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Miserabili giorni
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Miserabili giorni

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Anno 2012
“Nei giorni della crisi economica mondiale un uomo perde
tutto ciò che aveva costruito, dalla famiglia al posto di lavoro,
trovandosi di colpo costretto a uscire dal suo perbenismo per
affrontare la sfida della povertà e del degrado morale e
sociale. Un percorso profondo alla ricerca di un nuovo
modello di vita che lo porterà all’analisi introspettiva della
sua anima in bilico tra la realtà e sogno. Giorni fuggendo
dalla città alla ricerca disperata di un nuovo equilibrio con
cui affrontare la vita e trovare i motivi per sorridere ancora al
futuro. Un viaggio interiore che non lascia indifferenti ma
spinge alla riflessione sul modello di vita promosso dalla
società moderna, ormai profondamente corrotta nei veri
valori morali.”
LanguageItaliano
PublisherAntropoetico
Release dateAug 1, 2014
ISBN9786050315714
Miserabili giorni

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    Miserabili giorni - Antropoetico

    sogno

    Prefazione

    Anno 2012 

    Nei giorni della crisi economica mondiale un uomo perde tutto ciò che aveva costruito, dalla famiglia al posto di lavoro, trovandosi di colpo costretto a uscire dal suo perbenismo per affrontare la sfida della povertà e del degrado morale e sociale. Un percorso profondo alla ricerca di un nuovo modello di vita che lo porterà all’analisi introspettiva della sua anima in bilico tra la realtà e sogno. Giorni fuggendo dalla città alla ricerca disperata di un nuovo equilibrio con cui affrontare la vita e trovare i motivi per sorridere ancora al futuro. Un viaggio interiore che non lascia indifferenti ma spinge alla riflessione sul modello di vita promosso dalla società moderna, ormai profondamente corrotta nei veri valori morali.

    I giorni della crisi

    -E ora? Che succederà da adesso in avanti?

    I pensieri correvano veloci eppure lenti come imprigionati in un fermo immagine nella mente di Roberto quasi sovrapponendosi.Domande sfilate dal cervello, frecce scagliate nel nulla senza un bersaglio da centrare. Le mani in tasca sotto un cielo finalmente plumbeo capace di avvolgere di grigio ogni cosa. Proprio come si sentiva in quel momento, in quel giorno. Dentro e fuori di lui tutto appariva assolutamente grigio. Era arrivato a un punto morto. Non poteva andare avanti verso il futuro e non riusciva nemmeno a tornare indietro. Per fortuna non sentiva alcun dolore come se fosse sotto l’effetto di un anestetico, semplicemente non aveva più voglia di lottare. Era arrivato al punto di vedersi come una vecchia casa pericolante, a volte baciata dal sole, altre spazzata dal vento che aveva già retto troppi inverni e adesso in attesa di essere demolita dalla ruspa. Non sapeva quando sarebbe successo ma ne era certo. Questione di giorni, forse di mesi. La pioggerella picchiettava sulla giacca primaverile. Già, la vita continuava nei suoi processi vitali. Gli venne naturale pensare a quanti uomini avessero pensato magari le stesse cose, a come in fondo siamo solo un lampo che passa nell’immensità del tempo. Non era poi così importante la sua vita. Come fare il paragone con chi aveva passato la guerra o la stava vivendo proprio in quei giorni o con chi era rimasto su di una sedia a rotelle. Nonostante si sforzasse di seguire la logica, non riusciva a convincersi che avrebbe dovuto godersela un poco la vita. Come aveva fatto a ridursi così?

    - Della logica e della ragione degli altri non me ne frega nulla.

    Esclamò irritato.

    Con qualcosa o qualcuno doveva pur prendersela adesso e la lattina di coca cola mezza accartocciata sembrava messa lì apposta dal destino. La colpì con un sinistro alla Gigi Riva facendola ruzzolare in mezzo alla strada. Ma non era ancora contento e la rincorse con uno scatto felino.Doveva schiacciarla, giù fino in fondo, fino ad appiattirla completamente. Se avesse potuto l’avrebbe fatta sprofondare nell’asfalto. Si fermò solo quando sentì un dolore acuto attraversare il tallone.

    - Ecco. Ci voleva pure questa.

    Non aveva fatto tempo a uscire da casa che era già finita anche la passeggiata, quella abituale che faceva nei giorni di festa. Zoppicante gli toccò tornare sui suoi passi. La sfiga era diventata così presente nella sua vita da considerarla la sua donna invisibile.

    - Sei contenta eh?

    Disse con quell’espressione storta che era solito mostrare, con la faccia da pirla che sfoggiava nei momenti peggiori. Quando assumeva quello sguardo, risultava immediatamente estraneo a chiunque gli girasse intorno e lui pure si sentiva urtato solo dal fatto che qualcuno lo fissasse o lo guardasse di sottecchi.

    - E tu che cosa hai da guardare vecchio?

    Era buffo vederlo ancheggiare tenendo il piede afflitto sulla punta e i ragazzi del bar tutti più o meno quindicenni cominciarono a scimmiottarlo forti della loro gioventù e delle regole del branco.

    - Fottetevi, stronzi.

    Non glielo avesse mai detto. In men che non si dica, si trovò circondato da quella teppaglia, prodotto dell’assenza di cultura e schiaffoni dei giorni nostri.

    - Cosa hai detto matusa? Stronzi a chi?

    A parlare il capo banda, quello che era solito imbrattare i muri del sottopassaggio della stazione. Parlava facendo roteare la sigaretta accesa nelle labbra con aria di sfida. Gli altri avevano circondato Roberto.

    - Che cazzo ridevate bambocci?

    Non fece tempo ad aggiungere altro che la bagarre scoppiò. Caspita che riflessi quei giovani. Fu una vera pioggia addosso di calci, scarpate e pugni. Arrivavano da tutte le parti e sarebbero andati avanti chissà fino a che punto se non fosse sopraggiunta la mamma del piccolo capo. L’unica capace di arrestare la sua ira.

    - Vecchio, questo è solo un acconto, tu mi devi rispetto. Ricordalo. 

    Se l’era cercata. Roberto si rialzò con la giacca strappata penzolante da un lato. Adesso sulla sua faccia faceva bella mostra un occhio pesto e il rigagnolo di sangue nel suo colare lento dietro l’orecchio destro. Il bullo se la rideva alla grande con i membri della compagnia. Si battevano il cinque uno con l’altro, all’americana e sollevavano il dito medio nell’aria. Non restava che tornarsene lentamente a casa, adesso non faceva più male solo il tallone. Era come se tutto fosse successo e succedesse con uno scopo e uno schema ben preciso. Certo quelli erano tempi difficili da vivere in Italia, attraversata da una crisi economica senza precedenti. Perfino la Milano, quella da bere, la capitale del lavoro, la regina del capitalismo più sfrenato italiano era sofferente. Un sacco di aziende avevano cominciato ad chiudere, operai in piazza raccontavano il loro dolore e il loro disagio psicologico. Nemmeno il commercio sembrava avere scampo e le serrande abbassate con i cartelli di vendita o affitto si stavano diffondendo a macchia d’olio. Ormai suicidi e atti di disperazione erano all’ordine del giorno. Ogni cosa sembrava parlare di catastrofe alle porte e certo i telegiornali e i media non aiutavano in tal senso. Le parole accompagnatrici della vita negli ultimi anni erano diventate crisi, fallimento, debito, default. L’atmosfera respirabile appariva pesante e i politici ci davano dentro, utilizzando governi più o meno leciti, a spremere fino in fondo il popolo e i quattro soldi che avevano messo da parte. Dietro la demagogia mostrata in tv da chi guadagnava svariate migliaia di euro al mese c’era la menzogna. La crisi, causata da finanzieri e banchieri assieme a politicanti da strapazzo, la dovevano far pagare a pensionati, dipendenti e commercianti. Anche il mito della casa cominciava a sgretolarsi sotto i colpi della mancata concessione dei mutui e con l’arrivo della famigerata i.m.u.

    Ci volevano quei pugni a cancellare un po’ del grigio che aveva dentro con il rosso purpureo, ci volevano i calci nel culo per risvegliare una coscienza atrofizzata. Come non vedere come ormai fosse diffuso un torpore fumoso nel quale avevano sguazzato squali a mordere soldi e potere nelle pieghe della società. Come un virus malefico, alcune persone avevano infettato l’intero sistema. Dalla politica alla sanità con la connivenza di giornalisti ingrassati a soldi e puttane, tutto era diventato maledettamente marcio. Un marcio così puzzolente da diventare insopportabile per uno che aveva cercato sempre di rispettare le regole. Come stridevano le parole di Napolitano, il presidente della Repubblica per festeggiare il 150° anniversario dell’unità d’Italia con l’abominevole condizione in cui erano costretti a vivere i suoi figli. E adesso toccava anche a Roberto, adesso la merda era arrivata fino a lui e lo avvolgeva togliendo quella patina di finta borghesia che il sistema gli aveva cucito addosso come una bella medaglia. Una patacca per farlo stare buono. E già. Finché tocca agli altri t’indigni, sbuffi, ne parli al bar e continui la tua vita senza fare nulla. Roberto si sentiva un ipocrita. Più fortunato per certe cose di altri aveva vissuto i suoi malesseri nella piacevole culla di un lavoro che gli aveva permesso di campare discretamente bene. Ma adesso con la lettera in mano di licenziamento toccava a lui prendersi la sua razione di fiele. Domande mai fatte martellavano in testa. A cinquant’anni che altro lavoro puoi fare? I quattro soldi in banca erano l’ultima difesa, l’ultima barriera tra lui e la strada. E poi non aveva più nemmeno la voglia di ricominciare. E’ brutto trovarsi né carne, né pesce. Meno male che la vasca da bagno era lì ad aspettarlo, un attimo di tregua piacevole. Roberto conosceva bene la sua anima o almeno alcuni modi di comportarsi, e comprese che sarebbe stata un’altra notte da buttare a rigirarsi nel letto in un sudore innaturale cercando soluzioni che non si potevano trovare perché non c’era una via d’uscita. Una pioggia di merda dentro il grigio sarebbe arrivata e lui si sentiva in balia degli eventi senza nemmeno un ombrello. Il vapore caldo invadeva tutto il bagno e le sue piastrelle gialle, il bagnoschiuma fino al collo. Con la saponetta sfregò anche i piedi negli interstizi fra un dito e l’altro. Almeno per una volta avrebbe fatto un lavaggio completo.

    - Bene, facciamo un bilancio, ci sarà pure qualcosa di positivo.

    Roberto cominciò con il rituale che usava compiere quando si ritrovava solo nel tentativo sempre fallito di assolversi.

    - Famiglia? Merda.

    Trattato come un estraneo, una persona di cui diffidare. E questo era il primo pugno nello stomaco. Nonostante le parole, gli atteggiamenti e il vedersi alle feste comandate, di fatto era stato rinnegato. I fatti avevano messo la firma a quella condanna.

    - Moglie? Merda ancora.

    Se n’era andata dopo un ventennio conflittuale vissuto nelle incomprensioni, nel disagio sociale che entrambi avevano dovuto attraversare. Pesavano i contesti familiari. Se mastichi problemi e depressione ti rimane il marchio addosso. Gli faceva male il fallimento compiuto nel silenzio di una separazione consensuale, ma molto di più l’idea di aver rovinato la vita a colei che lo aveva sposato. Vederla, dopo oltre cinque anni da quando avevano chiuso la storia, ridotta ad andare dallo psichiatra, a prendersi potenti psicofarmaci per tirare avanti era un tormento psicologico insopportabile che solo un’abbondante dose di vino sapeva placare. Una coltellata, tutti i giorni, tutte le notti. La finzione di un’apparente forza ogni volta che s’incontravano lasciavano sempre un taglio sanguinante la sera.

    - Lavoro? Merda epocale.

    Se aveva tirato avanti tanto a lungo in una normalità di facciata il merito era stato del lavoro con le sue regole. Non poteva certo mostrarsi così ferito e vigliacco davanti ai clienti, la faccia era costretta a sorridere dal lunedì al venerdì in attesa del maledetto fine settimana. Una maschera per essere accettato dalla società, da quella società che, adesso, lo stava buttando come una scarpa vecchia. Niente lavoro, niente futuro. Solo un maledetto grigio che lo lasciava senza forze. Ma non era preoccupato tanto per se stesso, quanto per la moglie. Anch’essa senza lavoro, costretta suo malgrado a dipendere dalla sua busta paga. Niente pensione, le pile scariche e una montagna di bollette da pagare. La benzina alle stelle, l’affitto, la rata dell’auto. Tutto era assolutamente merda. Quel finto apparente benessere di colpo si mostrava nella sua cruda realtà.

    - Siamo solo degli schiavi che credono di essere liberi. Servi di quattro pezzenti al potere.

    Era stata una raccomandata dalla ditta con la sua bella ricevuta di ritorno e la fila in posta come contorno a comunicargli di essere stato licenziato e che dalla fine del mese con il suo contratto ci si poteva pulire il culo. Ristrutturazione aziendale questa la motivazione. E già, l’azienda doveva fare i conti anch’essa con la crisi e lottava per rimanere in piedi. Come un ramo secco, ormai privo di linfa, avevano tagliato fra gli altri, anche lui. Adesso, tutti quei giorni passati a cazzeggiare sul computer anziché pensare a lavorare, ogni ora passata a bere il caffè in una pausa dietro l’altra, ogni minuto nascosto a leggere il giornale dentro il cesso, ogni perdita di tempo sfilavano davanti ai suoi occhi con il dito puntato accusatorio. Per quanto ancora avrebbe potuto pensare che la pacchia sarebbe andata avanti? Non si era mai comportato certo come lavoratore modello, tutta colpa degli altalenanti stati d’animo, della sensazione di non valere proprio nulla e delle compagnie sbagliate.

    - Amici? Merda al cubo.

    Roberto continuava senza posa nell’analisi delle componenti della sua vita lanciando nell’aria le domande e dandosi sempre la stessa risposta anche adesso che si stava asciugando davanti allo specchio. Nemmeno nelle relazioni sociali era mai riuscito a instaurare un rapporto vero, un’amicizia di quelle che si vede nei film, nemmeno una. Certo arrivare a cinquant’anni e non avere nemmeno un amico lasciava intendere la pochezza del suo animo interiore. Perché uno certe domande deve pur farsele. Tutto il mondo ce l’aveva con lui? Poteva essere davvero così? Forse facile a un vittimismo esasperato tendeva a sentire l’oppressione della sfiga. Eppure aveva avuto degli amici nei vari periodi della vita. Cosa non aveva funzionato? Possibile che incontrasse solo dei vermi, della gente falsa, degli sfruttatori? Che ogni persona fosse ipocrita, pettegola e cattiva? E soprattutto cosa sarebbe accaduto da quel momento in avanti. Roberto riusciva solo a vedere un futuro triste e solitario e per di più senza un euro in tasca. Avesse avuto un amico oggi ci sarebbe andato, semplicemente per sfogarsi, ma anche in quello aveva imparato a tenere tutto dentro, a schiacciare le emozioni, a fingere a denti stretti.

    - Se vai bene la gente t’invidia, se vai male ti compatisce. Meglio non dire nulla a nessuno. Guarda che panza che mi ritrovo! Specchio della malora chi è il più grasso del paese? Io! Eccola la ciliegina sulla torta. Brutto, vecchio, grasso e povero. Cosa sono? Una merda!

    Sorrise sarcastico, lasciando cadere l’accappatoio che lo avvolgeva e si mise di lato per vedere meglio la duna tondeggiante sulla pancia.

    - Guarda che roba… vado per i cento chili. La mia riserva di grasso per i giorni di magra che mi spettano.

    Ma l’indagine non era ancora finita. Avvicinò la faccia allo specchio per esplorare i peli sparsi sul suo viso. Da un po’ di tempo, infatti, aveva notato il loro diffondersi in posti dove da giovane manco se li sognava. Una selva di peli neri e bianchi aveva cominciato prima a sbucargli dal naso e successivamente dai lobi delle orecchie. Una jungla piena di vita che ad ogni taglio, ricresceva con più forza e tenacia. La cosa gli dava non poco fastidio in quanto, a causa del calar di vista, spesso si accorgeva della presenza di qualche pelazzo lungo superstite solo una volta uscito di casa alla luce del cielo. Quante volte alla mattina in mezzo al traffico ricorreva allo strappo in corsa con l’aiuto dello specchio retrovisore. Estirpare i peli dal naso in quel modo era doloroso, mannaggia loro, oltre che disgustoso per gli altri automobilisti che lo osservavano al semaforo. Ma quel giorno notò qualcosa di nuovo e sconcertante del suo invecchiare. Nella foresta di peli neri e ispidi che circondavano l’inguine e l’attrezzo del piacere, in tutto quel nero corvino, adesso spuntava, visibilissimo un lungo, interminabile, contorto pelo bianco.

    - E questo cos’è? Caspita ma allora da vecchio uno si ritrova anche in quel posto la barba bianca?

    Cercò di strapparlo ma sembrava attaccato con il cemento e allora cominciò a girare per la casa, cercando in ogni cassetto una cazzo di forbice per tagliare l’orribile, antiestetico orpello. Da lì, iniziò sul letto, una nuova minuziosa indagine per vedere se nel suo corpo c’erano altri cambiamenti riscontrabili. La forbice si rivelò utilissime per tagliare le unghie dei piedi ormai più simili a degli artigli aguzzi, anche queste ormai legnose come il tronco di una quercia matura.

    - Ah, la vecchiaia.

    Roberto non aveva mai avuto paura d’invecchiare o almeno l’aveva pensata così fin quando era stato giovane. Diciamo fino ai 40 anni. Ma adesso cominciava a vedere su se stesso i segni dell’inevitabile trasformazione. Un cambiamento dentro e fuori il corpo. Non poté non pensare alle mele e fare il paragone. Belle, sode, profumate sull’albero o appena colte e raggrinzite e ammuffite all’arrivo dell’inverno. Gli venne in mente anche un detto della bibbia: Un tempo per ogni cosa, ogni cosa a suo tempo. Più o meno il senso era quello. Doveva smetterla di fare il ragazzino e accettare l’essere ormai un uomo maturo.

    - Maturo un cazzo!

    Perché mai avrebbe dovuto farsi andar bene la vita degli adulti? Non ci trovava nulla d’interessante nel lavorare per uno stipendio, nel pagare bollette, nelle regole della società e nel doversi comportare bene. Lo aveva fatto fino a quel momento, aveva cercato di essere una persona di principi e responsabile. Con quale risultato? Merda totale, su tutto il fronte, insomma un fallimento epocale. Roberto si rese conto di aver buttato nel cesso cinquant’anni della sua vita, di aver semplicemente scimmiottato l’atteggiamento imposto dalla società alla massa, di essere stato imbevuto di cazzate comportamentali sterili e di essere ben lontano dai veri e profondi valori morali.

    Meno male che ormai era ora di cena. Sentirsi ripulito e con ancora in corpo la botta di calore dell’acqua bollente lo aveva rilassato. Cena da single ovviamente. La prima cosa da fare era quella di rovistare nel frigo per vedere tra i vari residuati bellici cosa ci fosse di ancora mangiabile. Il senso di abbandono era evidente. Cipolle ammuffite stavano in bella vista facendo compagnia ai vasetti di sott’olio aperti nei mesi precedenti e lasciati lì a coltivare botulino. Pezzi di cartone si erano ghiacciati sulle pareti e le vasche per la verdura in basso ormai galleggiavano causa l’intasamento del buco dello scolo. Anche le patate cominciavano a germogliare.

    - Che schifo. Gli devo dare una ripulita prima o poi.

    Nemmeno il surgelatore aveva un bell’aspetto. Chissà perché montagne di ghiaccio avevano ricoperto quasi tutto quello che nascondeva, spuntavano qua e là pezzi dei contenitori di platesse e bastoncini Findus.

    - Ho capito. Ci facciamo due spaghetti, al solito.

    Il rito si ripeteva quasi sempre così alla sera. La pentola dell’acqua sul fornello, la confezione di spaghetti sul tavolo. Benché fosse un ottimo cuoco, quando si ritrovava solo non cucinava nemmeno il sugo. Troppo tempo per un uomo stanco ed affamato. In fondo, una volta scolata, la pasta non era malaccio saltata con una sbriciolata di peperoncino e di prezzemolo secco. Se poi gli buttava dentro uno spicchio d’aglio diventava addirittura decente. E la televisione? Una volta messo in moto i fornelli e apparecchiato la tavola con la stessa tovaglia che da un mese stazionava in cucina non poteva certo mancare. Faceva compagnia il brusio. Anche se non seguiva tutto quello che veniva trasmesso il fluir delle parole sostituiva la presenza di qualcuno. Certo, ripensando ai tempi in cui aveva avuto una moglie, meglio il conduttore del Tg che la petulante voce di una persona scontenta, che la faccia triste che lo accoglieva quasi sempre come se fosse uno stronzo qualunque. La parola che legava di più al ricordo della moglie era problema. C’era sempre immancabilmente qualche problema e lui che arrivava a casa la sera sfatto come un calzino usato per fare la maratona finiva sempre per innervosirsi e mettere il muso.

    - Che mi mangio intanto che la pasta cuoce?

    Quella sera c’era poco o niente da mangiare e quando è così anche una bella fetta di pane duro tiene in allenamento i denti. Prese a sgranocchiarla come un cane fa con il suo osso.

    - Va beh, facciamoci del male, guardiamo Mentana stasera.

    Da un certo numero di anni Roberto si sentiva disgustato dai telegiornali. Tutti uguali, stessa impostazione, stessa esaltazione delle notizie più disgustose reperibili nella giornata e con un piacere davvero morboso per i casi di cronaca nera, i delitti familiari, gli stupri nelle stazioni. Vent’anni di quella roba ingurgitata tutti i giorni avevano creato una mentalità pessimistica e il diffondersi di una certa subdola depressione tra la popolazione. Che fosse stato un modo per manipolare la massa dei cittadini? Certo quella non si poteva definire un’informazione corretta ed equilibrata. Addirittura i giornalisti sembravano avidi di notizie catastrofiche perché ciò incrementava gli ascolti, li rendeva personaggi famosi, rendeva corposo e importante il loro lavoro. Ma quale mai poteva essere l’argomento del giorno? La crisi, lei. Quella maledetta situazione che dal 2008 aveva cominciato distruggere la fiducia degli italiani e che aveva decretato inesorabilmente il fallimento della politica italiana o meglio dei politici che gli italiani avevano eletto abbindolati da mirabolanti campagne elettorali. Una figura di merda senza precedenti che aveva costretto l’ultimo governo a dimettersi sostituito da un governo tecnico. Insomma, incapaci di risolvere i problemi, vigliacchi per non apparire in prima persona nelle misure drastiche, i soliti quattro politicanti da strapazzo avevano passato la palla ai professori o meglio ai banchieri. Roberto si chiedeva se fosse coglione lui nel modo di ragionare o quella fosse una puttanata grossa come una casa. Da ignorante aveva capito che la bolla speculativa generatrice dell’enorme buco finanziario l’avevano creata proprio le banche con le loro spericolate operazioni a rischio. Aveva ancora in mente cosa era successo con la Parmalat. E ora? A capo del governo Monti e Passera due maghi della finanza. La cosa gli sembrava paradossale. Come se i ladroni di colpo potessero di colpo diventare dei santi.

    Si era passati dalla padella alla brace con una soluzione di continuità senza precedenti e la cura da cavallo stava venendo impartita a regola d’arte alla povera gente, a partire dal popolo di pensionandi e pensionati.I primi costretti a vedersi allungare gli anni necessari per andare in pensione in barba al patto a suo tempo sottoscritto con il governo e ai contributi versati, i secondi con la scure delle tasse sulla casa nel più totale disprezzo delle condizioni individuali. Che dire poi degli operai? Già colpiti dal flagello del fallimento delle imprese adesso venivano messi alla mercé del mercato, perdendo le tutele di cui avevano goduto fino al giorno prima.La libertà in entrata e in uscita nel mondo del lavoro tanto sbandierata come una mossa opportuna per generare nuovi posti di lavoro in realtà dava il via libera ai licenziamenti di massa.

    -Il lavoro fisso è monotono ma che bella frase Monti! Tu che ne sai? Hai mai provato a non avere i soldi per pagare la bolletta dell’Enel? O il mutuo?

    Roberto sentiva un’incazzatura crescere proporzionalmente alla calma e alla pacatezza delle parole di quel premier che sembrava uscito, oltre che dalla naftalina, da un cartone animato. Chi si riempiva la bocca con le pseudo ricette contro la crisi erano tutti milionari o giù di lì. Ma perché i sacrifici non li facevano fare prima a tutta la cricca piena di soldi dei politici e dei loro compagni di partito? Alle lobbie bancarie? Ai trafficoni della finanza?

    - Che stronzi. Tolgono i soldi alla vecchietta e loro girano in auto blu.

    Ormai in televisione non si parlava d’altro, solo dei soldi presi in ogni maniera, lecita o illecita dall’oligarchia politica organizzata meglio della camorra per succhiare soldi e vita alle persone.Particolarmente disgustoso poi era il tentativo di addossare la colpa di tale sfascio all’evasione fiscale. Non quella vera, quella che fa milioni di nero in un colpo solo e li porta in svizzera in barba a qualunque controllo. No, bisognava mettere all’indice i piccoli commercianti, gli uomini di bottega, quelli che evadevano sì, ma per poter sopravvivere, obbligati dall’altissima ed iniqua tassazione. Quanto nero poteva mai fare un parrucchiere? Un salumiere o un panettiere? Chiaramente Roberto pensò che quello fosse un palese tentativo di distogliere l’attenzione degli italiani dal vero problema: l’enorme costo ingiustificato della politica a partire dalle auto blu. Ben seicentomila avevano indicato su internet con un costo solo per quello pari a venti miliardi di euro l’anno.

    - Venti miliardi! E questa è solo una goccia nell’oceano. Sono un coglione, siamo dei coglioni. Ma come, con tutto quello che guadagnano, pure l’auto con tanto di autista dal Presidente della Repubblica all’amministratore della più inutile società a partecipazione pubblica? Ma poi, andrebbe anche bene pagare se ci fossero dei risultati decenti. No, qui non va, non può andare.

    Di tutti questi discorsi, alcuni in televisione, altri, i più sinceri su internet si poteva rimanere solo agghiacciati. Fu in quel momento che il cervello ebbe come un’illuminazione a un’altra domanda:

    - Ma come mai le banche che hanno ricevuto centinaia di miliardi dal fondo monetario al tasso dell’uno per cento non li immettono nell’economia reale?

    E già, perché non li davano ai tanti imprenditori a corto di liquidità? Non avrebbe questo aiutato il sistema a ripartire, a mantenere i posti di lavoro anziché perderli?A far girare l’economia come si dice? Di solito le banche impiegano i soldi per averne un guadagno, quello era il loro mestiere da quando il mondo esisteva. E allora, perché li tenevano parcheggiati senza usarli? I casi erano due o li stavano utilizzando per comprare titoli di stato italiano, cercando così di mantenere lo spread sotto controllo e ricavandone comunque un facile guadagno visto i tassi intorno al quattro, cinque per cento oppure…

    - Vuoi vedere che qui sta andando tutto a rotoli? Ho capito. Forse. Stiamo diventando il terzo mondo, l’africa del 2030.

    Certo Roberto non era un economista, però gli occhi per guardarsi in giro ce li aveva. Con l’avvento della globalizzazione e la crescita fortissima del BRIC ( Brasile, Russia, India, Cina ) la realtà vera stava nell’impossibilità di continuare a produrre non solo in Italia ma un po’ in tutta Europa. Perfino la Fiat, la fabbrica per eccellenza, il fiore all’occhiello per un centinaio di anni dell’Italia stava sbaraccando per trasferirsi nei paesi dove la manodopera costava decisamente meno e i ritmi di crescita del PIL viaggiavano al sette/otto per cento all’anno. Il lavoro e i soldi per il successivo ventennio sarebbero girati nelle economie emergenti. Le banche non sganciavano più i soldi perché non si era alla fine della crisi ma solo all’inizio di una lunga decadenza senza futuro alcuno. Probabilmente, in base ai loro dati, la moria di aziende sarebbe stata un’ecatombe via, via sempre più devastante.

    Gli venne il rigetto, spense quella porcheria indigesta trasmessa dal video e si lanciò in una ginnastica impropria, sicuramente non consigliabile dopo mangiato. Aprì le gambe e prese a flettersi cercando di toccare con la punta delle mani il pavimento ma tutto il grasso accumulato nell’ultimo decennio rendeva l’impresa impossibile. Contò fino a cento e due piegamenti prima di arrendersi all’evidenza. La schiena attraversata da un fastidioso dolore che partiva dalla base e saliva fino alle scapole lo convinse a mollare il colpo.

    - Maledetta vecchiaia! Sono un rottame ormai.

    Roberto decise di buttarsi lungo e disteso sul divano incrociando le mani sopra il petto come se fosse un faraone dell’antico Egitto e lasciò che la sua gamba sinistra risalisse il cuscino del divano fino al muro per sentire il ruvido dell’intonaco con la punta delle dita. La domanda che lo assillava era cosa fare da quel momento in avanti.

    - Computer? Eh… mm. Vado a dormire? Ma sono solo le nove e un quarto. Andare a letto così presto è roba da pensionati. Fanculo, accendo la tv, facciamoci un secondo round.

    Quella sera, manco a farlo apposta, trasmettevano per la centesima volta un film che gli era entrato nel cuore. Lo aveva visto da ragazzino e lo aveva segnato. Rambo infatti, nella sua testa, non rappresentava un film come tutti gli altri ma la metafora stessa della vita, lo sfigato perdente che combatte una battaglia persa in partenza ma lottando a oltranza con coraggio, con il cuore con la sua stessa essenza di essere umano. Così umano da far sembrare manichini vuoti tanti personaggi incontrati nella vita. Conosceva ogni fotogramma, tutta la musica, lo sguardo penetrante di Stallone. Per qualche minuto si sentì di nuovo ragazzino con la voglia di lottare ma poi la paranoia lo spense arrivando come un soffio di vento addosso a un fiammifero. Ci si mise anche il sonno a rimbambirlo con il suo torpore. Il risultato fu che un’ora dopo, cotto a puntino, era pronto per infilarsi sotto le coperte. Eppure non si sentiva sereno in quel dormiveglia. I pensieri erano fantasmi che comparivano e scomparivano, uno dietro l’altro in una processione dolorosa. Spense la luce e si cacciò sotto le coperte, rannicchiandosi nella famosa posizione fetale. Non faceva freddo, c’era giusto quella temperatura in equilibrio, fresca ma non glaciale. L’ideale per sfilarsi anche i calzini.

    - Speriamo di dormire stanotte.

    Feedback dal passato

    In genere, quando aveva l’animo tormentato, faceva fatica a prendere sonno e gli si alzava la temperatura tra un giramento di posizione e l’altro ma quella notte stranamente no, nemmeno una goccia di sudore. Tutto sembrò filare liscio per un paio d’ore in cui Morfeo se lo coccolò ben bene. All’improvviso tuttavia gli si accese una lampadina nel cervello o meglio fu come se partisse una vecchia cinepresa di quelle usate agli inizi del novecento. In qualche modo la pellicola prese a scorrere tornando indietro di molti anni. La luce era forte, intensa a tal punto da rendere difficile distinguere chiaramente le immagini.

    - Ma sono io.

    Pensò, vedendo un’imponente chiesa tutta composta di mattoni rossi e sotto un piccolo scanzonato ragazzino vestito di marrone con tanto di coppola in testa correre in mezzo a tanta gente vestita a festa sul sagrato. Il bambino aveva una bella finestrella in mezzo ai denti, uno dei suoi ultimi denti da latte se n’era andato quello stesso giorno.

    - La mia comunione.

    Sorrise Roberto nel dormiveglia, in quella fase che tingeva di nebbia lo spazio tra la vita e la soporifera morte, in quell’attimo così reale da poterlo toccare. La curiosità gli prendeva a morsi il cervello tanto che cercò di resistere il più a lungo possibile affinché la visione non svanisse nel bianco intenso. Soprattutto si vedeva allegro e spensierato nella gioia tipica dei bambini. La vita lo aveva reso serio e triste con il tempo, crescere aveva decisamente peggiorato il suo umore nel vivere di tutti i giorni. Senza renderseneconto alzò la mano verso il vuoto della stanza nel vano tentativo di toccare se stesso oltre un quarantennio prima. Aveva bisogno di riprovare quella serenità.

    E ancora si rivide a tirare calci a un pallone all’oratorio nel campo da gioco solitamente usato per il basket. Il goal bisognava farlo nel trespolo che teneva su il cartellone del canestro. Le grida di tanti altri bambini, sole dappertutto, il cervello cominciò a rilasciare serotonina rilassando così la tensione accumulata nella giornata. Senza comprenderlo razionalmente stava ripercorrendo le fasi della sua vita come se cercasse qualcosa di bello, attimi per compensare quel senso crescente di disperazione interiore. Fu in quel momento che in un cambio immagine rapidissimo gli scoppiò in testa anche il temporale estivo cambiando lo scenario ma non la piacevolezza dell’idea. Tuoni e lampi e lo scroscio su di lui rigorosamente

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