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L'Eneide
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L'Eneide

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L'Eneide (in latino Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta e filosofo Virgilio nel I secolo a.C. (più precisamente tra il 29 a.C. e il 19 a.C.), che narra la leggendaria storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, fuggito dopo la caduta della città di Troia, che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano.
LanguageItaliano
Release dateOct 4, 2014
ISBN9786050325379
L'Eneide

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    L'Eneide - Publio Virgilio Marone

    Publio Virgilio Marone

    L'ENEIDE

    Tradotta da Giuseppe Albini

    © Arcadia ebook 2014

    Realizzato da: facilebook

    www.facilebook.it

    info@facilebook.it

    INTRODUZIONE

    L'Eneide (in latino Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto dal poeta e filosofo Virgilio nel I secolo a.C. (più precisamente tra il 29 a.C. e il 19 a.C.), che narra la leggendaria storia di Enea, eroe troiano figlio di Anchise, fuggito dopo la caduta della città di Troia, che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano.

    Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma l'amico Vario Rufo, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardò il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato.

    I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei Troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci.

    Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande religiosità (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente mito della fondazione, oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e Troia.

    La divisione in dodici libri esprime la volontà di conciliare due esigenze, quella della brevitas alessandrina (i quattro libri delle Argonautiche) con la maggior lunghezza del poema classico omerico (Iliade e Odissea, composti da ventiquattro libri ciascuno).

    L'orientamento alessandrino verso il poema breve risalta ancor di più se si pensa che i dodici libri di Virgilio rivaleggiano con entrambi i poemi omerici: i primi sei libri rinviano infatti al modello dell'Odissea (il viaggio avventuroso); i secondi sei al modello dell'Iliade (la guerra). L'ordine delle vicende, rispetto ad Omero, viene rovesciato e l'avventura viene trattata prima della guerra. Col suo modello Virgilio instaura un rapporto di raffinata competizione innovativa. Il viaggio di Ulisse era un viaggio di ritorno, quello di Enea un viaggio di rifondazione proiettato verso l'ignoto; la guerra nell'Iliade era una guerra di distruzione, quella di Enea è rivolta alla costruzione di una nuova città e di una nuova civiltà; l'Iliade si concludeva con la disfatta troiana, l'Eneide con la vittoria del troiano Enea, che risarcisce il suo popolo della patria perduta.

    Proemio

    Dopo quattro versi di cui gli studiosi, sia antichi che moderni, hanno ampiamente dibattuto la paternità virgiliana (Ille ego, qui quondam…, Quell'io, che un tempo…) a causa di alcune testimonianze antiche (principalmente Svetonio) che li consideravano autentici, Virgilio, nel proemio che precede la narrazione, dichiara l'argomento del suo poema (Arma virumque cano…, Canto le armi e l'uomo…) con un'invocazione alla Musa (Musa, mihi causas memora…O Musa, ricordami le cause…). Di seguito, spiega l'origine del conflitto più importante della trama, ovvero il rancore di Giunone nei confronti dei Troiani. Questo tipo di incipit mantiene lo stile di quelli dei poemi omerici, tranne per il fatto che Virgilio prima dichiara il tema del poema e poi invoca la Musa, mentre in Omero è l'inverso. 'Armi canto e l'uomo..' Le armi richiamano l'Iliade mentre l'uomo riecheggia l'Odissea.

    Libro I

    Alla maniera omerica, la narrazione, preceduta da un proemio, comincia in medias res, presentando la flotta troiana nel Mediterraneo orientale mentre naviga guidata da Enea alla volta dell'Italia dove spera di trovare una seconda patria.

    Enea, esule dalla città di Troia, tenta di raggiungere il Lazio, per fondarvi una nuova città e portare in Italia i Penati, una stirpe nobile e coraggiosa e una razza che sarà conosciuta e rispettata da tutti i popoli, come stabilito da una profezia. Parte con una flotta di venti navi, nonostante l'opposizione di Giunone. La dea infatti è adirata per tre motivi:

    perché ha perso la gara di bellezza contro la madre di Enea,

    perché la sua città favorita, Cartagine, è destinata ad essere distrutta dalla stirpe troiana nata da una relazione tra Zeus ed Elettra,

    perché Ganimede era stato scelto quale coppiere al posto di Ebe, la figlia di Giunone.

    Per sette anni i profughi veleggiarono nel Tirreno, al largo della Sicilia, quando Giunone li vide. La dea, al colmo dell'ira, si reca in Eolia, patria dei Venti, da Eolo che li custodisce tenendoli rinchiusi in un otre all'interno di un massiccio montuoso, per chiedergli di scatenare una tempesta. Il dio accetta in cambio di Deiopea, la ninfa più bella di Giunone, e il maltempo danneggia pesantemente la flotta, provocando anche l'affondamento della nave dei Lici - alleati dei Troiani - molti dei quali muoiono annegati, compreso il loro capo Oronte.

    Nettuno se ne accorge e, nonostante non sia neppure lui amico dei Troiani, si infuria per l'intrusione di altri nei suoi domini; spinto anche dal rispetto per il valore di Enea, interviene placando i venti e calmando le acque (come un uomo saggio placa una sommossa). La flotta riesce così ad ancorare sulla costa d'Africa, in Libia, in una città, Cartago. Preoccupata per la sorte del figlio, Venere intercede a suo favore presso Giove. Questi la rassicura dicendole che, ottenuta la benevolenza di Giunone, l'eroe vedrà premiati i suoi sforzi, con la prima profezia dell'Eneide (Enea governerà tre anni, il figlio Ascanio Julio trenta e i suoi discendenti, fino a Romolo e Remo, per trecento). Quindi il re degli dei invia Mercurio a Cartagine, con il compito di predisporre i Cartaginesi ad una favorevole accoglienza di Enea e i compagni superstiti. Nel frattempo Venere, assunte le sembianze di una giovane cacciatrice, molto somigliante alla dea Diana, si manifesta al figlio per spiegargli la vicenda della città, fondata dai Fenici emigrati dalla propria terra al seguito della regina di Tiro, Didone, fuggita dopo che il fratello Pigmalione le aveva ucciso il marito Sicheo per impadronirsi del regno. Enea si reca dunque fiducioso in quella città, ricevendo ottima accoglienza dalla regina, poiché anche lei ha patito dolori. Venere, temendo le insidie di Giunone, ordina al figlio Cupido, dio dell'amore, di prendere il posto di Ascanio, il figlio di Enea, assumendone le sembianze, affinché, toccando il cuore della regina, questa si innamori dell'eroe. Didone così offre un importante banchetto ai Troiani e invita Enea a narrare in quella sede le sue traversie.

    Libro II

    Durante il banchetto che viene dato in onore dei Troiani, Enea racconta la sua storia e le sue vicende e i fatti che hanno provocato il fortuito arrivo della sua gente da quelle parti, a partire dalla caduta di Troia. L'astuto Ulisse aveva trovato il modo di riuscire ad entrare nella città facendo costruire un enorme cavallo di legno, che avrebbe racchiuso nascosti al suo interno lui e alcuni dei migliori guerrieri greci. I Troiani, all'oscuro di tutto, ingannati peraltro dall'acheo Sinone che aveva millantato loro la partenza dei greci (poi rivelatasi falsa; egli aveva anche fatto credere di essere stato minacciato da Ulisse), e incuriositi dal cavallo, avevano deciso di trasportarlo dentro le mura della città, incuranti delle profezie di Cassandra e di Laocoonte che a sua volta aveva cercato di avvertirli del pericolo e che fu per questo stritolato insieme ai due figlioletti da una coppia di serpenti marini inviati da Minerva.

    Usciti nottetempo dal cavallo, i guerrieri greci avevano cominciato a mettere Troia a ferro e fuoco. Enea, svegliato all'improvviso dal fantasma di Ettore aveva visto con orrore che cosa stava succedendo alla sua amata città natale. Radunati alcuni guerrieri, organizzò la fuga dalla città: il principe frigio Corebo si unì al gruppo, ma cadde ucciso da Peneleo nel tentativo di salvare Cassandra, la figlia di Priamo di cui era innamorato, dalle grinfie dei greci. Il capo troiano assistette anche alla barbara uccisione del re Priamo da parte di Pirro Neottolemo, il figlio di Achille. Allontanatosi dai luoghi più pericolosi, Enea si imbatté nella bella Elena, causa prima di tutta quella rovina e fu preso dal desiderio di ucciderla, ma venne fermato dalla madre Venere, che gli aveva detto invece di fuggire e di uscire dalla città insieme alla sua famiglia. Egli aveva quindi capito che i suoi parenti stavano correndo un grave pericolo ed era corso da loro. Enea racconta quindi la sua fuga con il figlio Iulo e il vecchio padre Anchise caricato sulle proprie spalle, mentre sua moglie Creusa non era riuscita a rimanere con loro ed era perita nella catastrofe generale: apparve come ombra a Enea, raccomandandogli di vigilare sempre sul loro figlio.

    Libro III

    Enea racconta come, dopo aver radunato molti altri sopravvissuti (troiani e loro alleati) avesse costruito una flotta di navi: con queste era approdato in varie zone del Mediterraneo, tra le quali il Chersoneso Tracico e l'isola di Delo. Durante la prima tappa è significativo l'incontro con l'anima insepolta di Polidoro (il figlio di Priamo e di Ecuba), fatto uccidere dall'avido Polimestore, il quale voleva impossessarsi delle sue ricchezze: Enea ordinò ai suoi compagni di provvedere alla tumulazione per il principe troiano, permettendogli così di poter accedere finalmente all'Ade. Nella seconda, invece, Enea chiese all'oracolo di Apollo quale fosse la nuova terra dove avrebbe dovuto portare i superstiti Troiani. Apollo rispose: Cercate l'antica madre; qui la stirpe d'Enea dominerà su tutte le terre e su tutti i discendenti (lat. …antiquam exquirite matrem. Hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris et nati natorum et qui nascentur ab illis). Anchise, il padre di Enea, credette che la terra d'origine dei Troiani fosse l'isola di Creta da dove sarebbe partito il capostipite Teucro. Perciò Enea col padre e i Troiani si reca a Creta; ma qui gli dèi Penati di Troia apparvero in sogno all'eroe spiegandogli che l'antica madre non era Creta, ma la (misteriosa) città di Corythus in Italia (variamente identificata con diverse città etrusche; l'identificazione con Cortona risale a Silio Italico, 4.718-21 e 5.123): lì nacque Dardano da cui deriva la nostra stirpe (vv. 161-171). Enea approdò poi nelle isole Strofadi dove venne perseguitato dalle Arpie che le abitavano. Qui l'Arpia Celeno gli profetizzò che sarebbe arrivato in Italia ma per la fame avrebbe dovuto mangiare anche le mense. Un altro luogo dove poi s'era recato Enea era stato Butroto nell'Epiro (nell'odierna Albania), una città costruita a somiglianza di Troia. Qui aveva incontrato Andromaca, moglie di Ettore, che aveva ancora una volta pianto con lui per aver perduto il suo eroico marito e il suo figlio adorato, Astianatte. Enea incontrò anche il nuovo sposo della donna, Eleno figlio di Priamo, dotato del dono della profezia. Per suo tramite, Enea ebbe conferma che doveva recarsi in Italia. Eleno gli consigliò anche di recarsi a Cuma dalla famosa Sibilla. Enea aveva così lasciato Butroto rimettendosi in mare. Superate le insidiose Scilla e Cariddi e sbarcato con la flotta in Sicilia, scampò con i suoi uomini ad un attacco del ciclope Polifemo, salvando anche Achemenide, un superstite compagno di Ulisse. Ripreso il mare, nel corso della navigazione, Enea e i suoi giunsero a Drepano (l'odierna Trapani). Qui morì Anchise, il padre di Enea, stremato da tanti viaggi. Stavano dirigendosi verso il Lazio quando Giunone fece scatenare la tempesta che li avrebbe poi portati a Cartagine.

    Libro IV

    Didone, regina di Cartagine, si rivolge alla sorella Anna, ammettendo i sentimenti per Enea, che ha riacceso l'antica fiamma d'amore (Agnosco veteris vestigia flammae), il solo per cui violerebbe la promessa di fedeltà eterna fatta sulla tomba del marito Sicheo. Anna riesce a persuaderla: la sorella è infatti sola e ancora giovane, non ha prole ed ha troppi nemici intorno. Didone allora immola una giovenca al tempio e riconduce Enea nelle mura. È notte. Giunone allora propone a Venere di combinare tra i due giovani il matrimonio. Venere, che intuisce il disegno di sviare Enea dall'Italia, accetta, pur facendo presente a Giunone la probabile avversità del Fato. L'indomani stesso, Didone ed Enea partono a caccia ma una tempesta li sconvolge: si rifugiano così in una spelonca, consacrando il rito imeneo. La Fama, mostro alato, avverte del connubio Iarba, pretendente respinto di Didone e re dei Getuli, che invoca Giove. Il padre degli dei invia il suo messaggero Mercurio a ricordare a Enea la fama e la gloria che attendono la sua discendenza. Enea allora chiama i suoi compagni, arma la flotta e si appresta a partire, pensando al modo più agevole di comunicare la decisione a Didone. Ma la regina, già informata dalla Fama, corre infuriata da Enea, biasimandolo di aver cercato di ingannarla e ricordandogli del loro amore e della benevolenza con cui l'aveva accolto, rinfacciandogli poi di non avere neppure coronato il loro sentimento con un figlio. Enea, pur riconoscendole i meriti, spiega che non può rimanere, perché è obbligato e continuamente sollecitato dagli dei e dall'ombra del defunto padre Anchise a cercare l'Italia (Italiam non sponte sequor, v.361). Ritornato alla flotta, rimane impassibile alla rinnovata richiesta di trattenersi mossa da Anna e alle maledizioni di Didone, che è perseguitata dal dolore con continue visioni maligne. Riferita la decisione di dedicarsi alle arti magiche per alleviare tante pene, la regina ordina quindi alla sorella di mettere al rogo tutti i ricordi e le armi del naufrago nella sua casa e invoca gli dei. Così, nella notte, mentre la regina escogita il modo e il momento del suicidio per porre fine a tanti affanni, Enea, avvertito in sonno, fugge immediatamente da quella terra. All'aurora, con la vista del porto vuoto, Didone invoca gli dei contro Enea, maledicendolo e augurandogli sventure, persecuzioni e guerra eterna tra i loro popoli. Giunta sulla pira funeraria, si trafigge con la spada di Enea, mentre le ancelle e la sorella invocano disperate il suo nome. Giunone poi invia Iride a sciogliere la regina dal suo corpo e a recidere il capello biondo della sua vita. Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vede il fumo della pira di Didone e ne comprende chiaramente il significato: tuttavia il richiamo del destino è più forte e la flotta troiana fa vela verso l'Italia.

    Libro V

    Enea con le navi tiene deciso la rotta, ma il cielo è pieno di enormi nubi minacciose, che danno presagio di un oscuro temporale. Palinuro, il timoniere della nave di Enea, è spaventato e teme che la flotta non riesca ad arrivare in Italia. Accorgendosi che la tempesta sta portando le navi verso le coste sicule, Enea decide di approdarvi. I troiani sbarcano presso Erice dove il re Aceste lietamente li accoglie e offre il suo aiuto.

    L'indomani, Enea parla ai compagni per informarli della commemorazione per l'anno trascorso dalla morte del padre Anchise, trovandosi inoltre vicini alle sue ceneri e ossa. Egli vuole celebrare l'onore, invocare i venti e gli onori nei tempi a lui dedicati con un banchetto ai Penati e con i giochi funebri, quali corsa di navi, a piedi, lancio del giavellotto e con frecce, mettendo in palio splendidi premi. Dopo aver chiesto due capi di buoi per ogni nave, cosparge le sue tempie con mirto sacro e raggiunge il tumulo. Glorifica quindi con due coppe di vino, due di latte e con fiori purpurei la terra e si rivolge al padre, salutandolo e rammaricandosi di averlo perso prima di aver raggiunto l'Italia. Subito però, un enorme serpente appare strisciando, gustando le vivande disposte per il sacrificio. Stupito, immola due pecore, seguite dalle offerte dei suoi compagni.

    Arrivata l'aurora, tutti si apprestano a gareggiare. Prima dell'inizio, Enea pone al centro dell'arena, in vista, i doni: tripodi, corone, palme, armi, vesti purpuree, talenti d'oro e d'argento.

    La tromba suona e si dispongono per la prima gara, una regata, quattro navi: Pristi di Mnesteo, Chimera del giovane Gia, Centauro di Sergesto e Scilla di Cloanto. Enea pone allora sullo scoglio dirimpetto alla riva una verde meta di elce frondoso. Ricevuto il segnale, partono. Se dapprima sono tutti a pari merito, Gia supera e guadagna la prima posizione, seguito da Cloanto. Menete, il timoniere della Chimera, raggiunta la roccia, non riesce a virare velocemente, scatenando la furia del comandante che getta il compagno maldestro in mare, tra le risate dei Teucri, per essere poi superato dalle altre navi. Ma il Centauro di Sergesto, intento a sorpassare la nave di Mnesteo, si incastra in uno scoglio. La Pristi ora gode quindi del secondo posto, quasi vicino al primo della Scilla. Il furbo Cloanto, accorgendosi dell'abilità dell'avversario, fa un voto con promessa di sacrificio di un toro in caso di trionfo. Gli dei spingono così vento propizio e la nave giunge vittoriosa al traguardo. Radunati tutti i comandanti Enea consegna allora al vincitore porpora con fregi, al secondo una pesante corazza intrecciata d'oro e al terzo due catini bronzei e due coppe d'argento. Solo più tardi giunge Sergesto con la nave danneggiata e, per il coraggio dimostrato, si aggiudica Foloe, una schiava con i suoi due figli gemelli.

    Enea raduna allora Teucri e Sicani per la gara di corsa su una piana erbosa. Vi partecipano i due giovani troiani Eurialo e Niso, amici inseparabili, il principe dei Teucri Diore, e i Sicani Salio (un giovane di origine acarnana), Patrone, Elimo e Panope. Rassicurandoli dei premi sicuri per tutti di due frecce, del ferro e un bipenne, espone quelli per i tre migliori: un cavallo per il primo, faretra e frecce al secondo e al terzo un elmo argolico. Niso si porta subito al comando, inseguito da Salio, Eurialo, Elimo, Diore. Ma, quasi alla fine, Niso scivola sul sangue dei giovenchi immolati e, per impedire la vittoria a Salio, si rialza proprio davanti a lui, che scivola a sua volta. Eurialo, Elimo e Diore ritirano i premi, che però vengono anche concessi ai due atleti non classificati: per Niso uno scudo, a Salio un'enorme pelle di leone.

    Nella disciplina successiva si battono i pugili: i premi consistono in un giovenco ornato d'oro al vincitore, e al vinto spada e elmo. Subito si propone il maturo troiano Darete, che in passato aveva atterrato immediatamente Bute, re dei Bebrici. All'inizio nessuno vuole sfidare il possente Darete, che superbo pretende subito la vittoria a tavolino. Un compagno di Aceste, Entello, allora, benché più vecchio di Darete, butta al centro dell'arena due cesti colmi d'armi di Erix, l'invincibile fratello di Enea, e offre al troiano una sfida ad armi pari, che naturalmente viene accettata. Entello passa dalla difesa all'attacco e gli infligge una lezione durissima, dedicando il duello vittorioso alla memoria di Erice.

    Inizia quindi la gara con l'arco, a cui partecipano Ippocoonte (fratello di Niso), Mnesteo, Euritione e Aceste. La gara consiste nel centrare una colomba volante posta sulla sommità dell'albero maestro della nave di Sergesto. Se Ippocoonte fallisce completamente, Mnesteo colpisce il filo di lino a cui il volatile è appeso, dando modo a Euritione di trafiggerlo in pieno. Aceste, già perdente, lancia comunque il dardo: questo brucia al contatto con la canna, per poi tracciare una via con le fiamme e sparire nel vento. Attoniti, tutti accolgono il segno come un presagio favorevole ed Enea cinge Aceste d'alloro, invitando poi il servo Epitide a chiamare Iulo per la parata dei fanciulli, guidata da Ascanio su un cavallo regalatogli da Didone, e dal suo migliore amico Ati, avo di Ottaviano.

    Giunone manda Iride a spirare venti sulla flotta di Enea. Scesa veloce sulla terra, si trasforma in Beroe e comunica alle mogli dei Troiani di erigere le mura proprio nella città, essendo stata avvertita della volontà divina dall'immagine di Cassandra, in sogno. Le invita inoltre a bruciare le navi e, afferrato un tizzone, lo scaglia. Ma Pirgo, la vecchia nutrice dei figli di Priamo, capisce che non si tratta di Beroe. La dea subito si dissolve levandosi in alto e le altre donne, già dubbiose, interpretando questo come un segno divino, iniziano a dar fuoco alla flotta. Vulcano, dio del fuoco, infuria: Eumelo messaggero riferisce del misfatto alla tomba di Anchise. Ascanio è avvisato per primo e raggiunge il campo delle donne, rimproverandole fortemente. Enea e i Teucri sopraggiungono altrettanto velocemente, ma le troiane per timore fuggono e, rinnegando Giunone, il loro gesto e la luce, si rifugiano in selve e grotte. Intanto le fiamme divampano e l'acqua versata per placarle non riesce a calmarle. Il figlio di Venere allora invoca Giove e subito una tempesta con violenti scrosci di pioggia pone fine alle fiamme e salva quindici imbarcazioni su diciannove.

    Dopo questi avvenimenti Enea, ancora una volta dimentico dei Fati, cade nell'incerto se stabilirsi in Sicilia o cercare il Lazio. In quel momento Naute lo sprona a perseguire anche con la sofferenza il volere del Fato e gli consiglia di affidare a quella città, in seguito Acesta, la sorte dei compagni in soprannumero, in prevalenza donne e vecchi stanchi delle peregrinazioni. Si viene comunque a creare una compensazione con alcuni sudditi di Aceste (tra cui Salio) che decidono di aggregarsi ad Enea.

    Sempre più pensieroso, Enea vede nella notte la figura di Anchise mandato da Giove che lo invita a sottomettersi al destino: gli ordina di recarsi, prima che in Italia, alle sedi infere di Dite, nel profondo Averno, nell'Elisio, con l'aiuto di una sibilla.

    Avvertiti i compagni, Enea circoscrive con un aratro la città, dove regnerà gente di stirpe troiana e dove Aceste porrà senato e leggi. Fondano anche un tempio nei pressi di un bosco, istituendo un sacerdozio in onore di Venere. Dopo aver banchettato nove giorni, attendono che i venti siano favorevoli e, prima di partire, immolano tre vitelli a Erice, un agnello a Tempeste e sciolgono gli ormeggi. Con la tristezza e il conforto della città fondata, salpano, e gettano come nuovo rito i visceri in mare.

    Venere, preoccupata, si rivolge a Nettuno, riferendogli dell'implacabile ira di Giunone, che tanto assilla suo figlio nonostante le molteplici vendette già attuate e affidandogli la salvezza delle navi troiane sino al Tevere. Il dio l'asseconda, preannunciandole la morte di uno solo tra i compagni di Enea. Venere si rallegra.

    Giunta notte, mentre i marinai si apprestano a dormire, il dio Sonno tenta Palinuro, che dapprima resiste ma poi, scosso e insonnolito, cade in mare. Invano chiama i compagni, mentre la nave continua a viaggiare per mare. Avvicinatosi agli scogli delle sirene, Enea nota con suo dispiacere l'assenza del nocchiero, prende il controllo dell'imbarcazione e spera che il compagno approdi un giorno su qualche spiaggia ignota, timoniere troppo fiducioso nel cielo e nel mare.

    Libro VI

    Enea e i suoi compagni sbarcano a Cuma, in Campania, dove l'eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe, figlia di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma per ottenere la nuova patria dovrà affrontare odi e guerre, essendo inviso a Giunone: ella profetizza anche la comparsa di un nuovo Achille (che si rivelerà poi Turno). Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nel regno del dio Ade, ovvero l'Aldilà secondo la religione greca e romana. Prima di entrare nell'Ade vero e proprio Enea e la Sibilla devono passare su una delle due rive del fiume Acheronte, attraversando la zona dove vagano senza pace tutte le anime dei morti rimasti insepolti, e qui incontrano Palinuro, che narra del suo assassinio e del suo corpo lasciato insepolto dai Lucani (Nunc me fluctus habet versantque in litore venti). Supplica poi Enea di cercare i suoi resti o di aiutarlo ad attraversare il fiume: la Sibilla gli dice che è inutile sperare di mutare i fati divini con la preghiera (desine fata deum flecti sperare precando); poi, per mitigare l'amarezza del pilota, gli rivela che presto avrà comunque un suo tumulo sepolcrale (che darà pace alle sue ossa e consentirà finalmente alla sua ombra di varcare il fiume infernale). Caronte, lo psicopompo dell'Ade, ostacola il loro ingresso a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d'oro, chiave degli inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Dopo aver superato l'ostacolo di Cerbero, Enea e la sacerdotessa incontrano prima le anime di molti troiani caduti in guerra, poi quelle dei suicidi per amore (nei campi del pianto, lugentes campi): tra queste v'è anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale scoppia in un pianto disperato. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l'ombra del poeta Museo, che porta Enea da Anchise: Enea tenta invano di abbracciare il padre per tre volte. Anchise spiega dunque ad Enea la dottrina di cicli e rinascite che sostiene l'universo, e gli mostra le ombre dei grandi uomini che rinasceranno nella città che Enea stesso con la propria discendenza contribuirà a fondare, ovvero i grandi personaggi di Roma, come Catone, o Fabio Massimo: molti popoli - afferma Anchise in un noto passo - otterranno gloria nelle belle arti, nella scienza o nel foro, ma i Romani governeranno il mondo con la sapienza delle leggi, perdonando i vinti e annientando solo chi si opporrà: Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacisque imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos (Aen. VI, 851-53). Dopo che Anchise ha profetizzato la prematura morte del nipote di Augusto, Marcello, Enea e la Sibilla risalgono nel mondo dei vivi, passando per la porta dei sogni.

    Libro VII

    I troiani, dopo aver seppellito Caieta, la nutrice di Enea, nell'Esperia, stanchissimi e affamati, sbarcano alla foce del Tevere; Enea decide quindi di inviare un ambasciatore di nome Ilioneo al re del luogo, Latino. Questi accoglie con favore l'emissario di Enea, e gli dice di essere a conoscenza che Dardano, il capostipite dei Troiani, era nato nella città etrusca di Corito (VII 209: ab sede Tyrrena Corythi). Ilioneo risponde: Da qui ebbe origine Dardano… Qui Apollo ci spinge con ordini continui(VII 240). In ogni caso Latino si mostra favorevole ad accogliere i Troiani perché suo padre, il dio italico Fauno, gli ha preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa: per questo motivo il re aveva in precedenza rifiutato di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, Turno, anche lui semidio (in quanto figlio della ninfa Venilia): la volontà degli dei si era manifestata anche attraverso prodigi. La piega che gli eventi stanno prendendo non piace a Giunone che con l'aiuto di Aletto, una delle Furie, rende geloso Turno e spinge la moglie del re, Amata, a fomentare l'odio verso gli stranieri

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