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Solstice - L'incantesimo d'Inverno
Solstice - L'incantesimo d'Inverno
Solstice - L'incantesimo d'Inverno
Ebook649 pages8 hours

Solstice - L'incantesimo d'Inverno

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About this ebook

Emma ha quasi sedici anni e due sorelle, Eileen e Constance. Vivono a Saint Claire, tranquilla cittadina del Connecticut, insieme alla madre Kate e a Miranda, la misteriosa donna comparsa nelle loro vite da quando il padre le ha abbandonate.

Le Hataway non sono donne normali, ma streghe costrette a nascondere la loro natura e i loro poteri per rispettare le leggi dei Custodi, ai quali devono obbedienza. Leggi che Emma ha infranto quando era solo una bambina per aiutare quelli che sarebbero diventati i suoi migliori amici, Sam e Alec.

Da allora i tre sono inseparabili nonostante Emma sia costretta a nascondere il segreto che più le sta a cuore.

Non è l’unica, però, a mentire alle persone che ama. Cosa nascondono Kate e Miranda? Quali sono i terribili segreti seppelliti nel loro passato? Perché il padre è scomparso all'improvviso senza lasciare traccia?

Alec Stevens ha sedici anni e molte domande. Spesso ha la sensazione che Emma conosca tutte le risposte.

Emma. Cosa lo lega a lei e allo stesso tempo la rende irraggiungibile? Che cosa nasconde?

Nel tentativo di svelare e nascondere i segreti che li circondano, Alec ed Emma non si accorgono che qualcuno si muove e li osserva nell'ombra in attesa che arrivi il momento di mettere in atto la sua vendetta.

La storia, raccontata in prima persona da Emma e Alec, inizia con due episodi dell'infanzia destinati a cambiare per sempre le loro vite.

Dopo un salto di dieci anni li ritroveremo alle prese con un sentimento molto umano, un passato famigliare turbolento e dei poteri che non facilitano le cose, anzi...

Una storia d’amore, di amicizia e di legami famigliari burrascosi, ma profondi. Con un pizzico di magia.
LanguageItaliano
Release dateSep 16, 2014
ISBN9786050322057
Solstice - L'incantesimo d'Inverno

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    Solstice - L'incantesimo d'Inverno - C.e.a Bennet

    C.E.A Bennet

    Solstice L'incantesimo d'Inverno

    UUID:

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Il segreto Emma

    Giochi da ragazze Emma

    Nascondino Emma

    Tutto al suo posto Alec

    Streghe Emma

    Confidenze Emma

    Una giornata di scuola Emma

    Distanze di sicurezza Alec

    Discorsi da mocciose Emma

    Sam Emma

    Il vestito adatto Emma

    Una serata quasi danzante Alec

    Partenze Emma

    Qualcosa che non avevo notato Emma

    Sorprese Emma

    Un tempismo perfetto Alec

    Come volevasi dimostrare Emma

    L’intervista Emma

    Il blocco Emma

    Per il tuo bene Alec

    Una mano lava l'altra Emma

    La coppia perfetta Emma

    Non è quello che sembra Emma

    A metà strada Alec

    Dolcetto o scherzetto? Emma

    Alcune tessere del puzzle Emma

    The show must go on Emma

    Mentre dormi Alec

    Una nonna per amica Emma

    Sam e Charlie Emma

    Un amico di vecchia data Emma

    Un regalo per noi Emma

    Un quasi piano e un ottimo risveglio

    Stiamo lavorando per noi Emma

    Promesse mantenute Emma

    Quando non ero ancora nata Emma

    Buon Natale Alec

    Tale padre, tale figlia Emma

    Saluti e spiegazioni Emma

    La casa sulla spiaggia Emma

    Conoscenze in comune Alec

    Con tutta la forza che ho Emma

    Ringraziamenti

    C.E.A Bennet

    ~ Solstice ~

    L'incantesimo d'Inverno

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    Realizzato da C.E.A Bennet

    Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Titolo originale:

    Solstice - L'incantesimo d'Inverno 

    Copyright © 2014 by C.E.A Bennet

    All rights reserved

    www.thesolsticesaga.it

    ISBN 9786050322057

    Prima edizione digitale: settembre 2014

    In copertina: immagine © Umberto Brambilla

    Il segreto

    Emma

    Da dove mi trovavo la visuale era ridotta. Vedevo solo le due teste e le spalle, strette nei giacconi pesanti, uno rosso e l’altro blu, indispensabili per i rigidi inverni del Connecticut.

    Il vento soffiava forte, come aveva fatto per l’intera settimana e un pallido sole tramontava dietro gli alberi del parco, stiracchiando i suoi deboli raggi fino ai muri giallognoli della scuola.

    Un comune venerdì pomeriggio di novembre a Saint Claire, 13.457 abitanti, una quarantina di minuti di auto da Hartford, un quarto d’ora scarso dall'Oceano Atlantico.

    Una di quelle cittadine di provincia dove ci si conosce tutti. I ragazzi frequentano la stessa scuola dai cinque ai diciotto anni e hanno il tempo di diventare amici, innamorarsi e odiarsi a morte.

    I proprietari di teste e spalle sbirciavano a intervalli regolari dal muretto che costeggiava il lato nord e tracciava una netta linea di confine tra l’edificio scolastico e l’ampio parcheggio.

    Dietro di loro la rastrelliera delle biciclette si andava svuotando, mano a mano che gli alunni delle classi medie, troppo grandi per lo scuolabus ma ancora lontani dalla patente, liberavano i loro mezzi da catene e lucchetti e pedalavano veloci verso la libertà.

    Una girandola di giacche a vento, zainetti, voci e risate mi turbinava intorno intontendomi. Tormentavo nervosa le maniche del piumino rosa confetto. Adesso o mai più, continuavo a ripetermi.

    Adesso o mai più.

    Sapevo cosa stavano osservando con tanta attenzione, nascosti tra muretto e biciclette. Tony Marshall sarebbe uscito a momenti dalla porta principale con un paio di compari al seguito. Era il bulletto della scuola e, da qualche settimana, l’incubo peggiore di Sam Miller e Alec Stevens. Rispettivamente giacca blu e giacca rossa.

    Alec e Sam. Sam e Alec. Classe seconda, vicini di casa. Amici per la pelle.

    Sedevano nel banco dietro di me e la mattina prendevano lo scuolabus alla mia stessa fermata. Erano miei vicini di casa e miei compagni di classe, ma non erano miei amici. Avrei tanto voluto che lo diventassero.

    Li vedevo girovagare per il quartiere, correre nel cortile della scuola, scambiarsi occhiate complici e segrete. Invidiavo la loro libertà, la conoscenza profonda che avevano l’uno dell’altro. Un mondo dal quale gli altri erano esclusi. Dovevo farne parte anch'io o meglio sentivo che avrei dovuto.

    Da alcune settimane, però, libertà e spensieratezza avevano subito un brusco calo. Tony e i suoi amici, più grandi di noi di un paio d’anni e decisamente più grossi, li avevano presi di mira.

    Ogni mattina all'entrata della scuola i loro cestini venivano requisiti e svuotati. Per giorni Sam e Alec avevano saltato il pranzo.

    Il gioco, però, aveva perso presto il suo fascino. Tony non ci aveva pensato due volte ad alzare la posta e pretendere il pedaggio in denaro. Eppure, nonostante tutto, i due piccoletti non avevano ceduto ai ricatti e nemmeno alla tentazione di chiedere aiuto ai genitori o alla maestra. Nemmeno a Justin, il fratello maggiore di Alec. Una dimostrazione di coraggio che non aveva condotto a grandi risultati se non a una ripetuta serie di pestaggi. Tutti i giorni alla fine delle lezioni prima di prendere l’autobus.

    Avevano resistito due settimane, poi avevano messo a punto un piano: aspettare nascosti dietro il muretto le 16.15, ora in cui Mr Tiggs, autista dello scuolabus, avrebbe aperto le porte della salvezza. A volte funzionava, il più delle volte no.

    Osservavo le loro manovre da giorni. Una parte di me li ammirava per come sopportavano le angherie di quello spocchioso di Tony.

    Sarebbe stato facile avvicinarli e offrire il mio aiuto, se fossi stata un maschio. Sarebbe stato ovvio. Saremmo stati amici naturali, fratelli di sangue da sempre.

    Invece ero una femmina e avevo poche speranze di star loro anche solo lontanamente simpatica. A meno che… Se avessi dimostrato di poter essere un’amica leale e coraggiosa, non soltanto una piscia-a-letto con le trecce?

    Così mi era venuta l’idea. Era rischioso a dire la verità. Se mamma lo avesse scoperto si sarebbe arrabbiata tantissimo, ma ne sarebbe valsa la pena. Cosa facevo di male in fondo? Tony era cattivo, se lo meritava.

    Il mio piano consisteva nel convincerlo a sancire una tregua e per riuscirci dovevo offrire una valida merce di scambio. Sapevo come fare per procurarmela.

    Sarebbe bastato concentrarmi su Tony e vedere il suo segreto. Ero sicura che ne avesse uno.

    Tutti hanno un segreto. Una cosa fatta o detta, soltanto pensata o che è successa. Qualcosa che non si vuole far sapere a nessuno. Il mio è vedere i segreti degli altri. Sono una bambina speciale.

    Almeno così aveva detto mamma. Lo sono anche le mie sorelle, Eileen e Constance, ma nessuno al mondo doveva saperlo. Sarebbe stato troppo pericoloso.

    «Le persone hanno paura di chi è speciale come noi e la paura spinge a fare cose terribili. Potrebbero portarvi via da me e dalla nonna, capite bambine? Deve restare il nostro segreto». Così aveva detto e non ci saremmo mai sognate di raccontarlo a qualcuno o di usare le nostre capacità in pubblico. «Mai» aveva aggiunto. «Non provate a disobbedirmi, vi scoprirei immediatamente». Era vero. Mamma sapeva sempre quando stavi per dire una bugia.

    Era il suo segreto. L’avevo visto. Mi era costato una settimana di punizione e il discorsetto sulle bambine speciali, ma diventare amica di Sam e Alec valeva davvero un castigo o una predica.

    Avevo pensato a tutto. Il mio era un piano infallibile e molto più efficace delle loro fughe all'ultimo minuto.

    Eppure non mi decidevo a passare dalla teoria ai fatti. Vedere il segreto di Tony era stata la parte più semplice. Avevo avuto l’imbarazzo della scelta: scartate le botte che prendeva dal padre (una cosa terribile, non ero così meschina) e gli innumerevoli furtarelli commessi ai danni di amici e compagni (se l’avessero scoperto non gli sarebbe importato granché), avevo optato per un segreto che mi avrebbe assicurato la vittoria a mani basse nella trattativa. La resa incondizionata. Se avessi spifferato quello che sapevo, Tony rischiava la sospensione.

    Invece esitavo. Da giorni conoscevo ciò che mi serviva per mettere in atto il mio salvataggio, ma due diversi tipi di paura mi inchiodavano.

    Paura numero uno: mamma. Finché avessi tenuto il segreto per me, potevo coltivare la speranza che non si accorgesse della mia disobbedienza. Se qualcosa fosse andato storto, avrebbe impiegato mezzo secondo per capire come avevo fatto a mettermi nei pasticci.

    Paura numero due: Sam e Alec. Se mi avessero respinta? Potevano non voler dare ascolto a una femmina. I maschi sono così ottusi a volte.

    Da giorni, al suono della campanella, cercando di non dare troppo nell'occhio, sgattaiolavo dietro di loro e li seguivo fuori da scuola. Li osservavo appostarsi dietro il muretto e aspettare il momento in cui Mr Tiggs avrebbe aperto le porte dello scuolabus, ma prima che potessi anche solo pensare di agire e decidermi a esporre il mio piano, loro si mettevano a correre.

    Forse non avevo i riflessi abbastanza pronti. Forse era una scusa come un’altra per rimandare.

    Per questo motivo, come incentivo a darmi una mossa, avevo fissato una scadenza: venerdì pomeriggio.

    Venerdì o mai più.

    E venerdì era arrivato, preciso e puntuale, come qualsiasi altro venerdì. Puntuale era stata la campanella delle 16.00, che aveva annunciato la fine della scuola. Puntuali i nostri compagni, schizzati veloci fuori dall'aula. Tutti a parte Sam e Alec.

    Avevano raccolto le loro cose e messo lo zaino in spalla trascinandosi verso l’uscita. Raggiunto il solito nascondiglio, si erano acquattati con l’intenzione di starsene lì per i restanti dieci minuti di agonia.

    Solo qualche metro e la rastrelliera delle biciclette mi separavano da loro. La rastrelliera delle biciclette e la mia vigliaccheria.

    Ancora una volta me ne stavo impalata a tormentare le maniche del piumino. Dovevo sembrare il più convincente possibile e avevo il sospetto che il rosa confetto non aiutasse la faccenda della credibilità. Un passo dopo l’altro mi avvicinai tanto da essere a portata d’orecchio.

    «Ciao». Rigida, braccia lungo i fianchi.

    Che cavolo di voce mi era uscita? Sembrava il pigolio di un pulcino. Nessuno dei due si era accorto della mia presenza.

    Emma Hataway. Bambina speciale e inudibile.

    Molto bene. Riproviamo.

    «Ehm… Ciao!». Lo dissi più forte, cercando di mettere in quel ehm tutto il coraggio che mi rimaneva. Finalmente si voltarono nella mia direzione. Una faccetta molto stupita e una molto irritata. Occhi grigi. Occhi nocciola.

    «Ciao Emma». Gli occhi grigi e buoni di Sam erano sorpresi e dilatati dalla paura.

    La mia geniale idea forse non era poi tanto geniale. Oppure l’idea era geniale, ma il momento sbagliato. Chissà.

    «Mocciosa vuoi farci ammazzare? Non stiamo giocando a nascondino, se Marshall vede te, vede anche noi».

    Alec pronunciò la frase a denti stretti, con una specie di singulto strozzato nella voce. Da come mi aveva guardata avevo l’impressione che me l’avrebbe urlato in faccia, se non avesse avuto il terrore di attirare l’attenzione. Mi diede di nuovo le spalle e tornò a fissare impaziente lo scuolabus. Sam mi concesse un sorriso tirato, ma imitò svelto l‘amico. Un successone.

    Tutte le mie convinzioni si sciolsero come neve al sole. Il primo istinto fu di dar retta al mio orgoglio ferito, girare i tacchi e non farmi rivedere mai più.

    Una vocina nella testa, però, mi ripeteva che non avrei avuto un’altra occasione. Dovevo andare fino in fondo. Poco importava se non mi avrebbero voluto come amica, almeno li avrei aiutati. Arrivata a quel punto, la figura dell’idiota l’avevo fatta e nella peggiore delle ipotesi potevo sempre chiedere a mamma di cambiare scuola. O continente.

    Presi il coraggio a due mani. Briciole di coraggio a dir la verità. Lo buttai fuori tutto d’un fiato per paura che l’emozione mi mozzasse la voce nel mezzo della mia rivelazione.

    «È stato Tony» ansimai. Avrei dovuto essere un pelo più incisiva. Ci riprovai prima che avessero il tempo di replicare e cacciarmi via. Alec non sembrava un tipo tanto paziente.

    Uno… due… tre…

    «È stato Tony a scrivere quelle cose orribili sulla maestra Taylor nel bagno dei maschi. L’ho visto».

    Dio fa che mi credano. Fa che mi credano.

    Di nuovo la faccetta stupita di Sam e quella irritata di Alec.

    «Allora?». Il tono della voce era più seccato dello sguardo, ma se non altro avevo attirato la loro attenzione.

    «Ho un piano». Il miserabile secondo di considerazione mi aveva dato la sicurezza per continuare. Ero pronta a vuotare il sacco. O la va o la spacca.

    «Di che diavolo stai parlando?». Gli occhi nocciola di Alec erano piantati nei miei. Scocciati, senza dubbio, ma anche interessati.

    «Un patto. Una tregua con Tony. Nessuno spiffera se a partire da oggi vi lascerà in pace». Detto così sembrava la soluzione più ovvia del mondo. Nulla poteva andare storto.

    «Wow! Forte!». Sam si voltò con slancio verso l’amico, traboccante di speranza e sollievo. Nello stesso istante la bocca di Alec si piegò in una smorfia di autentico disgusto.

    «Non ci facciamo aiutare da una femmina. Scordatelo».

    Reazione prevedibile. Alzai gli occhi al cielo in un moto di sincera stizza. Davvero mi credeva così ingenua?

    «Ovviamente» dissi scandendo bene le lettere e trattenendo a stento l’irritazione di dover spiegare una cosa così scontata, «dirò che l’avete visto voi. Sarò la vostra portavoce». Portavoce suonava bene. Una cosa da bande. Ai maschi piacevano quelle cavolate.

    Sam mi guardava ammirato. Non sembrava dispiacergli che fossi io a tirarli fuori dai guai. Forse gli stavo simpatica. Uno su due non era male come risultato. Alec sembrava più difficile da convincere. La parola giusta era sospettoso.

    Pericolosamente sospettoso. I sospetti portano domande e non c’erano risposte che volessi dare.

    «Tu cosa ci facevi nel bagno dei maschi? Perché non sei andata subito a dirlo alla maestra?».

    Ecco. Giusto per fare un esempio di domande a cui non volevo rispondere.

    Non staccava gli occhi dai miei. Aspettava un mio passo falso per dimostrare a Sam che di me non ci si poteva fidare.

    «Perché non sono una spia» ribattei piccata, ma compiaciuta.

    Avevo capito molto in fretta che per una come me, il modo migliore di sopravvivere a scuola era farsi i fatti propri. Senza contare che, considerato il modo in cui l’avevo scoperto, non mi sarebbe servito molto andare dritta da Miss Taylor. A meno che non volessi farmi scoprire da mamma o aggiudicarmi un nemico mortale per il resto delle scuole elementari, tutte le medie e forse le superiori. Chissà se Tony Marshall mi avrebbe inseguita fino al college? Meglio non pensarci.

    «Non sei una spia, ma resti una mocciosa. Cosa ci facevi nel bagno dei maschi?»

    Non avevamo fatto molti passi avanti e Alec non sembrava intenzionato a mollare la presa. Beh, gli avrei chiuso quella boccaccia petulante una volta per tutte.

    «Mi nascondevo da Milly Bloom e Cinthya Wright». Lui pure si nascondeva da qualcuno. Forse quella lingua l’avrebbe capita.

    Avevo anch'io il mio piccolo inferno personale. Non era una loro esclusiva essere vittima di compagni prepotenti. Spesso mi capitava di trovare rifugio negli angoli più nascosti della scuola: sgabuzzini, sala delle caldaie, bagni dei maschi. Tutto pur di sfuggire alla derisione pubblica e a svariate tipologie di scherzi crudeli. Eileen cercava di proteggermi, ma non poteva starmi appiccicata tutto il giorno. Fortunatamente Milly eguagliava Tony in intelligenza, ma non in corporatura. La mia patetica scusa era plausibile. Una bella mezza verità. Sempre meglio di una bugia tutta intera.

    Con la coda dell’occhio vidi lo scuolabus entrare nel parcheggio. Tony e due dei suoi fedelissimi, Gilroy Ford e Marcus Shiffer, ridevano in modo sguaiato appoggiati alle loro biciclette.

    Ogni tanto lanciavano brevi occhiate in direzione dell’ingresso della scuola. Ci aspettavano o meglio li aspettavano. Non avevamo più molto tempo. A momenti Mr Tiggs avrebbe aperto le porte per far salire gli studenti in fila indiana alla fermata.

    «Allora?» li incalzai nervosa.

    Ti prego di' di sì.

    Sam guardò implorante l’amico.

    «Per me va bene, Alec. Emma non ci tradirà e non dovremmo più preoccuparci delle botte e di tutto il resto». I suoi occhi erano così buoni, così liquidi. Come poteva Tony Marshall picchiare un bambino come Sam? Avevo visto quanto Alec potesse risultare irritante e potevo intuire con facilità cosa scatenasse in un tipo come Tony, ma Sam? Sam era la quintessenza della simpatia.

    Si scambiarono una lunga occhiata. Uno sguardo che aggiunse mille parole a quelle dette a voce alta. Alec, combattuto, iniziò a fissare un punto invisibile, come se stesse cercando qualcosa. La frase giusta per controbattere. Un motivo ragionevole per deludere Sam. Non li trovò e si arrese. Scosse le spalle. Un unico movimento che arrivò alla testa, coronata di riccioli neri.

    Come se avesse ricevuto un silenzioso assenso Sam si alzò e lasciò il suo nascondiglio. Mi tese la mano, sorridente e sollevato. La strinsi. Era calda, morbida.

    «Andiamo?» chiese rivolto all'amico. Alec si alzò controvoglia. Chiunque si sarebbe accorto che accettare il mio aiuto gli costava parecchio. Se non fosse stato per Sam si sarebbe fatto picchiare fino al quarto anno di liceo pur di non aver a che fare con me.

    Le porte dello scuolabus si aprirono e gli studenti cominciarono a salire per prendere posto. Tony ci aveva visto e aspettava con un ghigno soddisfatto sul faccione rotondo.

    Tutti e tre guardammo in direzione del parcheggio, verso la fine di tutta quella storia. Inspirai profondamente. Era ora di entrare in scena.

    «Andiamo» mormorò Alec tra i denti.

    Dandoci le spalle si diresse verso lo scuolabus.

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    Trattare con Tony fu la parte più facile della faccenda. Più complicato fu iniziare il mio discorsetto diplomatico prima che il bullo e la sua banda dessero il via al consueto pre-autobus tra amiconi.

    Aveva già sollevato il braccio per colpire uno dei due, mentre Ford e Shiffer li bloccavano tenendoli per le braccia. Riuscii a trattenerlo, afferrando un lembo della giacca.

    Il pugno chiuso si fermò a mezz’aria non tanto per la mia presa d’acciaio, ma per la sorpresa di sentirsi trattenere. Non doveva essere capitato molto spesso.

    «Non lo farei fossi in te». Non avevo paura. Era impossibile che fosse così stupido da alzare le mani su una bambina piccola e indifesa davanti a tutti quei testimoni.

    «Cosa vuoi Hataway? Se cerchi rogne ce ne sono anche per te». Gli occhi azzurri, glaciali, sembravano divertiti dalla possibilità. Iniziai a sospettare che Tony non facesse tanta distinzione tra i sessi come credevo. Arretrai impercettibilmente.

    La dea bendata venne in mio soccorso. Miss Taylor varcò l’uscita principale in quell’istante e si diresse verso l’auto parcheggiata nel piazzale. Molto vicino allo scuolabus.

    Tony sembrò abbandonare l’idea di picchiarci nell’immediato futuro. Approfittai della situazione cercando di apparire decisa.

    «Gentile da parte tua, ma no grazie» risposi educata. Volevo dimostrarmi indifferente alle sue minacce, ma non percepì l’ironia. «Abbiamo una proposta da farti» proseguii serafica.

    Cercai sul suo volto l’effetto delle mie parole. Gli occhi gelidi erano resi più minacciosi dalle sopracciglia aggrottate che li sormontavano. La grossa testa di capelli scuri, tagliati a spazzola era coperta da un vecchio berretto grigio, tutto sformato. Restò in silenzio in attesa che proseguissi e lo accontentai.

    «Sono qui come portavoce. Ti conviene ascoltare se non vuoi passare un mare di guai» dissi guardando in direzione della maestra.

    Miss Taylor, in piedi accanto all’auto, trafficava nella borsa alla ricerca delle chiavi. Scoccai a Tony un’occhiata allusiva. Chissà se il bullo della scuola conosceva il significato del detto avere la coda di paglia. Il buon vecchio Tony abboccò come un pesce all’amo o meglio come uno squalo a un piccolo, piccolissimo amo.

    In un attimo mi fu addosso. Ci separavano solo pochi centimetri. Sovrastare è un termine che non rende l’idea. Avevo la sensazione che sarebbe bastata la sua ombra per spiaccicarmi come un moscerino.

    Sam scattò in avanti cercando invano di liberarsi dalla presa di Ford. Alec si divincolava furioso nella stretta dell’altro bullo. Per spalleggiare Sam, certo. Non per difendere me, ma mi piacque pensarlo. Fu una sensazione gradevole, sufficiente a farmi sentire più sicura.

    Non ero sola. Se Tony mi avesse presa a calci qualcuno mi avrebbe aiutato a rialzarmi. Dovevo solo mantenere la calma. Farmi prendere dal panico non sarebbe servito a niente, anzi. Rischiavo di scatenare una visione e, per di più, fuori controllo.

    A volte capitava. Se ero molto emozionata o spaventata, il segreto arrivava prima che potessi provare a fermarlo. Poteva essere di chiunque, non ero in grado di scegliere il film in momenti come quello. Per alcuni lunghissimi minuti sarei stata completamente assente o sarei potuta svenire. Decisamente poco funzionale alla faccenda.

    Calma. Calma e sangue freddo.

    Inspirai a fondo. Avevo bisogno di una sferzata di aria fredda, che mi bruciasse i polmoni, che mi tenesse attaccata alla realtà. Ancorata a terra.

    Cosa poteva succedere? Al massimo Tony mi avrebbe mollato un pugno, mentre io potevo farlo sospendere. Nella migliore delle ipotesi espellere.

    Alcuni ragazzi si erano avvicinati, incuriositi dall’insolita scena: un soldo di cacio a un millimetro da un pugno di Tony Marshall.

    Alzai lo sguardo verso di lui. Solo un soffio ci divideva. Sentivo il suo alito aglioso sulla testa. Sperai che la mia voce suonasse abbastanza ferma.

    «Ti hanno visto, Tony» sussurrai per non farmi sentire da chi ci circondava. Con la coda dell’occhio potevo vedere la giacca viola di mia sorella Eileen. Inconfondibile.

    Signore e signori ecco a voi la testimone oculare della mia disobbedienza.

    Dovevo rimanere concentrata. A mamma e a Eileen avrei pensato più tardi. Tony mi guardava torvo in attesa di una spiegazione. Avevo perso il filo. Dov’ero arrivata? Ah sì, la rivelazione. Il punto in cui Tony mi spacca la faccia.

    «Sam e Alec ti hanno visto mentre scrivevi quelle cose orribili su Miss Taylor» spiegai disinvolta. Mancava solo che mi mettessi a fischiettare.

    Serrai la mascella in attesa del colpo che sarebbe arrivato, ma attesi invano. Tony non mosse un muscolo. Per una frazione di secondo i suoi occhi si accesero di panico. Li strinse fino a farli diventare due fessure. Taglienti come la sua voce.

    «Bravi pidocchi. Siete corsi da mammina a raccontare tutto?» rispose sfrontato, ma non riuscì a nascondere una leggera nota di insicurezza. Tastava il terreno.

    «Non sono degli spioni. Vogliono proporre una tregua». La voce mi si strozzò in gola e le parole mi rotolarono fuori dalle labbra. Dovevo sforzarmi di riprendere il controllo. «Uno scambio di favori».

    Per quanto tempo sarei riuscita a sostenere il suo sguardo feroce? Se avessi abbassato gli occhi avrebbe pensato che eravamo troppo codardi per denunciarlo e avevo il terrore che si mettesse a fare domande. Non ero abbastanza lucida da inventare delle storielle credibili sui come e sui perché.

    Fortunatamente stavamo dando un discreto spettacolo: Miss Taylor aveva interrotto la ricerca delle chiavi e guardava nella nostra direzione. Aveva l’aria di volersi avvicinare per vedere cosa stava succedendo. Tony non aveva più tempo. Prendere o lasciare. La posta in gioco era troppo alta.

    Dopo un minuto, che sembrò eterno, capì di non avere alternative. Si guardò intorno per accertarsi che nessuno lo potesse sentire.

    «Va bene, Hataway. Questa però, prima o poi, me la pagherete. Tutti e tre».

    Si voltò verso Alec e Sam ancora stritolati nelle prese di Ford e Shiffer. Fece un passo indietro e sputò per terra. Mi aveva dato la sua parola. Molto d’effetto devo dire, almeno per una bambina di sette anni.

    Era finita. Il sollievo si propagò lungo tutte le fibre del mio corpo. Ce l’avevo fatta o quasi.

    «Se rompi la tregua Marshall, la rompiamo anche noi. Al contrario di te non abbiamo niente da perdere». Ero sembrata abbastanza minacciosa?

    Tony sprigionava rabbia e frustrazione da tutti i pori. Ricambiò la mia spavalderia con uno sguardo glaciale. Un pensiero gli attraversò la mente e sembrò dargli conforto. Una smorfia, che non poteva essere altro che un sorriso, gli increspò la faccia.

    «Per adesso,Hataway. Aspetterò il momento in cui avrete tutti e tre qualcosa da perdere». Aveva l’aria di essere una promessa.

    Con quel ghigno spaventoso ancora stampato sulla faccia, Tony fece cenno ai due compari di mollare la presa su Sam e Alec. Obbedirono controvoglia. Poi montò in sella alla bicicletta, imitato da Ford e Shiffer, e senza voltarsi, pedalarono attraversando il piazzale, lasciandosi alle spalle la scuola.

    Un brivido mi corse lungo la schiena ed esplose come una bolla d’aria nel cervello. Respirai a fondo, cercando di ricacciare indietro il presentimento nero come la pece, che mi stava invadendo la testa e i polmoni. Vischioso e senza nome si faceva strada e scavava gallerie d’ansia verso il cervello, troppo intorpidito per reagire.

    Conoscevo quella sensazione o meglio la rivivevo. Un allarme muto, istintivo, mi risuonava nelle orecchie e scatenava ricordi troppo dolorosi, sepolti nell’oblio della prima infanzia, dove li avevo nascosti per non doverli affrontare mai più.

    Papà.

    Allora il presentimento non era stato mio ma di Eileen e aveva risuonato come un’eco dentro di me, dentro mamma.

    La paura, quando si abbatteva così intensa, agiva su di noi come su una mente sola, un solo corpo. L’allarme naturale della nostra famiglia si rifletteva tra le figlie fino alla madre.

    Un lampo di lucidità mi riportò nel parcheggio della scuola con Sam e Alec e l’autobus giallo in partenza.

    Oh cavoli. Se l’avevo sentito io, l’avevano sentito le mie sorelle. L’aveva sentito mamma.

    Il presentimento era stato forte e nitido. Potevo ancora sentire il ritirarsi lento e vischioso della pece, mentre lasciava dietro di sé ombre opache e umide.

    Mamma non sapeva chi di noi, quando e perché sarebbe stata in pericolo ma ciò non migliorava la situazione. Ignorava cosa fosse accaduto alle figlie, ma era sicura che qualcosa di terribile fosse successo o sarebbe accaduto in futuro. Dovevamo tornare subito a casa.

    In preda ai sensi di colpa la immaginai mentre si bloccava immobile nel bel mezzo di un’azione, impietrita con gli occhi dilatati dalla paura. Più o meno quello che doveva essere successo a me.

    Sam si era avvicinato e strattonava la manica rosa della mia giacca. Sembrava preoccupato.

    «Emma, dobbiamo andare o perderemo l’autobus».

    La piccola folla di curiosi si era dispersa e Mr Tiggs aveva già messo in moto. Vidi Eileen e Alec salire svelti sul pulmino.

    «Ti senti bene?» chiese Sam, ansioso.

    Ripensai all’immagine che avevo avuto di mia madre. Mi sarei preoccupata anch’io se avessi assistito alla scenetta. Era una bella sensazione, però. Quasi come avere un amico o essere molto vicini ad averlo.

    «Tutto bene». Cercai di annuire con convinzione. Non riuscivo ancora a comandare ai muscoli della faccia di contrarsi in un sorriso.

    Salimmo sull’autobus. Non mi sentivo molto stabile sulle gambe. Se Sam avesse mollato la presa sarei volata faccia a terra.

    Eileen, seduta tra i primi posti, mi lanciò un’occhiata tra il furioso e il preoccupato. Me la sarei dovuta vedere con lei prima di affrontare mamma. Mia sorella aveva visto tutto o comunque abbastanza da farmi passare un mare di guai.

    Mamma avrebbe voluto sapere cosa avesse scatenato il presentimento e avrebbe trovato un aiuto in Eileen. Mentire era fuori discussione, i suoi sensi speciali sarebbero stati ancora più affilati.

    Accidenti. Mia sorella avrebbe rischiato un castigo per coprirmi? Dalla sua faccia avrei detto di no.

    La superai in fretta e seguii Sam in fondo all’autobus, dove aveva preso posto Alec. Sbuffò vedendoci arrivare e si mise a contemplare il panorama fuori dal finestrino.

    Piazzale della scuola batte Emma uno a zero. Mortificante.

    Sam notò la mia espressione delusa e sorrise, stringendosi nelle spalle. Bastò per convincermi a sedere nella fila parallela alla loro. Solo il corridoio centrale ci divideva. Appoggiammo gli zaini per terra e ci voltammo l’uno verso l’altra.

    «Secondo te manterrà la promessa?». Parlava a bassa voce per non farsi sentire dai ragazzi seduti nelle file davanti a noi. Negli occhi, belli come il cielo di novembre, si scatenò una tempesta. Dubbio. Paura. Esitazione. Speranza.

    A cosa si riferiva? Alla debole tregua che eravamo riusciti a strappare per una serie di fortunate circostanze o alla minaccia di farcela pagare alla prima occasione? Minaccia che aveva scatenato il mio istinto di sopravvivenza, facendomi sprofondare nei presentimenti più cupi.

    «Credo di sì». Era vero in entrambi i casi.

    Mi guardò incerto. Con un gesto impacciato passò la mano tra i capelli biondo cenere tagliati corti, come per spazzolare via quei pensieri dalla testa.

    Sull’autobus faceva caldo a causa del riscaldamento e dei giacconi pesanti che ci ostinavamo a tenere addosso per evitare un noioso togli e metti. Le guance di Sam erano arrossate per il calore e gli occhi spalancati, felici.

    Le ultime settimane in balia di Tony e della sua banda dovevano essergli parse lunghissime e terribili. Una volta di più mi convinsi di aver fatto la cosa giusta e sperai che mamma avrebbe capito. Dopo qualche secondo di silenzio apparve un luminoso sorriso, un'altra domanda, un altro discorso. Lontano anni luce da quello strano pomeriggio.

    «Domani verrai alla festa di Cinthya Wright?»

    La festa di Cinthya. Naturale che fossero stati invitati. La cosa strana era che fossi stata invitata io. Cinthya non era precisamente la mia amica del cuore. Di sicuro era stata obbligata a spedire il cartoncino rosa Big Bubble, scritto di suo pugno in bella calligrafia, nel quale si leggeva di essere felice di avermi come ospite al suo party di compleanno.

    La sorella maggiore di Cinthya, Britney, era una studentessa di mia madre. Il timore di inimicarsi la professoressa di storia dell’arte doveva aver avuto un certo peso nella compilazione della lista degli invitati.

    Era l’unica spiegazione plausibile: Cinthya era la più fedele alleata di Milly Bloom e come tale mi odiava. Chissà che rabbia dovermi invitare alla sua esclusiva festicciola. Di nuovo il pensiero mi fece gongolare.

    Riemersi dalle mie riflessioni giusto in tempo. Sulla faccia di Sam era sparito il sorriso ed era riapparsa l’espressione preoccupata. Meglio rispondere prima che cominciasse a prendere in considerazione l’ipotesi che fossi pazza. Cosa mi aveva chiesto? Ehm… Già. L’invito. La festa di Cinthya.

    «Non ho ancora deciso». La sacra arte del temporeggiare.

    L’idea di partecipare alla festa, finendo dritta nella tana del lupo, non mi aveva nemmeno sfiorata. Non ero un’idiota. Poco dopo il mio arrivo sarei stata spinta e chiusa dentro lo sgabuzzino o avrebbero sputato nella mia fetta di torta ed erano le prospettive più rosee che potessi immaginare.

    L’entusiasmo di Sam, però, mi aveva fatto intravedere nuovi imprevedibili scenari. Andare a una festa con loro. Con Sam che adesso era mio amico. Wow.

    «Perché non vieni con noi? Ci accompagna il mio papà. Possiamo darti un passaggio, se vuoi».

    Potevo farmelo ripetere due volte? Saremmo arrivati alla festa insieme. Doppio wow.

    «Va bene, grazie». I muscoli del viso scattarono in un sorriso. Sincero, entusiasta, senza ombre. Sentivo sulla faccia l’espressione idiota che non riuscivo a trattenere quando ero felice. Avrei dovuto chiedere il permesso a mamma… Oh cavoli. Non avevo considerato che sarei stata in castigo per il resto dei miei giorni.

    Ne era valsa la pena comunque, anche se avevo rischiato di prendere un pugno in faccia e sarei rimasta in punizione per tutta la vita.

    Peccato che Alec non la vedesse allo stesso modo. Aveva abbandonato la posizione finestrino, ma non l’atteggiamento bellicoso. Fissava torvo il sedile con le braccia incrociate, strette al petto. Possibile che ce l’avesse con me? Per quale motivo? Era andato tutto bene.

    Tony se l’era bevuta. Non aveva sospettato nemmeno per un momento che la faccenda fosse farina del mio sacco. Loro erano salvi. Salvi dall’umiliazione e dalle botte.

    Mi odiava tanto da non riuscire a provare un po’ di gratitudine? Non potevo crederci, forse era solo timido.

    «Verrai alla festa, Alec?» domandai, ma me ne pentii all’istante.

    Promemoria per il futuro: collegare il cervello alla bocca. Si voltò lentamente, come se la cosa gli costasse un immenso sforzo. Il suo sguardo scuro e gelido non prometteva niente di buono.

    «Mia madre mi obbliga ad andare e mi tocca pure arrivare alla festa insieme a te, mocciosa» rispose seccato.

    Dovevo imparare a non fare domande stupide a persone idiote. Incassai il colpo e restituii lo sguardo gelido. Beh, l’intenzione era quella.

    «Dai Alec, non fare il musone» lo rimproverò Sam. «Sarà divertente». Così dicendo gli mollò un pugno amichevole sulla spalla.

    Sembrava sapere come prenderlo. Solo una persona buona e paziente come Sam poteva sopportare l’ombrosità di Alec oppure la verità era un’altra. Forse non era sempre così. Magari si comportava così solo con me.

    Una piccola fitta di dolore si fece spazio tra le mie costole. La ignorai. Non potevo permettere che arrivasse agli occhi. Non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi piangere e di tirare su con il naso.

    La mocciosa.

    Sarebbe stato contento. No, non mi avrebbe vista versare una lacrima. Continuai a guardare dritto davanti a me, immersa in cupe riflessioni.

    I pochi chilometri che separavano il nostro quartiere dalla scuola erano già stati percorsi e l’autobus imboccò il viale alberato che attraversava la zona residenziale dove abitavamo.

    Mr Tiggs frenò bruscamente interrompendo il flusso dei miei pensieri e giunto alla fermata aprì le porte. Gli studenti accalcati davanti all’uscita iniziarono a scendere e a salutarsi sul marciapiede.

    Eileen era stata la prima a guadagnarsi la libertà e l’aria pungente del crepuscolo invernale. Aveva fretta di arrivare a casa o di parlare con me o entrambe le cose. Di sicuro era preoccupata per mamma e aspettava impaziente sul marciapiede. Potevo scorgere il suo piumino viola dai finestrini dello scuolabus. Viola era meglio di rosa ed era in tinta con la sua espressione furiosa.

    Ancora pochi istanti e sarebbe iniziato il mio pre-terzo grado. Percorsi abbattuta il corridoio centrale dell’autobus e raggiunsi mia sorella all’aria aperta. Alec e Sam scesero subito dopo di me e si incamminarono verso casa. Dopo qualche metro Sam si voltò e mi salutò con la mano.

    «Ci vediamo domani alle quattro. Ciao Emma». Sorrisi. Sam era mio amico. Alec, mamma, Eileen mi sembrarono meno terribili.

    «Ciao Sam». Non degnai Alec di uno sguardo. Le mocciose non salutano gli idioti.

    Mi voltai con aria di sfida verso mia sorella. Eileen spostò lo sguardo verde giada da me alle due teste che si allontanavano. Quando tornò su di me vi lessi una punta d’incertezza.

    Scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli ramati e strinse gli occhi in un’espressione attenta. Faceva così quando cercava di capire qualcosa che le sfuggiva. Come faceva papà.

    Un’altra immagine dal cassetto dei ricordi, un’altra fitta di dolore tra le costole.

    Non potevo pensarci. Non in quel momento. Scrollai la testa e tornai a concentrarmi su mia sorella.

    Eileen voleva capire le cose per conto suo. Arrivarci da sola, senza aiuti. La irritava chiedere spiegazioni, soprattutto chiederle a me: la sua imbranata e ipersensibile sorella minore. Ciò nonostante e con suo grande disappunto, non aveva scelta.

    Mamma aspettava sulla porta di casa. La vedevamo allungarsi sulle punte dei piedi per avere una visuale migliore della strada. Eileen sbuffò e m’incenerì con lo sguardo.

    «Hai tre minuti per dirmi cos’è successo nel parcheggio. Vedi di essere convincente».

    Quell’atteggiamento da sorella maggiore era davvero irritante considerato che avevamo solo un anno di differenza.

    La guardai torva e m’incamminai verso casa. Tre minuti per tirarmi fuori dai guai. Impossibile. Il castigo e la predica di mamma erano inevitabili. La delusione mi bruciò la gola. Alla festa volevo andare davvero. Il mio cervello corse veloce alla ricerca di una soluzione.

    Eileen non era mamma, non poteva sapere se stavi mentendo. Poteva convincerti, però, a fare qualsiasi cosa, senza che ti rendessi conto che era lei a volerlo. Qualsiasi cosa, anche dire la verità. Se avessi affrontato mamma e sorella insieme non sarei riuscita cavarmela, ma prese separatamente, forse… Decisi di vuotare il sacco, anche se in presenza di Elle non ero mai sicura di essere veramente io a volere qualcosa.

    «Tony Marshall e i suoi amici picchiavano Alec e Sam» esordii tranquilla. «Mi sono limitata a chiedere loro di smetterla».

    Tecnicamente era vero. Non era tutta la storia, era il succo della storia. Eileen sollevò un sopracciglio.

    «Certo, come no e Tony non lo farà più, giusto? Perché gliel’hai chiesto tu». Il tono sarcastico era il suo cavallo di battaglia. Davvero notevole per una bambina di otto anni.

    Comunque giusto per la cronaca non gliel’avevo chiesto, l’avevo costretto. Toccò a me sollevare il sopracciglio, vagamente offesa. Eileen mi guardò per alcuni lunghissimi secondi. Poi capì. È svelta mia sorella. Sarcastica e perspicace.

    «Hai disobbedito di nuovo!» sbottò scandalizzata.

    «Proprio come stai facendo tu in questo momento. Credi che non mi accorga quando fai i tuoi giochetti per ottenere quello che vuoi?». Non potevo esserne sicura, ma era probabile.

    Improvvisamente non sentivo più tanta voglia di raccontarle com’erano andate le cose. Mi bloccò prima che potessi aprire bocca per protestare.

    «Basta così, non voglio sapere altro. Non ho intenzione di dare un altro dispiacere a mamma. Sarà già abbastanza scossa, quindi non fiatare e lascia parlare me».

    Insomma, mia sorella mi aveva concesso la grazia. Per poco non mi misi a saltellare sul posto e non le buttai le braccia al collo.

    Alcuni metri ci separavano dal vialetto d’ingresso. Mamma aspettava in veranda davanti alla porta. Eileen si fermò. Esitò un attimo, incerta se parlare o no.

    «Cosa ti ha detto Tony? Quella cosa è stata così vivida, più forte... Metteva i brividi». Un’ombra saettò rapida nei suoi occhi. Veloce come un battito di ciglia.

    Chissà se Eileen aveva un cassetto dei ricordi che preferiva non aprire mai. Chissà se il mio presentimento le aveva ricordato il suo. Allora non avevamo potuto fare niente. Lui se n’era andato e basta.

    Cercai di ridere disinvolta e riprendemmo a camminare attraverso al giardino.

    «Per un attimo ho avuto paura che avrebbe picchiato anche me».

    Non era proprio una bugia, più di una volta avevo temuto per l’incolumità della mia faccia. Solo che era successo prima che promettesse di farla pagare a tutti e tre e temevo che sarebbe stato un conto più salato di un misero pugno.

    «Lascia perdere ti si legge in faccia. Mamma non si berrebbe questa frottola nemmeno per mezzo secondo. Non voglio finire in castigo per colpa tua» sibilò. Ormai eravamo a pochi passi dalla veranda e dai sensi materni in allerta. «Rimani in silenzio» concluse secca. Mi precedette salendo per prima i gradini.

    Mamma ci aveva viste scendere dall’autobus e incamminarci verso casa. Aveva potuto costatare con i suoi occhi che eravamo vive e in grado di camminare sulle nostre gambe, così aveva permesso all’ansia di fare spazio all’irritazione. Aspettava nervosa in attesa di risposte.

    Gli occhi scuri, vigili. La figura sottile e slanciata sembrava goffa, imbacuccata nel vecchio maglione grigio, sformato ma caldo, che portava in casa. I capelli castani erano raccolti in una coda. Alcune ciocche più corte e sottili erano sfuggite al fermaglio e le davano un’aria disordinata. La mia giovane e bellissima mamma di nemmeno trent’anni. Ci venne incontro e insieme a un’ondata del suo profumo arrivò la voce sollevata ma intorbidita dall’ansia.

    «Bambine si può sapere cosa è successo? Cosa è stato?». Sospettosa frugava con gli occhi e le mani ogni centimetro del nostro viso e dei nostri corpi a caccia di ferite o lividi, cercando tracce di paura o preoccupazione. All’improvviso fermò lo sguardo su di me: Emma l’anello debole.

    Oh no.

    Un battito di ciglia ed Eileen si buttò tra le sue braccia, affondando il viso nel vecchio maglione.

    «Oh mamma scusami, scusami tanto» disse, la voce ovattata dalla lana. «È tutta colpa mia. Mi sono spaventata per una sciocchezza, solo uno stupido quasi - incidente». La parola incidente catturò l’attenzione di nostra madre.

    «Quasi - incidente? Cosa vuol dire? Ti sei fatta male?» la sua voce si fece stridula.

    «Sto bene, mamma. Nel parcheggio della scuola uno di prima media mi ha quasi investito con la bicicletta. È sbucato dal nulla e me lo sono vista arrivare addosso. Fortuna che ha frenato in tempo». Eileen le scoccò un sorrisone.

    Non ero l’unica che avrebbe dovuto lasciar perdere le bugie. Come poteva pensare che mamma si sarebbe bevuta una storia del genere? Elle però poteva convincerti a fare qualsiasi cosa senza che te ne rendessi conto. Anche farti credere che stava dicendo la verità.

    Mamma la guardò confusa. Era probabile che si stesse interrogando sulla genuinità delle sue sensazioni, proprio come avevo fatto io.

    «Mi è sembrato più un presentimento di pericolo che un pericolo immediato. È stato così vivido».

    Il ricordo di quella sensazione e di un’altra, identica ma lontana nel tempo e più dolorosa, si agitò nella mia mente. Per la terza volta in quel pomeriggio.

    «Dai, stiamo bene no?». Elle si sciolse dall’abbraccio e sorrise pacifica. «Cosa c’è per merenda?». Entrò in casa senza attendere una risposta.

    Notevole. Avevo molto da imparare da mia sorella. A confronto le mie macchinazioni erano roba da dilettanti.

    Per una frazione di secondo mamma sembrò esitare in bilico tra quello che aveva sentito e ciò che aveva sotto gli occhi: le figlie sane e salve a casa. Decise di convincersi che fosse tutto a posto. Mi accarezzò la testa e mi tolse lo zaino dalle spalle.

    «Entriamo, amore. Vostra nonna ha fatto i biscotti».

    Nascondino

    Emma

    «Mi raccomando Em». Per la centesima volta mi sistemò la sciarpa intorno al collo. Se solo non fosse stata rosa anche quella… Accidenti.

    Mamma, in ginocchio davanti a me, aveva deciso di ammazzare il tempo tormentandomi con le ultime raccomandazioni. Era nervosa e non semplificava affatto le cose.

    Non succedeva spesso che andassi a una festa. Non succedeva mai a dire la verità. Difficilmente venivo invitata e le rare volte che accadeva mi rifiutavo di andare.

    Era mancato poco che facesse cadere i piatti che stava mettendo nel lavello, quando le avevo chiesto di accompagnarmi a comprare un regalo da portare a Cinthya Wright per la sua festa di compleanno. Prima che potesse riprendersi dallo shock, avevo aggiunto gongolando che sarei andata insieme a Sam Miller e Alec Stevens.

    L’espressione di completo stupore che le si era dipinta sula faccia era stata impagabile. Peccato che dopo lo stupore fosse subentrata la sindrome da mamma apprensiva. A volte pensavo di preferirla infuriata.

    «Comportati bene». Il suo sguardo era colmo di sottintesi. Impossibile non capire a cosa stesse alludendo.

    «Non parlare con la bocca piena e fai quello che ti dicono». Prese un bel respiro. «Niente segreti, capito?». Sentii la faccia avvampare. Sospettava qualcosa?

    Non sembrava arrabbiata, solo preoccupata. Tutto nella norma quindi. Mamma era sempre preoccupata. Soprattutto lo era per me: la figlia più disobbediente, più solitaria, più silenziosa, più difficile.

    Le cose non erano sempre state così. C’era stato un tempo in cui la bambina più felice del mondo non avrebbe potuto competere con me. Un tempo che ricordavo poco, chiuso nel cassetto di velluto. Mi era rimasto il ricordo offuscato di un volto e di una voce. Un tempo in cui eravamo felici e mamma sorrideva sempre.

    Non che avesse smesso di sorridere. C’erano giorni, però, in cui farlo le costava un certo sforzo e c’erano giorni come quello. Giorni in cui la sua vita era talmente piegata su di noi che ogni piccola novità o cambiamento nelle nostre infantili esistenze, proiettavano in lei le tensioni e le paure che provavamo.

    Se avesse potuto avrebbe voluto sentirle al nostro posto, ma non poteva. Così si limitava a condividerle, come se potesse alleggerire il fardello, invece lo rendeva solo più pesante. Vederla soffrire o agitarsi era una prova troppo grande per noi.

    L’unica soluzione per uscire dal circolo vizioso era sembrare felici. Eileen se la cavava alla grande. Per lei era come se quel tempo non fosse mai esistito. Non lo aveva rinchiuso in un cassetto, lo aveva cancellato. Constance non aveva mai vissuto diversamente. Non c’era stato un prima e un dopo per lei. Era nata e c’era già questo. Quanto a me, ero quella cui riusciva peggio di tutte. Mamma lo intuiva nonostante i miei sforzi e si preoccupava.

    A volte sembrava che le cose fossero più difficili per me che per chiunque altro e forse era davvero così. Avevo l’impressione che mi mancasse un pezzo: una sensazione quasi fisica d’incompletezza. Come se, così com’ero, non fossi stata intera.

    Mamma mi guardava dritta in faccia e non era il caso di pensarci proprio in quel momento. Era pronta a cogliere il più minuscolo accenno di nervosismo o paura per poterlo assorbire e farlo suo.

    Inspirai silenziosa e ricambiai lo sguardo con un sorriso. Se non fossi riuscita a farlo arrivare agli occhi non sarebbe servito a niente. Era buffo, ci stavamo studiando a vicenda.

    Una piccola ruga le increspava la fronte bianca e spaziosa, tracciando una linea dritta sopra le sopracciglia chiare e gli occhi castani, screziati di grigio. Occhi scuri come i miei.

    «Va bene, mamma. Ho capito, l’hai ripetuto mille volte» dissi regalandole un altro sorriso per rassicurarla. Teso ma sincero. Ricambiò immediatamente. Le labbra rosa, piccole e piene, scoprirono i denti bianchi come perle in uno scrigno foderato di corallo.

    Si alzò da terra e spazzolò via invisibili granelli di polvere dal cappotto blu, che sottolineava la figura esile e slanciata. Con un gesto della mano ravvivò i capelli, poco più lunghi delle spalle, sciolti in leggere onde disordinate.

    In quel momento sentimmo avvicinarsi il rombo di un motore e il suono, nuovo e allo stesso tempo familiare, mi strappò dalla mia reverenziale contemplazione.

    «Mi sa che sono loro». Mamma guardò verso la strada.

    I vecchi olmi spogli interrompevano a intervalli regolari la superficie lineare del marciapiede. Nascoste dai rami, s’intravedevano le case dei nostri vicini, per lo più bianche o dai colori pastello, sormontate da un bel tetto rosso mattone. La nostra casa si trovava a circa metà della via. Due piani con soffitta, bianca e luminosa, con le imposte dipinte di azzurro. Era stata mamma a scegliere il colore e i fiori, ortensie e tulipani bianchi, che in primavera riempivano le aiuole ai piedi dello steccato di legno chiaro che circondava il giardino modesto ma ordinato. A est della casa affondava le radici una quercia imponente e vecchissima. Sparse sul prato le tracce della presenza di noi bambine: qualche giocattolo abbandonato e una vecchia altalena, che dondolava appesa ai rami della quercia.

    Jefferson Road si dipanava verso nord fino ai confini della città. Faceva parte della zona residenziale di Saint Claire, ma non c’era traccia di grandi sfarzi. Solo le tipiche villette da sobborgo americano, che imperversano nei film, con la veranda, il dondolo e un fazzoletto di giardino.

    Le proprietà dei Miller e degli Stevens erano confinanti, una decina di villette più a nord della nostra. La casa di Alec era la più grande di tutte. Nel corso dei decenni aveva subito parecchie ristrutturazioni e dell’aspetto originario era rimasto ben poco.

    A differenza delle altre, edificate circa nello stesso periodo e abbastanza recenti, la villa degli Stevens apparteneva

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