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Niente di niente
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Niente di niente

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About this ebook

Margherita vive nel disequilibrio. Su pagine fitte, senza righe né quadretti, si racconta la vita scrivendola. La ferma, nero su bianco, per farla diventare reale o per negarsi la realtà.

Antonio è un bambino cresciuto precocemente. Come tutti gli orfani di madre ha dovuto imparare a cavarsela da solo, dentro e fuori le mura di casa.

Francesca ha un segreto da proteggere e nei suoi sedici anni appena compiuti nutre il fondato sospetto di essere molto più complicata di come la vedono gli altri.

Augusto è un uomo influente con una mente eclettica ed un corpo ingombrante che faticosamente trascina nelle diverse vite che conduce.

Quando esistenze così distanti si incontrano, nascono legami esclusivi, dipendenze salvifiche fatte di attese continue che nella paura della perdita trovano il loro vitale nutrimento.

Ci sono terre, vicine e lontane, che attraversano i personaggi di Niente di Niente: Bologna crocevia di incontri, il Sinis nei suoi paesaggi commoventi, l’Isola d’Elba dalla natura generosa e l’estremo Oriente con le sue contraddizioni.

Niente di niente è romanzo corale, dove le voci dei personaggi raccontano di un’unica grande verità: che si è a casa solo dove ci si sente a casa.

LanguageItaliano
Release dateMar 2, 2015
ISBN9786050357189
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    Niente di niente - Stefania Sabattini

    Canetti

    Prologo

    Margherita ha freddo alle gambe.

    Si è rigirata inquieta nel letto per tutta la notte. Le avevo detto che sarei arrivato giovedì e invece non mi sono fatto vedere. Mi ha mandato un messaggio, non le ho risposto, non ha insistito. Sa come sono fatto, che compaio e mi dileguo come e quando voglio e non gradisco che mi si stia addosso.

    Con il pigiama color glicine a pantaloncini corti è uscita sul terrazzo. Le cinque del mattino, a ovest la luna ancora nel cielo, a est il chiarore dell’alba di luglio. Si gira verso San Giovanni, il paese dorme ancora. Funtana Meiga, più in là, abbarbicata sulla roccia, sembra un quadro dipinto ad olio, uno scenario nitido dai colori accesi dove predomina l’arancione delle case. Rientra in camera e si infila un golfino per proteggere le braccia dalla brezza marina che spira fra le piante di mirto. Torna sul terrazzo con le gambe ancora nude, ha la pelle d’oca e non riesce a scaldarsi, ma non le importa, vuole stare così, a guardare il mare. Il turbinio provocato dal camioncino della nettezza urbana spezza il silenzio. Margherita guarda il lampeggiante che troneggia in cima, fa un cenno di saluto all’operatore che sta per fare il giro delle spiagge, parte sempre da Tharros, poi sale verso San Giovanni, Funtana Meiga, Maimoni, Mari Ermi e fin su, a Is Arutas. Con le mani si massaggia le gambe, sarebbe semplice rientrare in camera e infilare un paio di calzoni, ma è testarda e pigra Margherita, vuole sentire addosso il freddo del mattino. Intanto il sole è sorto. Mentre se ne stava lì a confondersi nei pensieri, il sole si è alzato nel cielo, irradia luce tutt’intorno, proietta lunghe ombre sullo sterrato del viale che conduce all'arenile.

    Margherita sa che è proprio l’attesa a farci sentire vivi. 

    Parte prima

    Antonio

    No! (2000)

    Il papà, gli zii, gli amici, i vicini di casa.

    Tutti a piangere, tutti a consolarsi, tutti a dire: "Era così giovane".

    Tutti a cercare con sguardo compassionevole quel povero bambino rimasto senza madre. Antonio, gli occhi fissi a terra e il viso asciutto di lacrime, non vedeva l’ora che tutta quella triste confusione finisse. Era in quell’età complicata in cui si avverte il bisogno di chiudersi in se stessi e di non condividere con gli altri le proprie emozioni, soprattutto con gli adulti. Nel giorno del funerale di sua madre il naturale desiderio adolescenziale di isolarsi si faceva sentire in Antonio con ancor più forza, avrebbe voluto starsene da solo con il proprio dolore invece di dover sopportare che l’intera comunità di Portoferraio si stesse riversando fra le mura della sua abitazione; chi per porgere omaggio, chi per vedere l’orfano, chi per curiosare. Sua madre, Michela, di professione era insegnante e diverse generazioni di bambini elbani erano stati educati da lei. Ad Antonio pareva che tutti gli scolari dell’isola si fossero dati appuntamento nel suo salotto, nella sua cucina, nella sua intimità che, benché fosse poco più che un bambino, considerava inviolabile. Volti sconosciuti si aggiravano per i corridoi, sfacciatamente disinvolti in quelle stanze private. Volti che Antonio avrebbe voluto rimuovere, stanze che avrebbe voluto sigillare.

    Il corteo funebre fu breve. La chiesa ed il camposanto si trovavano in fondo alla via, a poche centinaia di metri da casa. Dietro al carro mortuario, allestito con una sola corona di rose bianche, Antonio e Claudio, figlio e padre, camminavano abbracciati, vicini come non erano mai stati prima. La folla si apriva per far passare il feretro, una scena che, osservata da lontano, non sembrava un funerale, piuttosto un partecipato evento di paese. Antonio, non riuscendo a capacitarsi della quantità di persone intorno a loro, alzò il capo per sfidare, con lo sguardo, la fiumana di sconosciuti. Claudio si accorse del movimento della testa del figlio, intuì il tentativo di Antonio di guardare negli occhi quell’orda di persone e, con un gesto brusco della mano, la stessa con cui gli cingeva la spalla, gli diede una pacca sulla nuca che gli fece immediatamente riabbassare il capo. Il dolore è privato, ecco cosa gli stava silenziosamente dicendo suo padre con quel gesto. Il dolore non guarda in faccia la gente, non si esibisce, non parla. Il dolore va coltivato in solitudine ed è nella sfera intima che deve rimanere.

    Una dura lezione di riservatezza, in un giorno già duro di per sé.

    Il momento più difficile fu il rito religioso perché in chiesa, Antonio, non si era mai sentito a proprio agio. Michela e Claudio lo portavano a messa con regolarità, erano cattolici praticanti, quel tipo di fedeli che sentono il bisogno, almeno una volta alla settimana, di avere un contatto ufficiale con Dio. Antonio, invece, dimostrando una precoce capacità di porsi degli interrogativi da adulto, non riusciva a capire cosa potesse spingere così tante persone a cercare una vicinanza con qualcuno, o qualcosa, di così immateriale.

    La funzione durò due ore.

    Antonio, più solo che mai, seguiva meccanicamente lo svolgersi della messa: si alzava e si sedeva imitando i gesti delle persone che gli stavano accanto e, ad ogni nuova intonazione del coro, muoveva ritmicamente le labbra senza emettere alcun suono. La chiesa fredda, l’odore rivoltante di incenso, l’eco delle voci rimbombanti fra le spesse mura di pietra incombevano su di lui come una cappa densa e opprimente dalla quale desiderava al più presto fuggire e che voleva, intensamente, dimenticare.

    Durante l’omelia, Antonio, inerte ed affranto, fissava con diffidenza il parroco, Don Mario. Faticava a cogliere il significato della predica, non riusciva a concentrarsi sulle frasi del prete che gli apparivano confuse ed annebbiate, come i propri pensieri. Si risvegliò bruscamente dal torpore in cui era sprofondato, nell’istante in cui sentì Don Mario pronunciare le parole:

    Il Signore ha chiamato Michela nel regno dei cieli perché aveva bisogno di lei.

    Una sciabola affilata piantata nel ventre non avrebbe potuto provocargli dolore più acuto di quell’affermazione. E più odio, e più acredine, e più distacco.

    Iniziò a far vorticare nel suo cervello le parole di Don Mario: Signore, regno dei cieli, aveva bisogno. Aveva bisogno. Il Signore. Nel regno dei cieli. Il Signore.

    No!

    Antonio avrebbe voluto urlare:

    No!

    Avrebbe voluto dire:

    Io avevo bisogno di mia mamma e il Signore me l’ha portata via. Io ne avevo bisogno, non lui! E invece non fiatò, trattenne dentro di sé la rabbia per le parole del prete, rimase in silenzio solo perché suo padre, poco prima, con quella pacca sulla nuca, gli aveva insegnato che il dolore è privato ed è nella riservatezza che va coltivato.

    Da quel giorno, Antonio si rifiutò di andare a messa e di dire le preghiere la sera prima di addormentarsi. Il padre insistette a lungo, ma lui, nonostante fosse un ragazzino di soli dodici anni, si mostrò talmente irremovibile nella sua decisione che, dopo alcuni mesi, il padre smise di insistere e lasciò Antonio libero di scegliere quale rapporto avere con la religione. 

    Una sera, la zia (2001)

    A tredici anni si ha voglia di essere ragazzi, anche se si è ancora dei bambini, per tanti versi. Il corpo cambia, la voce si fa incerta fra bassi e acuti, in testa vorticano le prime consapevolezze, ma è ancora troppo presto per cavarsela da soli, soprattutto di sera, quando gli amici se ne sono andati e si rimane soli ad abbracciare il cuscino, con la testa piena di paure che ostacolano il sonno.

    Ad Antonio piaceva sentirsi grande, girare in bicicletta con i compagni di scuola per le viuzze di Portoferraio, andare al parco a tirare calci al pallone, sedersi davanti alla gelateria ad osservare lo struscio del sabato pomeriggio. La sera, però, quando calava il buio e la televisione di papà ronzava in sottofondo in modo fastidioso, Antonio sentiva la necessità di ritagliarsi uno spazio di solitudine. Si faceva piccolo sotto le lenzuola e, spesso, gli capitava di avvertire immaginarie folate d’aria gelida attraversargli la spina dorsale, dall’alto verso il basso. Sapeva bene che per riscaldarsi non era di coperte che aveva bisogno, ma di calore umano, della morbidezza delle braccia di sua madre che da più di un anno, ormai, non lo avvolgevano più. Claudio, suo padre, era un uomo rigido e distaccato, bravo a prendersi cura delle esigenze concrete di Antonio, ma incapace di curarne il dolore con l’affetto. Il cibo, i vestiti, i libri per la scuola, i soldi per la bicicletta nuova e gli spiccioli per il gelato non mancavano mai, quello che mancava era la tenerezza. In Claudio non c’era traccia di affettuosità, l’abbraccio paterno nel giorno del funerale di Michela fu il primo e l’ultimo che Antonio ricevette dal padre nel corso della sua vita di figlio.

    Quando il brusio della televisione si faceva insopportabile, Antonio si tirava la coperta sulla testa, fino a coprirsi quasi del tutto. Lasciava entrare solo uno spiraglio di luce per osservare, nella penombra filtrata dalle lenzuola, il proprio corpo che si stava facendo adulto: le gambe allungate e secche come quelle di uno stambecco, il torace sviluppato, le spalle tornite, i muscoli delle braccia lievemente accennati. Si passava la mano destra fra i capelli biondi, folti ed ispidi, e con il dito indice si toccava il naso, le sopracciglia, gli zigomi, il profilo del mento ed i baffetti morbidi, da poco spuntati sul labbro superiore. Voleva essere consapevole, Antonio, della propria figura, non gli bastava guardarsi allo specchio, aveva bisogno di toccarsi per capire che il suo corpo stava cambiando, per immaginarsi adulto e lontano da quella vita che, da quando Michela non c’era più, gli pareva troppo vuota.

    Antonio aveva una zia paterna, Giuliana, dalla quale spesso si rifugiava con una scusa banale pur di ascoltare una voce di donna e pur di strappare, quando possibile, una carezza. Si vergognava di chiederle un abbraccio perché aveva tredici anni e si era imposto di comportarsi da grande. E poi Giuliana, nelle relazioni umane, aveva la stessa impostazione rigida di suo padre, con Antonio era molto gentile, ma non riusciva a capire il suo bisogno di affetto perché era fatta della stessa pasta di suo fratello Claudio. Benché donna, viveva della stessa freddezza. Somaticamente era simile al padre di Antonio, di media statura, anonima nei lineamenti e nei comportamenti, chiara di colori e scura nell’animo. Aveva una sua bellezza nascosta, data dalla combinazione delle sembianze piatte, della natura riservata, del mistero nascosto in quella glacialità di roccia inscalfibile. Giuliana era tutto l’universo femminile che Antonio aveva, e doveva farsela bastare. La quotidianità vissuta col padre scorreva lenta, ammantata da un alone di tristezza che nemmeno la presunta spensieratezza dei suoi tredici anni riusciva ad infrangere. Per Antonio l’ostacolo più difficile della giornata era il momento della cena con il padre, fra le mura di una cucina troppo silenziosa che, senza Michela, gli appariva inesorabilmente vuota. Quando erano a tavola tutti e tre insieme, era sua madre a tenere viva la conversazione, rideva spesso, lo faceva di gusto, anche per cose banali. Ad Antonio piaceva molto la sua allegria e anche papà, sovente, veniva contagiato dal buonumore di Michela. Ora, invece, ogni volta che Antonio si sedeva in quella cucina, allo stesso tavolo, in compagnia solo del padre, provava una tristezza profonda. Il distacco controllato delle affermazioni di Claudio, le poche parole scambiate sull’andamento della giornata, pronunciate più per dovere che per slancio, più per abitudine che per reale desiderio di sapere, incupivano Antonio fino a togliergli l’appetito. Durante quelle cene dense di imbarazzo, Antonio mangiava il più in fretta possibile, ingollava il cibo velocemente mostrando un appetito non reale, che a stento mascherava la sua gran fretta di andarsene. Era arrivato a pensare, e per questo si sentiva in colpa, che all’ora di cena stava meglio quando suo padre era via per lavoro. Claudio faceva il rappresentante di lavapavimenti industriali, ogni giorno girava la Toscana in lungo e in largo, saltuariamente varcava i confini regionali e faceva il possibile, ogni sera, per rincasare all’Elba con l’ultimo traghetto. Ogni tanto, però, quando doveva andare lontano, capitava che non ce la facesse a prendere l’ultima corsa della Toremar o della Sardinia ed era costretto ad assentarsi la notte. In quelle sere, Antonio saliva sull’autobus e raggiungeva zia Giuliana alla Biodola. Giuliana ed il marito erano sposati da trent’anni, non avevano voluto figli, stavano bene così. Abitavano in una piccola casa arroccata sul promontorio di Scaglieri che si affacciava sulla più bella spiaggia dell’isola, la preferita di Antonio. I colori elbani, di terra e di mare del tutto simili a quelli della Liguria, conferivano al panorama una naturale drammaticità. Le rocce irte, la vegetazione rigogliosa, gli strapiombi improvvisi e i fondali pescosi rendevano l’Elba territorio scorbutico ed impervio, l’esatto contrario di chi la abitava, livornesi accoglienti e aperti di carattere.

    La fermata del tram si trovava sulla strada principale in cima alla collina, al bivio per Procchio. Da lì Antonio doveva percorrere a piedi una lunga discesa per raggiungere la casa degli zii, che non possedevano l’automobile. Non gli seccava dover affrontare quel tragitto da solo, nemmeno in inverno, quando la strada era deserta e invece del vociare dei turisti si udivano soltanto i suoni rassicuranti della natura. Gli piaceva sedersi sul balcone della casa di Giuliana: da lì, nelle giornate terse, con il binocolo si poteva vedere l’Isola di Capraia. Antonio stava bene a casa degli zii perché in quei luoghi appartati il silenzio era naturale e non si sentiva costretto a sostenere conversazioni forzate e permeate di imbarazzo. Zia Giuliana cucinava bene, piatti semplici che Antonio divorava con appetito reale. Per ringraziarla dell’ospitalità, l’aiutava a riassettare, poi si chiudeva nella camera degli ospiti, si stendeva sul letto ad ascoltare l’ondeggiare cullante della risacca in sottofondo, felice di addormentarsi in pace senza il ronzio della televisione di suo padre a disturbare la quiete dei suoi pensieri.

    Una sera di fine settembre, Antonio stava scrutando il mare piatto della costa di Scaglieri ed i pochi turisti rimasti sulla spiaggia. Alcuni facevano il bagno godendosi il calore che il mare aveva accumulato durante l’estate. Illuminati dai raggi del tramonto settembrino, nuotavano dolcemente, infrangendo la calma del mare fattosi olio. Erano perlopiù stranieri, la moda delle vacanze all’Elba aveva raggiunto i paesi nordici e l’isola era invasa da olandesi e danesi. Antonio pensò che gli sarebbe piaciuto viaggiare e visitare i paesi nordici da cui provenivano quei turisti, anche se i suoi interessi geografici miravano ad altri angoli del pianeta. Studiando geografia a scuola, aveva scoperto di avere numerose curiosità sul mondo, ma di essere attratto soprattutto dai paesaggi e dalle culture orientali, talmente distanti da affascinarlo profondamente.

    Come stai Antonio? la voce di Giuliana lo distolse dai suoi pensieri di viaggiatore immaginario.

    Abbastanza bene, grazie zia. Non era proprio la verità, ma Antonio non voleva rispondere diversamente.

    Tua madre non era come noi.

    L’affermazione di Giuliana lo colse di sorpresa, non parlava mai di Michela, Antonio non capiva perché dovesse parlarne proprio in quel momento, così, all’improvviso. Non sapeva come reagire, si limitò a fingere di non capire.

    In che senso?

    Nel senso che lei era capace di donare amore, era brava a farlo, le veniva naturale, si percepiva che era nella sua natura e che non le costava alcuno sforzo. Noi no, intendo io e tuo padre, noi non siamo così. Ci hanno cresciuti al freddo, nell’indifferenza dei sentimenti e delle manifestazioni affettuose, per questo non siamo capaci di darne. Vedi Antonio, noi non siamo persone cattive, è che preferiamo ancorarci alle cose concrete, alla solidità del lavoro quotidiano. Non sappiamo cullarci nella mollezza dei sentimentalismi, sappiamo amare coi fatti, non coi gesti.

    Di fronte allo sguardo di Antonio, da cui traspariva l’amara consapevolezza di quelle affermazioni, zia Giuliana si ammorbidì, gli andò incontro e si sforzò di donargli un abbraccio. Antonio non avvertì calore perché era un abbraccio appena un poco tiepido, rigido ed imbarazzato. La ringraziò comunque e, come sempre, se lo fece bastare.

    Alla finestra (2002)

    Stare fermo davanti alla televisione non gli era mai piaciuto, nemmeno da bambino: i cartoni animati lo ipnotizzavano e non riusciva a pensare. Ad Antonio piaceva ragionare lentamente

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