Il suono dell'India
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Il suono dell'India - Enrica Tedeschi
Enrica Tedeschi
Il suono dell'India
Il suono dell'India
Copyright 2014 Enrica Tedeschi
enrica.tedeschi@gmail.com
Cover di Enrica Tedeschi
Foto di Enrica Tedeschi
Queste memorie di campo sono incluse, in una versione ridotta, in E. Tedeschi (2014) Il giaguaro e la tigre. Narrazioni, interazioni, culture (eBook), seconda edizione de Il giaguaro e la tigre edito da Altrimedia nel 2011 in forma cartacea.
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Table of contents
Anteprima
Assisi
Roma
La via dell'Oriente
Oriente
L'osservatore e l'immaginario
Equivoci gastronomici
Attese
Compagni di viaggio 1
Giovanna
Vittorio
Mara
Silvia
Claudia
Compagni di viaggio 2
Sandro
Monica
Delia
Antonella
Paola
Arrivare in India
Kali Yuga
In India
Sonia
Roshan Villa
New Delhi
Il Tempio di Lakshmi
Stili di viaggio
Il tempio di K.
Verso l'Himalaya
On the road
L'ombra delle caste
Sitalakhet
Arrivo a Sitalakhet
La cena delle beffe
In giro per Sitalakhet
Falso movimento
Il conflitto
Le pratiche
La festa di Shivaratri
Stefano
Il Tempio di Sai Devi
Il concerto
Jageshwar
Partenza per Jageshwar
Arrivo a Jageshwar
Visita ai templi
Il miracolo
Il funerale
Il cane Teo
Il matrimonio
Addio a Jageshwar
Almora
Hotel Savoj
Incontri con uomini straordinari
Addio ad Almora con foto di gruppo
Bibliografia
Photogallery
Credits
Anteprima
Assisi
3-5 Settembre 2000
Il viaggio in India comincia qui, in un’Assisi ventosa e battuta dalla pioggia di fine estate, rischiarata di quando in quando da aperture del cielo ancora intenso fra le nuvole veloci. Incontro K., maestro di mantra e nada yoga a un convegno intitolato Il tempo dell’Anima
. La sua arte è sublime: capace di trasformare emozioni in suoni vibranti. La sua musica è straordinariamente intensa e coinvolgente. Ma tutto lo è in questo convegno, e la bellezza delle sonorità che pervadono ogni momento della giornata si mescola a troppe altre situazioni per poter essere gustata in una giusta pienezza. Questa musica è quasi esagerata qui, rimpiango di non potermi concentrare su di essa, di non poterne fare un’esperienza totalizzante come vorrei. Mi ripropongo di seguire i seminari di K. e fare una full immersion nel mantra yoga.
Intanto, al convegno, seguo seminari di musicoterapia. Sono certa che attraverso la musica passa qualcosa di importante, forse il senso stesso della vita o, forse, il senso della morte. È tibetana la campana che ripongo con cura nella mia valigia, come prezioso bottino di un viaggio misterico, quando riparto da Assisi con una segreta promessa nel cuore: valutare seriamente l’ipotesi di partecipare al viaggio in India che K. sta organizzando, per la festa induista di Shivaratri, alle pendici dell’Himalaya.
Roma
7-8 Ottobre 2000
K. conduce un seminario a Roma e io partecipo. Una giornata e mezza di introduzione al nada yoga. Quelle che seguono sono note di campo. In quella osservativa sono riportati concetti ed espressioni di K., appunti sulle scale indiane, e grafici proiettati nel corso del seminario. Nella nota teorica, prevalgono considerazioni di tipo sociologico. Copio, dal mio taccuino, schizzi e note:
Nota osservativa
Nada yoga: è lo yoga del suono, mantra yoga lo è della voce. Spesso sono combinati.
Suono come creazione (solve et coagula). Attraverso la vibrazione costituisce materia, stati mentali e fisici. Configurazioni vibratorie.
Suono come solvente. Vibrazione che risolve in sé la materia. Il suono smaterializza il corpo, fa vuoto. Fa silenzio nella mente, si allarga nel vuoto mentale. Annulla lo spazio-tempo. Morire è dissolversi in una vibrazione.
Suono eri, suono ritornerai. Non cenere.
Ogni nota della scala risuona in uno o più chakra, i centri sottili che regolano lo scorrere dell’energia vitale.
Immagini dal mio taccuino.
Ogni tonalità esprime un’emozione, uno stato d’animo ed è una forza plastica capace di indurre quell’emozione in chi ascolta.
Paramatman: il nostro maestro primordiale.
OM: il micro-macro.
Mantra: MAN contemplazione, TRA liberante. Liberazione tramite contemplazione.
I residui delle esperienze delle vite passate possono diventare opprimenti, quando c’è troppo accumulo andiamo in crisi: il mantra è in grado di purificare il karma accumulato (effetti delle azioni delle vite passate) Nota personale
Ho deciso di partecipare allo stage musicale sull’Himalaya, con quest’uomo che conosco ancora poco, forse troppo poco?, ma che è in grado di produrre una musica straordinariamente bella. In India ha avuto maestri che gli hanno trasmesso l’arte del suono e della meditazione attraverso il suono. Qualcuno di loro gli ha dato un nome iniziatico, K. Dice di portare con sé un dharma, una missione: divulgare il nada yoga, lo yoga del suono.
Deve essere sulla cinquantina, capelli brizzolati, corpo appesantito, una faccia stanca, come disfatta, ma illuminata da due occhi penetranti, di un azzurro sconcertante. È un uomo che sta conducendo una battaglia, questo mi dice l’istinto, non so contro cosa o contro chi. Quegli occhi sono di fuoco, non sono sereni. Ma la sua musica è incantevole, nel senso letterale: replica l’incantesimo di Orfeo e ti trascina in un altrove popolato ... da dèi o da demoni?
Nota teorica
Comincio a vedere in questo viaggio l’opportunità di coniugare due interessi: la ricerca sul suono e sul significato della musica con la ricerca sulle comunità interpretanti
, che conduco nella mia università. La teoria di medio raggio delle comunità interpretanti si deve soprattutto a Thomas R. Lindlof. Egli sintetizza specifiche caratteristiche dei pubblici contemporanei, che vi sono descritti, non come masse inerti che bevono tutto ciò che i media riversano loro addosso (e che Lindlof chiama presented meaning), ma come aggregazioni virtuali, cioè non territoriali, ma fondate sulla condivisione di affinità elettive
sul consumo dei media. Queste formazioni virtuali sono dotate di competenze e abilità interpretanti, che agiscono attivamente sui significati mediati (ciò che Lindlof chiama constructed meaning).
La mia opinione sul rapporto fra media e realtà storico-sociale è che il mondo in cui viviamo non è più - come negli anni cinquanta – scisso in due sfere (la realtà reale e la realtà mediata; il mondo quotidiano e la fiction), ma consiste in un’unica realtà, che si costruisce entro una rete di continui rimandi e rimbalzi fra i due schermi, quello elettronico e quello quotidiano, ormai indissolubilmente legati e colmi di reciproche citazioni. I grandi fratelli
e le guerre in diretta ne sono una riprova lampante: nulla avviene nel mondo di oggi senza una regìa e una sceneggiatura compatibili con i format televisivi; nulla viene compreso se non si presenta ai nostri sensi nella forma del messaggio televisivo; e il lessico cinematografico (o, ancor più, quello degli spot e della videomusic) è, più dell’inglese, il linguaggio che bisogna assimilare se si vuole esser certi di comunicare. Ma è anche vero il reciproco: nulla ha più un significato scisso dagli eventi mediatici, tutto ciò che conosciamo è filtrato da griglie interne di lettura (interpretanti) che tengono conto del bagaglio di nozioni ed emozioni veicolato dai media: una sorta di vocabolario e di repertorio enciclopedico che avvolge ogni oggetto della percezione, che si appiccica a ogni contenuto di esperienza e, ancor più, a ogni contenuto culturale (Bruner 1990, trad. it. 1992).
Ecco perché un gruppo di europei che va in India è una comunità interpretante. Questo viaggio mi appare come un prezioso e irripetibile laboratorio per l’osservazione di comportamenti e pratiche di interesse per lo studio delle comunità virtuali, che elaborano e manipolano significati collettivi. L’India, infatti, non è solo un luogo sul mappamondo, ma una rappresentazione collettiva, un costrutto culturale. Il tipo sociale del guru, che riempie gli scaffali delle librerie e delle edicole, è anch’esso un contenuto sensibile della cultura di massa, in particolare della cultura new/next age che, diffondendo stereotipi connessi con le discipline orientali, crea audience e stimola attività interpretative intersoggettive.
La via dell'Oriente
18-19 Febbraio 2001
Prendo in mano i miei appunti di viaggio ed ecco, l’aereo rulla...
Cos’è quest’eccitazione che mi prende sul Boeing 767 della Gulfair, volo Roma-New Delhi via Milano-Abu Dabhi? Paura o voglia di avventura? Improvvisamente mi crolla sulle spalle tutta la temerità della decisione di partire per questo viaggio di ricerca. È stata un’iniziativa azzardata? Diciamo la verità: l’occasione di praticare l’osservazione partecipante (tecnica base della sociologia qualitativa) su un gruppo di viaggiatori, così interessanti per la ricerca che sto conducendo, è effettivamente unica. Ma se, poniamo, il gruppo avesse scelto come meta, che ne so, la Spagna – che non ha l’attrattiva del mistero perché la conosco benissimo – non sarei partita con questo entusiasmo, né con questo brivido, e il viaggio mi sarebbe sembrato solo uno spostamento. Invece qui, ragazzi!, questo non è un viaggio, questo è IL viaggio. È l’archetipo del viaggio, il tipo ideale del viaggio. È il viaggio con la V maiuscola!
La caratteristica principale del viaggio è la sua dislocazione: solo apparentemente esso si svolge in una serie di luoghi attraversati dal viaggiatore. In realtà, essere in viaggio vuol dire andare e sostare in luoghi che luoghi non sono: stazioni di autobus, ferrovie, aeroporti, alberghi, strade grandi e piccole. Il viaggio si colloca nei non-luoghi. I non-luoghi e gli attraversamenti (Augé 1992, trad. it. 1996) sono il vero scenario in cui si muove colui che compie il viaggio. Che sarebbe anche meglio chiamare passaggio
, perché il viaggio è un passare da un contesto noto a uno ignoto e quindi ha il valore della scoperta e, prim’ancora, della ricerca. Il viaggio è un monumento a serendipity, il ritrovamento sorprendente, il trovare qualcosa quando non si sa cosa si sta cercando. Questo passare, questo attraversare presumono una continua destrutturazione e ristrutturazione della coscienza del viaggiatore. Egli decostruisce tutto l’universo semantico legato al suo mondo ordinario, che è divenuto zavorra e non serve più. Quello che serve è l’abilità a passare da un mondo all’altro, convivendo con l’extra-ordinario. L’abitudine dei gesti mattutini, per esempio, perde di efficacia e resta senza scopo, in uno scenario diverso. Il viaggiatore annulla i suoi dispositivi di organizzazione della vita quotidiana, ossia la sua storia, ed è costretto a inventarne di nuovi, utili a un altro genere di quotidiano, a un’altra storia. Cambiano le pratiche di costruzione dei significati. Nascono altre pratiche, funzionali ad altri scenari. Ma presto il viaggiatore apprende la precarietà di ogni pratica, di ogni significato. Tutto, in viaggio, è provvisorio: basta ripartire per la prossima tappa che tutto il lavorìo compiuto, di distruzione delle regole e di elaborazione di nuove regole, di nuove routine, deve ricominciare.
La routine giornaliera si mostra, allora, in tutta la sua convenzionalità e il viaggiatore tende a separarsene, a percepirla come si percepisce una forchetta o un ombrello: attrezzi aleatori, transitori, tutto sommato non indispensabili. Nel via vai di mondi, che sono le tappe del viaggio e che trasmutano costantemente i suoi orizzonti di senso, nell’alternanza delle routine, colui che è in viaggio deve trovare una sua modalità di passaggio, un suo stile di attraversamento dei confini. Lentamente, il viaggiatore acquista una soggettività onirica, uno stato di coscienza particolare, sensibile all’ignoto e flessibile. È con questo unico bagaglio che egli misura lo spazio e perde di vista il tempo. È questo che gli consente di passare da un personaggio all’altro, che non sono le persone che incontra ma i numerosi io viaggianti, in transito. Inoltre, il passaggio richiede un rito (van Gennep 1909, trad. it. 2002), che ne smorzi la pericolosità, insita in ogni ristrutturazione della coscienza: l’io perde i suoi confini ordinari e si slarga, si sfrangia, lasciando emergere caos ed entropia.
C’è, in agguato, la costante possibilità della follìa, intesa come perdita di senso. La funzione dei riti di passaggio è appunto quella di dominare le forze distruttive nella coscienza di chi attraversa il limite, il consueto, per andare non si sa dove. Nota bene: rivedere l’episodio di crisi psicotica descritto da Ernesto De Martino (2002): il contadino che sbrocca quando perde il suo riferimento visivo abituale, il campanile di Morcellinara.
Oriente
Oltre a questo, c’è tutto il peso travolgente dell’oriente. Mi rendo conto che non sono io a partire per l’India, no. È un’intera generazione che parte. Siamo una folla. Siamo centinaia di migliaia. Noi, col mito del viaggio in India. Noi, col mito dell’oriente. No, non comincia qui e ora il viaggio in India. Non per me. Non per un’occidentale intrisa dei contraddittori valori del novecento che, per anni, ha associato l’India a immagini letterarie, colme di pathos, che vanno dal Rudyard Kipling (1901, trad. it. 1989) dei giorni infantili, all’Herman Hesse (1922, trad. it. 1980) dei fremiti adolescenziali, sino al postmoderno Abraham Yehoshua (1994, trad. it. 1997).
E non è tutto: in un’area più razionale e scientifica, c’è ancora l’India degli storici delle religioni, da Mircea Eliade (1934, trad. it. 1991) - fu membro della Guardia di Ferro in Romania, che basta il nome per