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Lux Thesaurum
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Lux Thesaurum

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Il filo del destino reale e leggendario lega tra di loro due tra i più ricercati tesori della storia: l’arca dell’Alleanza e l’oro di Alarico, il re barbaro che mise a ferro e fuoco la città dei Cesari. A partire da alcune chiese di Venezia, erette da un santo nel pieno delle invasioni dei Longobardi, tra scoperte e tracce da decifrare, un gruppo di strani studiosi raggiungono Roma e Cosenza, inseguiti dai membri di una organizzazione votata al male.
LanguageItaliano
Release dateJul 28, 2014
ISBN9786050315141
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    Lux Thesaurum - Marco De Paolis

    Ringraziamenti

    Prologo

    Sic alii, quos experiendo, maxima rerum visere jam dequit summo quaesita labore,

    angustum per iter,

    recto de tramite nunquam qua prius ingressi declinavere,

    nec ante desinere optarunt,

    licuit quam tangere laetis taandem exoptatum longo post tempore finem.

    Ioannis Aurelii Augurelli P. Ariminensis, 1518

    Prologo

    L’ultimo eco dei rintocchi dell’Ave Maria si era smarrito tra i declivi delle colline, lasciando il posto ai primi timidi sussurri dell’imbrunire, quando la non più giovane, ma sempre arzilla signora si sporse ancora una volta su una delle due finestre, che s’affacciavano sul lato illuminato della stradina.

    Erano passati molti anni dall’ultima volta, che aveva visto quel villino di periferia prendere vita, scacciando i fantasmi di un lontano passato.

    I suoi ricordi sul precedente proprietario erano ancora vividi. Possedevano quasi una consistenza fisica: poco più di un cinquantenne, con tutte quante le sue cosine al posto giusto. Una persona molto riservata, ma educata a suo modo. Non aveva mai cercato di stringere rapporti con lei. Ma ogni qual volta si erano ritrovati faccia a faccia, era stato sempre lui a rivolgergli per primo la parola con un buon giorno o buona sera, magari accompagnata da un generoso cenno della mano.

    Fu in una di quelle occasioni, che si accorse dell’anello all’anulare sinistro. Era sposato, forse vedovo. Si, doveva per forza di cose essere vedovo. La moglie non l’aveva mai vista. D’altra parte, non aveva mai visto un donna raggiungerlo in quelle lunghe notti, per cui non vi erano dubbi sul fatto che fosse vedovo. Una volta ogni tanto gli faceva visita un giovane ragazzo. Il taglio degli occhi, i lineamenti del viso, comprese alcune rughe sulla fronte accennavano di una sua qualche parentela. Forse era il figlio. Anch’esso era educato e molto discreto.

    Oltre a queste poche cose, non sapeva molto di lui. Il suo lavoro doveva essere di una certa importanza, poiché era sempre ben vestito, con tanto di doppiopetto e cravatta, sempre abbinata al colore dell’abito. E che dire della sua automobile. Era bella, alta e grande, di color blu metallizzato e con i finestrini scuri, come quelle che sfrecciavano nelle serie poliziesche americane, che lei tanto amava vedere alla televisione in prima e seconda serata.

    Il signore rimaneva fuori l’intera settimana, per farvi rientro il venerdì sera, più o meno all’ora di cena. Ripartiva il lunedì mattina, quando il sole era ben alto sull’orizzonte. Era qualcuno che contava. Ne era più che certa. Solo poche persone potevano permettersi un simile stile di vita. E lui era sicuramente tra quelle.

    Questo andirivieni durò per un paio di anni, poi la sua presenza divenne sempre meno assidua, fino a quando scomparve di punto in bianco, come se non fosse mai esistito.

    Da quel momento la vita del villino perse anche quel poco di vitalità, declassandolo alla condizione di semplice elemento del paesaggio. Gli unici alti e bassi erano determinati, soprattutto in primavera e in estate, nel momento in cui faceva la sua breve comparsa un giardiniere a sistemare le piante e i fiori del giardino. Altre volte, un’impresa di pulizie si preoccupava di accendere al minimo la caldaia in inverno, per salvaguardarne la salubrità degli interni; mentre nella buona stagione spalancavano porte e finestre, facendovi entrare il tepore dei raggi del sole.

    La vita mediocre del villino era andata avanti così per lunghi anni, interrompendosi qualche settimana addietro, con l’arrivo di un tizio, poco più di un ragazzo, che aveva stravolto la monotonia delle sere e, soprattutto, delle notti. Il più delle volte arrivava a casa alticcio, forse strafatto di quelle sostanze tanto di moda tra i giovani. Non c’era sera che lasciasse sulla macchina o sul cancello l’ennesimo segno dello stordimento.

    Si ricordava ancora di quella notte che venne svegliata di soprassalto da un frastuono proveniente dalla strada. In preda ai fumi di chissà che cosa, il ragazzo non si era accorto dei bidoni dell’immondizia lungo il ciglio della strada. Manco farlo a posta li colpì tutti, scaraventandoli per una decina di metri lungo la strada e i viottoli circostanti.

    Stanca di questo andazzo e con la certezza in mano che il suo nome non sarebbe mai venuto fuori, la donna chiamò chi di dovere, con l’unico risultato di fare la notte in bianco, aspettando una pattuglia che non si fece vedere.

    L’apice avveniva in piena notte, verso le due o le tre della mattina, con la comparsa di determinate donne, sempre in coppia, che nulla facevano per nascondere la pratica del mestiere più antico del mondo. Si portavano nel grande soggiorno dalle ampie vetrate, dal quale si poteva osservare ogni cosa, nei minimi particolari. L’uomo aveva dei gusti piuttosto strani in fatto di erotismo. Si masturbava osservando le due donne che facevano sesso saffico, poi mentre erano avvinghiate l’una coll’altra gli si poneva dietro, per poi entrare in loro selvaggiamente.

    Lei era una donna timorata di Dio. Ma si ritrovò a peccare con il pensiero. Avrebbe dannato l’anima per l’eternità se solo il demonio gli si fosse presentato davanti, concedendogli il rifiorire della perduta giovinezza. In breve tempo, la passione, che non trovava uno sfogo, si trasformò, divenendo invidia, con delle punte di vero odio.

    Questo stato di cose andò avanti per molte settimane e finì qualche giorno addietro, allorché comparvero due uomini tarchiati per bene, che incutevano un certo che di timore. Questi possedevano il telecomando del cancello, lo aprirono e vi parcheggiarono l’auto nella piazzola sul giardino. Un paio di ore dopo, fecero il loro arrivo altre tre vetture. Da quel momento in avanti, il depravato non si fece più vedere. Sparì anche lui.

    Quella casa non aveva mai visto tutte quelle persone insieme, raccolte tra le sue mura. La donna s’incuriosì molto di ciò, ma per quanto si nascondesse tra le pieghe delle tende aveva sempre il timore di essere scorta. Non voleva passare per una ficcanaso. Non lo era, indubbiamente. Era semplicemente attirata dalle novità che si verificavano davanti a lei e quella lo era senza dubbio.

    La cosa che la stuzzicò fino a creargli una vera e propria ossessione, fu il loro comportamento tenuto durante la giornata, che lei considerò piuttosto anomalo, se non bizzarro. Tanto che più di qualche volta si ritrovò a mangiare in piedi con tanto di piatto in mano, che fosse di giorno o di sera, dietro alla tenda, che divenne in quei giorni una sorta di seconda pelle.

    Nessuna donna e tutti quei maschi insieme. Doveva esserci qualcosa di strano. Uscivano presto alla mattina e vi facevano ritorno alla sera. Si radunavano nella grande stanza da pranzo e vi rimanevano fino a notte tarda. Con la mente rivolta al precedente inquilino, una sera peccò nuovamente, pensando a quanto ben di Dio sprecato tra quelle mura. Gli anni erano passati, anche nel corpo, ma le pulsioni di una donna vera, che aveva saputo gioire nel corso della vita, erano difficili da contenere.

    Un giovedì sera inoltrato, ormai un venerdì mattina, con grande suo disappunto, sulle vetrate della sala apparvero dei tendaggi pesanti, che gli impedirono di osservare la vita che vi si svolgeva al suo interno. Indispettita di ciò, riservò il proprio impegno sulle altre finestre. Ma non gli diedero le stesse soddisfazioni, che le avevano dato ragione dell’impegno degli ultimi giorni.

    Dall’altra parte del viottolo, illuminato dal giallore ambrato dei pochi lampioni, ignari delle discrete attenzioni della dirimpettaia, i nuovi inquilini si erano riuniti in piedi lungo il grande tavolo rustico. Nel silenzio della stanza, il tempo sembrava aver perso la sua consistenza reale. Solo il ticchettio di un orologio da parete dava ragione del suo trascorrere.

    Tutti erano con gli occhi puntati su di un libro, appoggiato sopra un panno rosso nel mezzo della tavola. La legatura monastica in mezza pelle su assicelle di legno e con fermagli metallici ai piatti ne attestava una sicura antichità. Le decorazioni delle iniziali di ogni pagina erano un intreccio di ricchi motivi ornamentali in oro, blu e rosso, mentre le lettere iniziali dei singoli brani erano colorate di rosso e blu. La grafia poteva essere classificata come gotica libraria di sicura area tedesca non anteriore al XIII secolo.

    Alle estremità del piano della tavola era disseminato di fogli, documenti, fotocopie e altro ancora, che avevano raccolto nel corso del loro accurato lavoro.

    Le ore della notte si ridussero a poca cosa nel vagliare sui tempi e le modalità dell’operazione. Nulla doveva essere lasciato al caso e ai suoi imprevedibili scherzi. Avevano grande fiducia in sé stessi e nei loro mezzi; tuttavia, erano anche consapevoli che l’operazione doveva essere curata in ogni minimo dettaglio, se si voleva avere la certezza della sua riuscita.

    Nei giorni precedenti, si erano recati diverse volte in visita alla chiesa del paese e lo fecero nei diversi momenti della giornata, approfittando delle diverse funzioni religiose, che cadenzavano, di ora in ora, i ritmi della vita quotidiana del centro abitato.

    Confusi tra i devoti, poterono studiarla per bene. Vi memorizzarono ogni suo angolo, senza che nessuno potesse sospettare alcunché. Altri, invece, si erano preoccupati di compiere delle ricerche, venendo a capo d’interessanti aspetti della chiesa e delle sue opere d’arte. Tuttavia l’aspetto che diedero più importanza furono i sistemi elettronici di sicurezza, che la proteggevano dalle intrusioni indesiderate. Infine, fecero numerose fotografie e altrettanti filmati, che l’immortalarono nelle diverse ore di luce, dentro e fuori.

    La piazza che gli si apriva davanti fu percorsa in più occasioni, in auto e a piedi, e non tralasciarono di dare la giusta attenzione ai palazzi circostanti, che sembravano cingerla in uno stretto abbraccio. Le vicine vie furono ispezionate per bene, cercando di tenere a mente tutti i crocicchi e le viuzze laterali, che si perdevano velocemente nella ragnatela del borgo collinare.

    Erano coscienti del fatto che ogni precauzione doveva essere tenuta nel giusto conto e che la prudenza non era mai troppa. Si erano cautelati nell’individuare delle vie di fuga sicure, nel caso remoto, ma sempre avverabile, che le cose si fossero messe male.

    Trascritte le varie annotazioni sulla carta, il piano sembrava filare liscio e i pochi ostacoli riscontrati nelle perlustrazioni non apparivano per nulla insormontabili.

    Alla fine, si erano convinti che il piano fosse stato pianificato con i migliori accorgimenti, ma non riuscivano a scrollarsi di dosso un timore, che gli aleggiava attorno dal primo giorno del loro arrivo nella cittadina. L’imponderabile era sempre presente, pronto a scompaginare ogni cosa: a favore o contro.

    Alle prime luci del mattino, il caso scelse di lasciare il suo ruolo di semplice spettatore e di interpretare la parte di primo attore. Apparve nel suo alone misterioso, sotto le sembianze di un violento temporale, comparso dalle vicine cime delle colline, con tuoni e lampi, grandine e persino del nevischio.

    Le nuvole si erano dispiegate sulle vallate come un nervoso volo d’ali e correvano basse per il forte vento, che soffiava rumoreggiante da settentrione. In poco tempo, si erano addensate in un tutt’uno con l’orizzonte, assumendo in un batter di ciglio le diverse colorazioni dei rabbiosi fortunali estivi: dalle sfumature del giallo ambrato erano passate al plumbeo, fino a tingersi di una tinta prossima alla caligine.

    Le nubi e le tenebre sembravano aver sollevato di prepotenza il paese dal verde dei boschi e dal castano scuro dei campi, immergendolo a forza nel più profondo dei mari.

    La temperatura si era abbassata all’istante, crollando di almeno dieci gradi; mentre la pioggia, che si era fatta sentire come una leggera e fitta spruzzata di gocce gelide, ora precipitava rumorosamente sul ciottolato della piazza e sull’asfalto delle strade, generando una soffusa e spessa coltre di nebbia, ingarbugliando negli incerti chiaro scuri i già irreali contorni del paese.

    Alla pioggia battente prese il posto una grandinata, come non si ricordava a memoria di uomo. Nel giro di pochi secondi, le strade e le sommità delle case s’ammantarono di uno strato ghiacciato di almeno due centimetri, conferendo alla vallata l’effetto di un paese d’alta montagna, dopo una copiosa nevicata.

    La violenta tempesta aveva spento i grigi colori della mattina, impastandoli con tutte le possibili sfumature del corvino. Ogni cosa dava la sensazione che sul giorno fosse calata a precipizio la notte, di tanto in tanto, spezzettata dalle nervose e fragorose scariche elettriche dei fulmini.

    Neppure il girotondo delle tante luci gialle e bianche dei lampioni poté nulla di fronte alla repentina discesa dello sfondo cupo e incombente dell’oscurità, rendendole poco più di flebili luci; delle lucciole in un prato bagnato.

    Per quanto fosse stato gradito l’inatteso aiuto delle bizzarrie del tempo, tuttavia la circostanza, che aveva facilitato la scelta del giorno in cui entrare in azione, era stata senz’altro l’assenza dell’anziano, ma sempre energico parroco, don Alberto Da Canelli.

    I tratti marcati e la sua notevole muscolatura tradivano l’asprezza dei luoghi delle sue origini e della fanciullezza. Colpivano le sue rughe scavate in profondità sulla fronte, poiché sembravano rivelare un chissà cosa di antico. Era poco più di un fanciullo quando si presentarono i giorni difficili dello sbarco anglo americano nel sud Italia e della drammatica guerra civile, che ne sarebbe seguita di lì a poco.

    La sua famiglia d’origine non aveva avuto altro mondo che il proprio, fatto di sudore e bestemmie. Piccoli proprietari terrieri, come ricordava spesso lo stesso don Alberto, con un pizzico di malcelato orgoglio. Presto venne colto dalla vocazione, che lo portò qualche anno più tardi a lasciare le sue terre natie, le aspre colline cosentine. Il legame con la terra natale non si affievolì con gli anni e non dimenticò mai le sue origini, anche quando si trovò a ricoprire incarichi di una certa responsabilità. Sapeva chi era e da dove proveniva.

    La gente del paese gli voleva bene, anche perché ogni qual volta qualcuno ne aveva avuto bisogno, lui era sempre stato presente e non solo con la parola giusta al momento giusto.

    Il sacerdote, come era consuetudine fare in questo periodo dell’anno, si era recato in pellegrinaggio a Roma. Era accompagnato da una cinquantina di fedeli, per lo più donne anziane, grate di poter pregare dinanzi ai resti sacri dei martiri custoditi nelle chiese capitoline, ma anche di un sì grande diversivo dalla monotonia di tutti i giorni.

    La sua meta, sin da quando aveva assunto il suo incarico pastorale, era l’antica chiesa di San Lorenzo in Lucina, situata nel cuore della città capitolina, e la grande arcibasilica papale di San Giovanni in Laterano, la madre di tutte le chiese di Roma e del mondo cattolico.

    Il giornale settimanale della diocesi ne aveva dato ampio spazio, dedicandone un intero paginone, anticipando le visite ai luoghi cari al Cristianesimo e, nel contempo, presentando le chiese e i personaggi che vi erano legati. Lo stesso bollettino, inoltre, dava notizia, tra i pochi battesimi e i sempre più decessi, della celebrazione di un matrimonio di due giovani ragazzi di un paese vicino, che si sarebbe svolto nella mattinata. Per cui, anche nell’eventualità della presenza indiscreta del solito curioso che non manca mai, nessuno avrebbe fatto caso alle loro facce, confondendoli nella calca degli invitati al matrimonio.

    Presero tutto il tempo necessario, affinché l’ultima vettura trovasse posto nella sempre più piccola piazza e l’arrivo del solito tiratardi tra le ultime file della chiesa, ormai traboccante di umanità festosa. Solo allora si mossero. Quattro automobili di grossa cilindrata con i vetri oscurati, percorsero la vicina via Merlini, attraverso la quale si apriva il paese: una trama ordinata di mattoni adagiata sui lievi declivi collinari dai vasti lembi boschivi, per lo più di sempreverdi pini silvestri.

    La prima imboccò la strada principale, lasciando alla sua sinistra la chiesa, e raggiunse il vicino parcheggio, fermandosi sul ciglio della strada. La terza proseguì la corsa, zigzagando tra le molte automobili posteggiate a spina di pesce al centro e ai lati della piazza, fino a raggiungere il versante della chiesa, arrestandosi nei pressi dell’angolo più esterno, da cui si aveva la piena visuale delle strade e della stessa piazza. La quarta, invece, prese posizione sotto un grande edificio al lato dello slargo.

    La seconda auto, con il motore in folle e le luci di posizione accese, aspettò che le altre si fossero piazzate e solo allora riprese la sua lenta corsa, fermandosi davanti al colonnato dell’ingresso principale della chiesa.

    Sui sedili posteriori sedevano due uomini. Alla destra, vi era un signore di statura alta, austero dall’aria assai tesa, i cui occhi azzurro grigi illuminavano un volto provato dalle cose della vita. Si percepiva in lui il profumo dell’esperienza tra gli eleganti capelli brizzolati, disordinatamente composti, che segnavano il colore della pelle, sottile e ambrata, ricca di piccole e affascinanti increspature. Le sopracciglia rade, un pizzo ben curato e un portamento decisamente severo comunicavano una fierezza d’altri tempi; uno stato di mal celata nobiltà e una vita trascorsa con emotiva intensità. La sua età era difficile da definirsi, poteva variare tra i sessanta e gli ottanta, ma anche questa valutazione, per quanto ampia, quanto una vita stessa, rimaneva solo una mera supposizione.

    La sua intima identità era rimarcata dagli abiti e dagli accessori, che indossava con raffinata spontaneità. Primeggiava l’alta sartoria artigianale partenopea: camicia di cotone fumé, la cravatta di seta damascata grigio nera, allacciata con il nodo doppio semplice.

    L’abito a tre pezzi grigio perla ne risaltava un fisico asciutto, elegantemente messo in evidenza dalla spalla della giacca alla napoletana. Tra gli accessori si osservavano due semplici gemelli, sui quali vi erano disegnati due draghi neri, e un orologio d’oro massiccio di fattura svizzera.

    L’uomo pigiò un pulsante sulla portiera e il finestrino s’abbassò. Sporse il volto appena fuori e il suo sguardo corse sul sagrato e, compiaciuto dal fatto che non vi fosse anima viva, fissò la propria attenzione sul vicino campanile.

    L’oggetto del suo interesse era la torre campanaria in stile romanico, che era sfuggita solo per la caparbietà degli abitanti all’abbattimento della pieve tardo antica, condannata senza appello dalla furia iconoclasta dei tempi moderni.

    Gli occhi si strinsero in due sottili fessure, mentre la bocca si contorse in una smorfia, delineando un crudele sorriso. L’uomo sembrava ripercorrere con la mente le vicende della torre e della sua chiesa, attraverso lo scorrere di un passato malagevole da determinare.

    La seconda persona, un uomo robusto di media altezza sulla cinquantina, scese velocemente dall’auto. Gli girò intorno e, dopo aver aperto l’altro sportello, si irrigidì, stando quasi sull’attenti, in un chiaro segno di deferenza, quasi marziale. Dischiuse in un attimo l’ombrello, che aveva con sé, e attese la discesa dell’anziano. Nel momento in cui ne fu sceso, l’autovettura riprese a muoversi e si fermò qualche decina di metri più avanti.

    I due uomini si avvicinarono alla chiesa, con passi calmi e cadenzati, quasi li stessero contando. Uno dietro l’altro. Quando gli furono davanti, osservarono l’edificio sacro come l’obiettivo finale, che poteva decidere senza rimedio le sorti di un disegno, tracciato da tempo immemorabile.

    Entrambi rivolsero gli occhi, ancora una volta, ai quattro angoli della piazza e, incoraggiati dalla rassicurante presenza dei complici e confortati dal manto di tenebra così compatto, quasi malleabile, si avviarono con un andatura lievemente dinoccolata verso l’ingresso, gettando di tanto in tanto rapide occhiate alle proprie spalle.

    Risalirono la gradinata ai bordi delle quattro colonne della facciata ottocentesca e si portarono verso la porta laterale di sinistra.

    L’uomo più giovane s’attardò, tentando di chiudere l’ombrello bombo d’acqua. Nel tentativo di riguadagnare i suoi passi, andò a cozzare goffamente sul vaso di una piccola palma. Innervosito di essersi sporcato e, ancor più, imbarazzato per la pessima figura fatta, strattonò violentemente la povera pianta, estirpandola quasi del tutto dalla terra del suo recipiente in terracotta.

    L’anziano gli bloccò il braccio con energia e, guardandolo dritto negli occhi, gli disse con un tono perentorio, che non ammetteva alcuna replica.

    «Non senti i suoi lamenti? La pianta sta soffrendo. Lasciala stare e subito».

    Sul viso dell’altro uomo si stampò una maschera, che non faceva nulla per nascondere il proprio stupore. Tentò di rispondere, ma fu subito interrotto dal vecchio, che lo riprese senza tollerare ulteriori risposte.

    «So benissimo che le mie parole suonano oscure alle tue orecchie, magari suoni senza senso di una mente malata. Ti assicuro che è meglio così. Se tu fossi in grado di comprenderle, ti si scatenerebbero tali gelosie da mettere a repentaglio la tua stessa vita. Ora, non perdiamo altro tempo. Entriamo».

    L’aiutante non capì il senso di quelle parole e non si sforzò neppure di farlo. Il suo unico compito era quello di ubbidirgli e nient’altro. E poi sapeva che non era per niente salutare per la sua salute confrontarsi con quell’uomo. Era al corrente chi rappresentasse e, ancor più, aveva avuto notizia di che cosa fosse capace.

    La navata traboccava di persone, stipate in ogni angolo, tanto che gli fu facilissimo mescolarsi in questo trambusto. Nessuno dei presenti si accorse di loro e tanto meno furono degnati di uno sguardo che fosse uno, preoccupato com’erano di trovare un posto nella ressa. I più previdenti si erano assicurate le panche nella prima mattinata, mentre tutti gli altri erano in piedi, accalcati l’uno dietro all’altro.

    I due uomini si erano fatti strada, raggiungendo la metà della navata, quando sentirono l’incedere di un crescente vociare, proveniente dalle loro spalle e, nello stesso tempo, l’imponente organo avviare la marcia nuziale. Aveva fatto la sua apparizione la sposa, nel suo abito bianco. La ragazza aveva l’aria di un’adolescente cresciuta troppo in fretta e il suo volto era lievemente svigorito, forse da una notte insonne di emozioni e brividi.

    Tutti quanti si girarono verso la corsia centrale e osservarono la giovane donna, che portava i suoi timidi ma risoluti passi verso l’altare. Gli intrusi sfruttarono il momento e si mossero in avanti, attraversando per intero la pianta latina della chiesa. In prossimità del transetto, videro un portone di legno massiccio, che sapevano non essere chiuso a chiave. Lo spinsero quel tanto per sgusciarvi sul piccolo corridoio, che li avrebbe condotti alla stanza, nella quale gli sposi firmavano gli atti nuziali al termine della cerimonia.

    I sensori termici e di movimento erano stati disattivati, in conseguenza dell’evento, per cui nulla ora li poteva fermare.

    Aprirono uno spiraglio della porta sulla camera e diedero un’occhiata al suo interno. Vuota e scarsamente illuminata. Vi sgattaiolarono dentro, quasi in punta di piedi e stettero in attesa dietro alla porta almeno un paio di minuti, che parvero loro durare un’eternità. Per tutto quel tempo trattennero il respiro nei polmoni e nella gola. Tesero l’orecchio e più volte il loro cuore sobbalzò ai tanti rumori della navata. C’era sempre la possibilità, e non era una circostanza da ritenersi così improbabile, che qualcuno sapesse o si fosse accorto del loro ingresso.

    L’ambiente era flebilmente illuminato e pervaso da profumi d’incenso e di candele, che facevano pizzicare il naso e socchiudere gli occhi. Sui tre lati vi erano gli armadi, contenenti le vesti e i paramenti sacerdotali per le funzioni settimanali, oltre ai vari oggetti liturgici, usati per la celebrazione eucaristica.

    Tutto si stava svolgendo nei modi stabiliti, senza intoppi e nei tempi definiti a tavolino.

    Si guardarono attorno e si diressero decisi verso la parete libera. Qui, vi era appesa una piccola teca, del tutto attorniata da ex voto. Vi trovavano posto non solo i tanti cuori d’argento, ma anche oggetti che riproducevano con ingenua immediatezza i drammi e le sofferenze patite dai credenti.

    La vetrinetta non era esattamente una vera e propria teca, almeno secondo l’accezione più comune del termine. Si presentava, in realtà, come una custodia di piccole dimensioni, la cui cornice di legno, piuttosto barocca nella sua fattura, era fissata alla parete da due semplici viti a pressione.

    Erano fuori di sé dall’eccitazione: la bocca aperta, gli occhi sgranati per la meraviglia, le mani e le fronti madide raccontavano senza mezzi termini della loro euforia. La crescente tensione, l’ansia, l’impazienza, il desiderio da troppo tempo represso trovarono finalmente sfogo.

    Il silenzio rumoroso venne rotto dal movimento dell’uomo più giovane, che si avvicinò alla teca. La sfilò delicatamente dal muro e l’appoggiò con la massima delicatezza possibile sopra una scrivania. Mise una mano all’interno della giacca, ancora infradiciata dalla pioggia, e fece scivolare fuori un minuscolo astuccio, dal quale levò un piccolo cacciavite. Allentò le quattro viti, che trattenevano il cristallo alla cornice, fino a levarle del tutto. Alzò la lastra e la depose sul piano del tavolo. Mise una mano dentro la teca e tirò fuori un anello di metallo, nel quale era incastonata una pietra di zaffiro.

    Il monile fu consegnato all’istante al vecchio, il quale lo sollevò delicatamente e, per qualche secondo, l’osservò in un silenzio estatico, cercando di leggervi qualcosa al suo interno.

    Emise un lungo sospiro, mentre piccole gocce di sudore gli scendevano lentamente dalla fronte e il cuore batteva all’impazzata. Chinò il capo in segno di riverenza e con una voce, resa afona dall’emozione, recitò una breve litania in una lingua persa nel tempo. Sembrava che si stesse svolgendo un antico rito, anch’esso perso nelle pieghe del tempo. Istanti dopo, lo adagiò nel palmo della mano, lo accarezzò e lo ripose dentro un astuccio in pelle, foderato di velluto rosso e riccamente ornato da una trama di disegni amaranto e neri.

    Secondo quanto raccontava la tradizione popolare, il gioiello era uno dei tre anelli donati da papa Gregorio Magno alla regina longobarda Teodolinda, per i tanti servigi resi dalla sovrana alla causa cattolica. In seguito, la devota regina consegnò quello che divenne l’anello di Missaglia al monastero di San Pietro di Cremella, fondato dalla stessa e da lei assiduamente frequentato, assieme a diciotto dame della sua corte. Con il passare del tempo, l’anello manifestò taluni poteri taumaturgici. In particolare era a dir poco miracoloso per la guarigione dei disturbi della vista. Più tardi, con la soppressione del monastero, l’anello giunse alla sua sede finale, la chiesa parrocchiale di Missaglia, una piccola località della Brianza.

    In poco tempo, le credenze e, ancor più, la devozione popolare nei confronti dell’anello giunsero all’orecchio della curia milanese, alquanto più pragmatica e poco incline ai fatti miracolosi.

    Ai primi del Novecento, un alto prelato della curia arrivò addirittura a parlare di pratiche superstiziose. Le parole abbastanza dure del religioso non furono accolte serenamente dai fedeli, anzi; come era facile a prevedersi, quando si venne a sapere che il monile era stato inviato in gran segreto a Milano, si arrivò ad una vera e propria sollevazione popolare.

    Naturalmente, l’eco di tanto clamore non si fece attendere. Il cardinale, che reggeva le redini della chiesa ambrosiana in quegli anni turbolenti, vedendo la mal parata, tagliò corto su ogni possibile discussione, ordinandone il suo rientro a Missaglia. L’escamotage adoperato dall’alto prelato, per giustificarne il ritorno e, soprattutto, il suo culto; fu quello di inserirlo all’interno di un contenitore con una vera e propria reliquia, fatta venire appositamente da Venezia.

    Voci maligne e, forse, tendenziose affermarono che non fu un gesto dettato da una magnanima comprensione della volontà popolare, bensì una calcolata valutazione dei fatti, in seguito allo scandalo scoppiato tra le aule dell’asilo della Consolata di Milano e, anzitutto, sulle ondivaghe rivelazioni del giovane Besson, che avevano infuocato le cronache dell’epoca, alimentando l’ascesa del fronte socialista massonico sul governo giolittiano.

    Il più giovane dei due, sempre con la massima cura, rimise la vetrinetta nella posizione originale, rimettendovi al suo posto un’ampolla, che si era ben guardato dal maneggiare. Non era quello che si poteva dire un credente, almeno nel sentire comune, ma in lui non mancava un profondo senso superstizioso della religione. Mai e poi mai avrebbe voluto toccare una seconda volta una reliquia del corpo mortale di santa Lucia.

    Dopo averla riappesa alla parete, l’uomo si girò su sé stesso e s’accorse delle vistose orme di fanghiglia, che aveva lasciato sul tappeto. I minuti scorrevano in fretta e non aveva il tempo per ripulirlo, così chiese aiuto al vecchio, per muovere una pesante scrivania. La spostarono di quel tanto e la posizionarono sopra le macchie. Solo allora, s’avvicinarono alla porta. L’aprirono e lentamente ripercorsero il corridoio. Con la stessa circospezione rientrarono in chiesa, nel momento in cui si stava svolgendo il rito della Comunione.

    La platea dei fedeli era inginocchiata e con il capo chino. Erano pochi, veramente pochi coloro che non avevano partecipato al rito e restavano seduti, immobili, estraniati dal contesto e da un percettibile senso di colpa. Al fianco dell’altare maggiore, un giovane sacerdote asciugava il calice e la patella, aiutato dai chierichetti, poco più che bambini dall’aria piuttosto furbetta.

    I due uomini si guardarono attorno e si resero conto, che, ancora una volta, sarebbero passati senza suscitare uno sguardo, per cui si avviarono verso l’uscita e, con fare discreto, aprirono il portone, uscendone fuori. Nel frattempo, il temporale aveva lasciato il posto ad un barlume di sole e, malgrado la cappa di umidità appesantisse ancora l’aria, la vita di ogni giorno abbozzava dei timidi segnali nella piazza.

    Il gruppo non perse ulteriore tempo, poiché non sarebbe passato inosservato a lungo il furto.

    Quando fu dentro l’automobile, Gustav De Guaita, così si chiamava l’uomo anziano, si abbandonò contro lo schienale della poltrona in pelle e fissò l’autista, il quale non ebbe bisogno di alcun ordine, per girare la chiave, mettere in moto l’auto e ingranare la marcia. Solo nel momento in cui vide la chiesa allontanarsi, fino a divenire un tutt’uno con il paese, De Guaita si sbottonò il colletto e allentò la cravatta, così da poter respirare a pieni polmoni.

    Mentre lasciavano alle spalle Missaglia, ordinò all’autista di aumentare la velocità: non era il caso di trattenersi oltre. A breve si sarebbero accorti dell’accaduto e la polizia italiana non avrebbe tardato a formare dei blocchi stradali o, peggio, a mettersi sulle loro tracce. Sapeva bene che i servizi investigativi italiani, per quanto la nomea non fosse tra le migliori, in realtà erano da temere per la loro abilità e l’efficacia. Non era certamente un eufemismo definirli tra i migliori al mondo.

    Qualche anno prima, un pool della Polizia di Stato, guidato in maniera magistrale da un ispettore della Questura di Venezia, gli era arrivato talmente vicino, che dovettero abbandonare in tutta fretta le spoglie di santa Lucia in un capanno da caccia, ai bordi della laguna, dopo averle sottratte dalla chiesa di San Geremia. I trafugatori, sentendo sempre più vicino l’alito della polizia alle proprie spalle, tentarono di ingarbugliare le indagini, depistandoli verso la malavita locale.

    Gli uomini di De Guaita avevano lasciato tutta una serie di falsi indizi, che presi nel loro insieme apparivano davvero credibili, come la telefonata con la quale si rivelava la distruzione dei sacri resti, finendo in effetti con l’alimentare la confusione e l’incertezza sull’intera faccenda. Nonostante ciò, la polizia si era indirizzata sulla pista giusta e solo una combinazione di casi fortuiti evitò loro la cattura.

    Anche quella volta che le fiamme lambirono seriamente la stessa esistenza della chiesa di San Geremia e il monastero degli Angeli nell’isola di Murano, De Guaita e i suoi uomini ebbero la fortuna dalla loro parte.

    Le analisi dei Vigili del Fuoco e della Scientifica evidenziarono in poco tempo l’origine dolosa degli incendi e fu solo l’intervento provvidenziale di alcuni passanti a scongiurare che le fiamme potessero propagarsi fino alle fondamenta. Comunque non fu un completo fallimento, dal momento che i roghi riuscirono a nascondere quanto avevano fatto. Non si fermavano di fronte a nulla e a nessuno. La loro fredda determinazione non contemplava alcun ostacolo, che potesse intralciare quanto era stato da loro stabilito.

    De Guaita era alle prese con le cuffiette, con le quali soleva ascoltare il Flauto Magico di Mozart, quando lo schermo del suo cellulare prese vita e lampeggiò ripetutamente. Diede una rapida occhiata al numero telefonico, che compariva sul display e riconobbe l’utenza. Accostò il ricevitore all’orecchio e una voce maschile baritonale esordì.

    «Immagino che abbiate con voi l’anello, fratello Gustav?».

    «Si, l’abbiamo preso», rispose De Guaita, tentando di offrire ulteriori particolari, ma la voce lo interruppe, chiedendogli se vi erano stati degli intoppi, un qualsiasi problema. Il vecchio rispose di no e che tutto si era svolto nel migliore dei modi. A sua volta, chiese il motivo della telefonata e udì un sospiro, che accolse sonoramente la sua domanda.

    «Ho appena avuto delle informazioni piuttosto precise, che ci riguardano, in particolare te, caro fratello».

    «Quali?», chiese De Guaita, con un tono di voce che faceva trasparire un certo disagio.

    «I confratelli della Procura di Napoli mi hanno fatto sapere che un ispettore capo del Commissariato di Portici era riuscito a ricostruire il legame tra il vostro lavoro nella chiesa di Sant’Anastasia a Napoli e i diversi furti subiti in Italia nelle chiese intitolate a santa Lucia. L’unica cosa che lo ha bloccato per sempre è stato un più che provvidenziale proiettile. Purtroppo, tutto questo non è bastato. Un paio di suoi colleghi si sono intestarditi di voler continuare le sue indagini. E da quello che mi è stato riferito, sono uomini piuttosto motivati, oltre ad essere dei perfetti rompicoglioni nel loro lavoro. Difficilmente riusciremo a piegarli e non possiamo certamente far fuori anche loro. Qualcuno potrebbe farsi qualche domanda. Ne verrebbe fuori un bailamme pazzesco, con il rischio di mettere in serio pericolo l’intero piano. Non ne varrebbe assolutamente la pena, visto quello che è in gioco».

    De Guaita prestò una particolare attenzione alle parole che udiva, poi venne assalito da un dubbio.

    «Siete sicuro che non sia trapelato nulla? Non riesco a capire come il poliziotto sia potuto risalire a noi? Le coroncine di Sant’Anastasia prese per se stesse non potevano portarlo da nessuna parte, se non in un vicolo cieco. Questo vuol dire solo una cosa: o qualcuno di noi ha spifferato qualcosa alla persona sbagliata o il defunto doveva avere delle doti da segugio a dir poco notevoli».

    «L’unica cosa che ti deve preoccupare è quella di lasciare i confini italiani. Al resto ci penseremo noi, come al solito. Buona fortuna, fratello», tagliò corto la voce baritonale.

    «Aspettate», sbottò De Guaita.

    «Dimmi», rispose dall’altro capo la voce con un tono, che tradiva un crescente fastidio nel continuare la conversazione.

    «I guardiani dell’anello?».

    «E’ andata come doveva andare. Tutto è filato liscio come il proverbiale olio sul mare. Nessuna dubita dell’incidente nel quale sono morti. Tutti sono convinti che i due abbiano perso il controllo dell’auto a causa dell’alta velocità e delle cattive condizioni stradali, in particolare del manto, reso viscido dalle ultime piogge».

    «Bene. Ora mi sento più tranquillo», rispose De Guaita.

    Dopo una buona mezz’oretta di strada, le quattro auto raggiunsero un grande centro commerciale. Si diressero nell’affollato parcheggio e le sostituirono, abbandonandole nel settore incustodito. Non rappresentava un problema l’essersene sbarazzate in quel modo, poiché i documenti serviti per il noleggio non potevano certamente ricondurli a loro. Un fratello italiano li aveva riprodotti in maniera così perfetta, che solo l’occhio perfetto di un navigato falsario li avrebbe potuti smascherare e solo con molte difficoltà.

    Uscite dal parcheggio, le auto si confusero nel traffico di punta e ciascuna prese una direzione diversa. De Guaita raggiunse la vicina Lecco, da qui prese la tangenziale est, in direzione di Milano, per arrivare ore dopo al confine di Ventimiglia, lasciando l’Italia. La sua vettura avrebbe dovuto macinare ancora molti chilometri, prima di giungere alla destinazione finale, la città di Oosterbeek, in Olanda; mentre le altre si divisero. Raggiungendo altre mete: Roma, Venezia e la vicina Svizzera.

    Capitolo 1

    Il cieco desidera dal Signore non del denaro, ma la luce.

    Senza di questa, tutto il resto gli sembra di ben poco valore.

    Fratelli carissimi, imitiamo Costui di cui abbiamo sentito parlare,

    per essere illuminati esteriormente e interiormente.

    Non chiediamo al Signore ricchezze evanescenti, beni terreni,

    onori effimeri, ma la Luce.

    Non quella luce che finisce con il giorno,

    che è limitata ad un solo luogo e che siaffievolisce

    con il giungere di un temporale o della notte;

    non quella luce che gli animali vedono come noi.

    Preghiamo, invece, per ottenere la Luce che vedono gli angeli,

    quella Luce che non conosce inizio

    e che il tempo non potrà mai spegnere.

    san Gregorio Magno

    1.Capitolo

    Le ore che separavano alla cerimonia di apertura del vertice delle otto principali potenze del pianeta si contavano ormai nelle dita di una mano. Il Premier italiano si era buttato anima e corpo sugli ultimi preparativi della riunione. Sembrava che la fatica delle ultime ore non si fosse fatta sentire affatto. Ci mise tutto il suo abituale impegno nel controllare i singoli aspetti dell’organizzazione, mettendo bocca su tutto ciò che aveva disposto in precedenza: dai menù della cucina al poderoso sistema di sicurezza, che avrebbe protetto i grandi della terra da ogni insidia, sotto qualsiasi natura si fosse presentata.

    La tensione che aveva accumulato nel corso dei giorni si faceva vedere a livello di pelle. Il volto era quasi una maschera tirata allo stremo, gli occhi quasi delle sottilissime fessure. Ogni suo muscolo era contratto e il suo buon senso lo rimproverava di continuo, poiché aveva osato compiere, ancora una volta, un azzardo bello e buono. Ne era perfettamente a conoscenza, ma non poteva fare diversamente. Era il suo carattere risoluto e l’altrettanto forte istinto a guidarlo nelle sue scelte, molte delle quali difficili da comprendersi nell’immediato. Non c’erano logiche partitiche o chissà quali calcoli elettorali, che potessero influire in qualche modo sulle sue decisioni. Tutto era legato alla sua ferrea volontà e alla sua granitica convinzione di essere nel giusto. Nulla e nessuno poteva distoglierlo dagli obiettivi, che si era messo in testa.

    Con l’avvicinarsi dell’inizio dei lavori, la sua apprensione era andata di mano in mano stemperandosi, soprattutto quando vide che ogni cosa si stava svolgendo nel migliore dei modi; anche più di quanto avesse mai desiderato o sperato in cuor suo.

    La sua carica ideale e umana aveva infiammato l’entusiasmo in tutti i suoi collaboratori, facendo leva sulle loro emozioni positive. Alla fine era stato un vero e proprio trionfo. Il disastro auspicato dai molti, forse troppi, in particolare da alcuni suoi alleati politici, si era rivelato, in realtà, un vero e proprio successo personale, senza eguali nella tormentata storia politica italiana.

    I leader delle maggiori potenze mondiali erano rimasti abbagliati dall’organizzazione, che si era dimostrata ineccepibile fino nei più piccoli dettagli, eliminando, una volta ogni tanto, i tanti luoghi comuni sulla poca serietà e il pressapochismo dell’establishment italiano di qualsiasi colore ideologico fosse.

    Lo stesso risultato del vertice poteva considerarsi un successo di rilevanza senza pari. I vari capi di stato erano riusciti ad oltrepassare le ipocrite convinzioni buoniste e le stucchevoli intenzioni elettorali, dichiarando a tutti i rappresentanti della stampa internazionale l’intenzione di attuare, entro tempi non propriamente biblici, tutti quei correttivi sociali ed economici, espressi nei diversi e non sempre facili colloqui di quei giorni.

    Le realtà egoistiche nazionali di talune potenze europee e mondiali, solitamente insormontabili per il recondito sciovinismo e, alle volte, per un quasi mai sopito razzismo, avevano perso la consistenza di facciata di fronte alle sempre più pressanti dinamiche mondiali, fatte di fame, malattie e genocidi.

    Il Premier italiano, seguito a ruota dai rappresentanti di una buona parte delle nazioni bagnate dal Mediterraneo, puntò l’indice sul cancro strisciante, che stava corrodendo i pilastri sui quali poggiava la già debole economia mondiale, profetizzando una prossima, quanto mai vicina e conclamata metastasi. Le cause del male trovavano origine in quelle classi dirigenti e in determinate organizzazioni sovranazionali, orientate in un nuovo piano egemonico mondiale, che avevano seminato svariati germi patogeni nelle economie nazionali e continentali, al fine di condizionarne le stesse autonomie.

    Il Presidente del Consiglio italiano sapeva che questa sua presa di posizione lo avrebbe danneggiato, e di molto, nell’immediato futuro, ma non lo intimoriva più di tanto. Era più che mai convinto di svolgere una vera e propria missione e nulla lo avrebbe trattenuto dal farlo, a qualsiasi prezzo; anche se questo voleva dire giocarsi definitivamente la credibilità e, ancor più, mettere in discussione la sua onorabilità.

    Approfittò del viaggio di ritorno a Roma, per prendere respiro e concedersi un po’ di riposo. Ne sentiva veramente bisogno. Da quando era iniziato il summit, non aveva chiuso occhio, sebbene gli anni si facessero sentire sempre di più. Oltre a ciò, il suo corpo, per quanto fosse abituato agli strapazzi, cominciava a dare i primi segnali di un progressivo affaticamento. Eppure, non era né l’età e tantomeno la fatica a causargli le maggiori preoccupazioni, almeno per il momento.

    Nelle ultime ore, era stato informato di alcuni episodi, che lo riguardavano direttamente, sia come privato cittadino, che come politico. Naturalmente era uno scotto che aveva messo nel conto, ma era difficile, perfino per un uomo come lui, farsene una ragione.

    Il ritorno repentino nella Capitale era stato causato da una delle tante sedute eccezionali del Consiglio dei Ministri. La motivazione ufficiale riguardava la sua urgenza per evitare la scadenza dei termini di legge su alcune deleghe legislative. In realtà, si trovava di fronte ad un compito non semplice, quello di mediare le tante anime, che componevano la coalizione elettorale e di governo. Aveva cercato in tutti i modi di raggiungere una rapida intesa nell’esecutivo, capace di un assetto stabile e leale, con cui guidare il Paese nelle scelte difficili, ma la litigiosità interna si era dimostrata così profonda da azzerare ogni sua velleità.

    Appena atterrato all’aeroporto romano di Ciampino, annullò alcuni appuntamenti della giornata con dei rappresentanti del suo partito, e chiese di essere portato subito a Palazzo Chigi, la prestigiosa sede del Governo Italiano, sebbene mancassero ancora molte ore all’apertura ufficiale dei lavori.

    Motivazioni strettamente legate alla sua sicurezza personale, avevano indotto il capo scorta a cambiare all’improvviso il percorso e a non utilizzare l’ingresso principale, che s’affaccia sulla via del Corso. La scelta era caduta su quello di Piazza Colonna, resa celebre dalla grande colonna dell’imperatore romano Marco Aurelio. Il piccolo seguito si fermò nel cortile, in prossimità della fontana di travertino. Il Premier scese dall’auto e vi congedò la sua fedele scorta.

    Risalì lentamente lo scalone d’oro, lasciando scivolare la mano lungo il marmo freddo della balaustra, e raggiunse il primo piano nobile, dove trovavano posto le sale più importanti del palazzo.

    Giunto all’ultimo gradino, alzò il viso sopra di sé e osservò compiaciuto per qualche secondo il gruppo scultoreo con Venere e Marte, che un suo predecessore aveva fatto portare dal Museo delle Terme di Roma, per dare maggiore prestigio alla già importante scala e, nel frattempo, riportare alla luce del sole le effigi di un’antica grandezza dal buio di uno scantinato polveroso.

    Con aria soddisfatta, fece il suo ingresso nel grande corridoio centrale e si mise a camminare in direzione della Sala chiamata delle Galere, a causa dei riquadri in stucco bianco sopra le porte, e solo quando si trovò di fronte ad un grande quadro, si arrestò. Era uno dei suoi preferiti e, spesso, vi si attardava davanti, perdendosi nella sua bellezza.

    La splendida veduta era una perfetta riproduzione dell’affresco di Raffaello, che si trova nelle stanze vaticane, che ricordava l’episodio di papa Leone Magno, che, armato della sola croce, mise in fuga Attila e le sue orde di Unni.

    Del tutto assorto nella visione della tela, il Premier scosse più volte la testa, dando la sensazione che vi scorgesse qualcosa di sbagliato in quella superba rappresentazione. Emise un sonoro respiro e aggrottò le sopracciglia. Si volse e riprese il cammino fino a raggiungere il salottino Giallo, contraddistinto dal color paglierino delle sue tappezzerie. Da qui, si avviò di buon passo verso lo studio.

    Quando vi mise piede, si avvicinò alla scrivania e ruotò la poltrona di pelle nera verso la parete a ridosso, dove vi era appeso un secondo dipinto. Rimase qualche istante in piedi a guardarlo, dietro allo schienale con le braccia mollemente appoggiate sul poggiatesta. La spostò quel tanto per poter sedervisi sopra. Si lasciò andare, quasi afflosciandosi senza alcuna energia. Rialzò il viso e si stese completamente sullo schienale. Allungò le gambe e stiracchiò le braccia lungo i braccioli. Nei lineamenti del suo volto si potevano osservare più di una increspatura, che tradiva una sofferenza e, ancor più, una crescente preoccupazione.

    Del quadro non ammirava soltanto le forme e la meraviglia apparente, ma ne rimaneva profondamente estasiato dalla sua storia e dai tanti messaggi spirituali, sapientemente celati al suo interno. Solo un animo capace di leggere le profondità umane e, soprattutto, scevro da ogni pregiudizio poteva coglierne per intero gli oscuri significati.

    Era il dipinto che amava di più, tanto che si era fatto fare una riproduzione da un famoso maestro della piazza romana. Ogni qual volta doveva prendere un’importante decisione o escogitare una strategia vincente, si chiudeva dentro lo studio, al riparo da ogni sguardo indiscreto, e abbandonava tutto quanto sé stesso al quadro, fino a quando non trovava la soluzione cercata.

    L’opera era il Bacco e Arianna, attribuita dai maggiori critici dell’arte al francese Nicolas Poussin. Si trattava di una copia della tela del Tiziano, gelosamente custodita al museo del Prado a Madrid.

    Era ancora di fronte alla sua musa ispiratrice, quando il suo cellulare lampeggiò. Con un gesto di stizza lo aprì e vide il numero che compariva sul piccolo schermo. Prese fiato e rispose.

    «Complimenti, sei stato la star del Summit e debbo dirti, in tutta sincerità, che al solo pensiero di vederti pavoneggiare in Transatlantico e alle prossime sedute, mi fa accapponare di brutto la pelle su tutto il corpo. Già ti vedo e, ancor peggio, riesco persino a sentire il tono delle tue parole. Mi raccomando, e te lo dico per il tuo e il nostro bene, visto quello che siamo e rappresentiamo, cerca di limitare il tuo ego, per quanto possa essere difficile, da quanto è smisurato».

    Al tono dell’interlocutore, piuttosto canzonatorio, rispose il Premier, per nulla intenzionato a fargliela passare liscia.

    «Caro amico mio, alle volte, in realtà poche, mi dimentico, del tuo ruolo all’interno del maggior partito dell’opposizione. E dalle tue parole, devo osservare che ti sei ben inserito nelle loro file. Parli come uno di loro, né più né meno. Ti sei forse scordato del loro ruolo in questo sfascio, che stiamo vivendo? Sono quelli della vecchia politica, del teatrino dei politicanti capaci solo di proclami ai quattro venti e della solita buriana di bugie senza fine».

    «Ehilà, come ci siamo scaldati. Voleva essere solo una battuta, ma vedo che con l’età sei diventato anche alquanto permaloso. Lasciamo stare, perché mi stavi cercando? Spero che non sia l’ennesima crisi di governo o la fuoriuscita di qualche tuo colonnello, poiché, se è così, dovranno essere gli italiani a decidere. Lo sai».

    «Magari fosse questo» , rispose il Premier, emettendo un sonoro respiro, come se stesse sorreggendo sulle proprie spalle un pesante fardello. «Purtroppo la faccenda, di cui volevo parlarti, presenta dei contorni a dir poco preoccupanti. Ora non posso dirti di più. Tra poco sarò in riunione con i miei ministri e non mi posso dilungare troppo. L’unica cosa che al momento posso dirti è questa: i nostri amici si sono rifatti vivi e da quello che ho visto in queste ultime ore, godono di un’ottima salute, questi dannati senza Dio».

    «Cosa stai dicendo? Ne sei sicuro?», rispose l’uomo, sibilando tra i denti una rabbia, che proveniva direttamente dalle viscere.

    «Si, le cose stanno proprio così. Non vi è alcuna possibilità di smentita, purtroppo. Sai il fetore di marcio che avevamo avvertito nelle ultime settimane? Bene, è opera loro. Da quello che mi è dato sapere sono in corso due distinte operazioni. Tutte e due in grande stile. Vi sono state già delle vittime innocenti e, ancor peggio, ritengo che ve ne saranno altre».

    «Faccio immediatamente disdire ogni impegno. Domani mattina sarò a Roma».

    «Perfetto».

    *

    Francesco De Paradisi era un uomo di altezza media di circa quarant’anni, messi in evidenza dalle sempre più evidenti increspature di grigio sui sempre più radi capelli scuri. Il taglio degli occhi, di color nocciola chiaro, e i lineamenti del viso tradivano la parte delle sue origini meridionali. La corporatura era robusta, ma non eccessivamente appesantita, benché non nascondesse di essere quello che si dice una buona forchetta. Come ovvio che fosse, era anche un amante del buon vino. Apprezzava, in particolar modo, quello italiano, meno risonante di quello francese, ma, secondo il suo palato, più autentico e sincero, non solo nel prezzo.

    Si era svegliato stanco e di malumore, aveva la sensazione di sentirsi come un leone ferito in gabbia. Qualcosa lo tormentava in qualche angolo buio del suo animo, ma non ne capiva il motivo. Il suo stato peggiorò, quando mise piede in ufficio, tanto che giurò a sé stesso che nulla al mondo lo avrebbe trattenuto nel rimanervi, oltre al normale orario lavorativo, come solitamente faceva da qualche anno a questa parte. A sua memoria, mai come allora gli era stato così frustrante il lavoro, che, giorno dopo giorno, trovava la propria ragion d’essere sopra una scrivania, con una trasparente e dissonante alternanza di temporanee illusioni e lunghissime delusioni. L’opprimente peso del tempo, tarlato dai tanti e variegati problemi della quotidianità del lavoro, l’avevano ancor più irretito. Era un’anima in pena e non fece nulla, per nasconderlo agli occhi degli altri. Tanto erano abituati al suo temperamento non facile. Non erano pochi i colleghi che lo evitavano per il suo comportamento piuttosto eccentrico.

    Le seccature più difficili da digerirsi provenivano per lo più da alcuni suoi colleghi, sempre alla ricerca affannosa e spasmodica di chissà quali soddisfazioni professionali. In loro non albergava nessuna moderazione e tanto meno un briciolo di discernimento, che li aiutasse a distinguere il male dal bene. Ogni carta era buona da giocarsi, molte delle quali, se non tutte, raccolte tra le loro assidue frequentazioni politiche dell’intero arco costituzionale e, naturalmente, delle gerarchie ecclesiastiche.

    L’importante era arrivare; tutto il resto non contava. Agli occhi dei più superficiali, questi parvenu d’accatto, apparivano dotati di un alone vincente, mentre, almeno per i meno distratti, non era difficile scorgervi l’imbarazzante vacuità della loro esistenza.

    Il già cattivo umore di Francesco era cresciuto con il passare delle ore, anche a causa dei tanti utenti, con i quali si era trattenuto durante la mattinata, per trovare delle soluzioni ai loro più disparati problemi. Comunque, per quanto potesse sembrare senza fine, anche questa giornata stava volgendo alla sua conclusione e, cosa di non secondaria importanza per il suo sistema nervoso, il telefono rimaneva finalmente in silenzio. Di tutte le telefonate che riceveva, una buona parte di esse si svelavano come delle pretese petulanti alla ricerca di una strampalata giustificazione a un qualche loro torto.

    Francesco, dopo essersi perso per qualche minuto nel vuoto dello schermo del computer, nel quale campeggiava a grandi lettere la frase latina liberae sunt nostrae cogitationes, si alzò pigramente dalla poltroncina in simil pelle e si avvicinò con altrettanta lentezza alle porte finestre della terrazza, che sporgeva sopra il canale.

    Con un cenno della mano che rasentava la timidezza verso l’esterno, scostò le tendine che lo avevano protetto dalla luce accecante del sole e sbirciò fuori. Le sollevò e, alla maniera di stracci senza importanza, le mosse stropicciandole in malo modo. Spalancò le due porte che davano sul poggiolo e uscì fuori. Rovistò le tasche dei pantaloni e, al secondo o terzo tentativo, trovò il pacchetto di sigarette e al rallentatore ne estrasse una, accendendola. Rimase qualche secondo a contemplarne il fumo nelle sue diverse forme, assaporandone il gusto acre nella bocca. Appoggiò ambedue i gomiti sulla ringhiera della terrazza e, come al solito, osservò il mondo che si dipanava sotto di lui, mentre si ammantellava nei colori dell’imbrunire, tra le fondamenta e i ponti, fievolmente illuminati dai lampioni e dalla vetrine.

    La sua sensibilità percepiva l’atmosfera di quella parte di Venezia surreale, fuori dal tempo. La sua aura magica assumeva dei toni a dir poco prorompenti di fronte alla realtà caotica del vicino snodo stradale di Piazzale Roma, contorto nel traffico di uomini e mezzi di ogni tipo.

    Gli sembrava difficile, impossibile, trovare un aggettivo adeguato, che potesse descrivere sulla carta l’incanto del suo colpo d’occhio: i profili della città, il panorama, le acque e i diversi giochi di colori nei suoi innumerevoli chiaro scuri. L’alchimia armoniosa degli opposti tra architettura e natura rendeva questo piccolo mondo, strappato a forza di braccia al salso della laguna, un luogo privilegiato dello spirito, non della parola. Si trattava di una delle poche oasi di Venezia, nelle quali era possibile respirare l’aria sospesa tra la fiaba e il reale, intima e sconosciuta allo stesso tempo.

    Come era solito fare, non diede più di quattro o cinque tirate. La spense sul portacenere e rientrò all’interno dell’ufficio, che condivideva con molta fatica e altrettanta pazienza con un paio di colleghi. Dopo un’inutile peregrinare tra le diverse scrivanie, vedendole tutte quante belle e senza alcun foglio fuori posto, si fece strada in lui un senso di colpa e pensò che fosse giunto il momento di mettere un po’ d’ordine anche sopra la sua. Non era una cosa del tutto semplice da farsi. Innanzitutto doveva suddividere tutta la corrispondenza per i diversi soggetti, dividere i fascicoli per gli argomenti trattati e, cosa più difficile, trovare una collocazione che fosse una, almeno logica, di tutti i fogli volanti, sparsi disordinatamente su tutta la superficie della scrivania.

    Il suo impegno scemò miseramente in pochissimo tempo. Forse non più di dieci minuti, per cui raccolse tutti i documenti su quattro pile senza alcun ordine e spense il computer.

    Per concludere la giornata, gli rimaneva un’ultima incombenza: un sopralluogo nell’appartamento di una signora di mezz’età che abitava tra i meandri del Ghetto Vecchio. Questa lamentava la presenza di una macchia sul muro della stanza del figlio gravemente ammalato, che compariva all’improvviso di notte, per poi sparire alle prime luci del mattino. I tecnici imputavano questo fenomeno allo scivolamento di qualche coppo della copertura, che aveva ostruito in qualche maniera la vecchia grondaia, o alla rottura di una colonna di scarico.

    Francesco non ne aveva la più assoluta voglia, ma di necessità fece virtù, per cui si mise l’animo in pace e si preparò all’uscita. Giunto all’ingresso riservato al personale, timbrò il suo cartellino e uscì fuori dal palazzo, badando bene che il portone si chiudesse per bene alle sue spalle. Negli ultimi sei mesi, la sua azienda era stata interessata da strane intrusioni e qualche furtarello, che avevano creato più di qualche perplessità tra i colleghi, dal momento che erano spariti dei fascicoli di nessuna importanza e qualche oggetto personale di scarso valore venale.

    S’incamminò di buon passo lungo il tratto della fondamenta, che costeggiava il canale, il Rio Novo, che divideva in due i giardini Papadopoli, una delle poche aree verdi della città. Passò sopra un piccolo ponte nelle vicinanze di un albergo e ancora pochi passi era sotto alla vertebrata arcata del ponte di Calatrava, conosciuto con l’altisonante nome di Ponte della Costituzione. Da lì raggiunse la vicina stazione centrale, nella quale approdavano i vaporetti, le tipiche imbarcazioni veneziane, usate come mezzo di trasporto pubblico.

    Era giunto ad una cinquantina di metri dal pontile, quando vide la ressa che vi era ammassata al suo interno. La folla era per lo più costituita dalle numerose comitive di turisti, provenienti da ogni parte del mondo. Non era solo la coreografia dei monumenti a farli sognare con gli occhi aperti, ma era lo stesso smarrirsi nella sensazione singolare di sospensione tra il cielo e il mare a sorprenderli. Si stupivano di continuo dei canali carichi di suggestioni, nei quali si riflettevano i palazzi, i ponti e le rive rese vive dal continuo brulichio delle persone. L’apoteosi avveniva sul far della sera, allorché le sempre più surreali luci dei palazzi ondeggiavano sulle onde fino a perdersi, caricandosi di una malinconia struggente.

    Il solo pensiero di immergersi in quella marea umana gli strinse la bocca dello stomaco, tanto da levargli il respiro. Aveva bene in mente cosa avrebbe dovuto affrontare, imbarcandosi in quel momento e su quel vaporetto. La ricerca inutile di un posto a sedere tra la cabina a poppavia e la prua, dopo una buona dose di spintoni e una lunga carrellata di ascelle sempre più madide per il caldo opprimente. Scosse la testa, diede un’occhiataccia alle biglietterie, ripensando ai soldi per l’abbonamento, e indietreggiò. Preferì recarsi all’appuntamento a piedi; tanto di tempo ne aveva da vendere e, poi, non gli avrebbe certamente fatto male prendere una boccata d’aria, sgranchendosi un po’ le gambe.

    Ritornò sui suoi passi e prese la direzione della vicina stazione ferroviaria di Santa Lucia. La lasciò dietro di sé, imboccando la Fondamenta degli Scalzi: la lunga via pavimentata che correva lungo il Canal Grande, fino a toccare la Lista di Spagna, l’arteria pedonale che celebrava il ricordo dell’antica sede dell’ambasciata spagnola all’epoca della Serenissima.

    Qualche metro in più e mise piede nel Campo di San Geremia. Qui fecero la loro imponente apparizione la chiesa omonima e il tardo barocco Palazzo Labia, divenuto uno delle sedi più prestigiose della Televisione di Stato. Dopo pochi minuti era di fronte al ponte delle Guglie, che correva sopra il canale di Cannaregio, che aveva assunto il nome dal più abitato e popolare sestiere della città.

    Molte volte vi era passato sopra, ma non vi aveva mai dato l’importanza che meritava. Quella sera, invece, forse aiutato da un’accentuata sensibilità dell’animo o dal flebile gioco dei colori delle vicine vetrine, ne rimase attratto.

    In origine la struttura del ponte era interamente in legno, in seguito, come avvenne per ogni cosa a Venezia, sul finire del Sedicesimo secolo, venne ricostruito interamente in pietra, con le quattro guglie ai vertici delle spallette e i tanti misteriosi mascheroni, che ne ornano la ghiera esterna dell’arcata. I pinnacoli, collocati come abbellimento dei parapetti, gli infondevano un certo alone di esotico e di misterioso nel voler loro aspirare al cielo.

    Chi si fosse posto dinnanzi umilmente, con una immaginazione ancora capace di destarsi emotivamente dall’assopita e arida vita di ogni giorno, non avrebbe fatto fatica a superare la talvolta indistinta linea di confine tra il tangibile e l’irreale, cogliendone il messaggio nascosto tra le sue pietre. Forse, il luogo stesso era l’ingresso di una visione del mondo, sconosciuta ai più, sedati da una più brulla lettura razionale, che proponeva semplicemente il talento del costruttore o il gusto estetico del tempo.

    Francesco era alle prese con gli ultimi gradini del ponte, che il suo cellulare di servizio iniziò a squillare. Dall’altra parte c’era il fratello della donna e, dalle sue scarne parole, intrise da una profonda e disperata accettazione delle cose della vita, venne a conoscenza della morte del nipote. Il futuro del ragazzo aveva deciso di coincidere con il presente, la malattia aveva divorato la resistenza e la voglia di vivere del giovane.

    La telefonata fu breve, di pochi minuti. Non c’era molto da dire, se non le solite e banali frasi di circostanza, con le quali Francesco manifestò il suo dispiacere per l’accaduto. Chiusa la comunicazione, si avvicinò al canale e fece un profondo respiro, riempiendosi i polmoni dell’aspro dell’acqua. A quel punto decise di far ritorno a casa, dal momento che non vi era alcuna ragione a trattenerlo a Venezia.

    I lampioni brillavano nel crepuscolo e le luci dei locali si riverberavano in un balletto ondeggiando sulle acque dei canali, tenuamente colorate dai sempre più sbiaditi colori dell’ultimo sole e dai chiarori delle tante imbarcazioni in navigazione.

    Le fiumane di turisti, che avevano intasato calli e fondamenta, nel frattempo si erano andate diradando nei tanti ristoranti e pizzerie, per cui il suo cammino si fece meno frenetico, agevolando così la sua intimità con il mondo circostante.

    I suoi occhi, di solito distratti dalla fretta e annebbiati dai rivoli della quotidianità, ora spaziavano liberi sui campielli e sui tanti monumenti, che si offrivano sotto una nuova luce. Ogni suo passo era un susseguirsi continuo di stupore, soprattutto, quando passò accanto alla chiesa di San Geremia.

    A causa del suo lavoro, che lo costringeva spesso a muoversi per Venezia, si era trovato spesso a camminarvi davanti. Ma il tempo che gli aveva dedicato era sempre poco, per lo più concentrato nella visione della sua facciata. Ogni qual volta si era posto di fronte a questo prezioso libro di marmo e pietra, i suoi occhi si erano colmati delle tante suggestioni, che emanava in ogni suo riflesso. Sfogliarne le sue pagine, una

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