i campi dello scibile umano, che dopo aver tenuto una lezione all’università, gioca una partita di tennis, prima di prender parte a una riunione del consiglio d’amministrazione di un’importante industria, per poi cenare con qualche prelato discutendo di filosofia, previo passaggio tra le lenzuola di una modella, è uno standard difficilmente raggiungibile dall’uomo comune. C’è chi incarna questo ideale, non lo nego, ma si tratta di persone che hanno ereditato fortune immense dai genitori e che, grazie a queste, troveranno a fatica qualcuno così franco da dir loro, nell’ordine: che in cattedra ragliano come somari al pascolo, che giocano a tennis come se andassero a farfalle, che di economia aziendale e filosofia non capiscono un accidente e che oltre essere brutti, a letto fanno pure schifo. Ma queste sono riflessioni di un uomo ormai maturo e disincantato. In quei giorni di grandi speranze mi cullavo nei dolci sogni, disprezzando i miei fratelli che si laureavano in ingegneria, giravano in jeans e venivano contesi dalle multinazionali.

    Dell’università mi piaceva il mondo scanzonato degli studenti, la goliardia. Un esempio? Potrei farvene a bizzeffe!

    Prima dell’avvento dell’informatica (o per meglio dire: prima che l’informatica fosse adottata anche dalla pubblica amministrazione italiana, che – com’è noto – è in ritardo di almeno trent’anni rispetto al resto del mondo) le liste per l’iscrizione agli esami erano cartacee e venivano compilate per mezzo dei bidelli. Ciò presupponeva che il candidato si rivolgesse a questi custodi del sacro soglio universitario, magari mostrando il libretto, chiedendo umilmente che il proprio nome venisse vergato sulla lista. Era un modo innocuo di ricevere iscrizioni, ma presupponeva la cortese disponibilità del personale non docente. Poiché detto personale è sempre preso da mille impegni, che non sono certo il tener dietro agli amletici dubbi esistenziali di un migliaio di mammalucchi («mi iscriva, anzi, no, mi cancelli... vado all’appello successivo, o forse è meglio tentare questo?»), si pensò di affidare questi elenchi agli studenti, in modo che si sbrigassero da soli. Le liste d’iscrizione fecero quindi la loro trionfale comparsa nelle bacheche degli istituti o dei grandi corridoi, in totale balia di qualsivoglia malintenzionato.

    Fu così che i mariuoli nacquero e prosperarono, al punto da trasformare un innocuo e puerile divertimento in una vera e propria tradizione: l’iscrizione apocrifa. Questa può essere del tutto fantastica oppure legata alla realtà. I nomi di fantasia appartengono a due filoni: il nonsense puro e semplice (ad esempio Ceronte Rino) o gli intramontabili doppi sensi (si ricordino i mitici Gustavo Lapassera, Teodoro Lascella e Lalavo Domenica). I nomi legati alla realtà vengono generalmente attinti dalla cronaca. Tale tipo di iscrizione non richiede molto estro,

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