Cavalli nella notte (Il Centauro)
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Anche tua madre, se non sbaglio, piacque a un dio.
Chirone
Altri tempi davvero. Fu il vecchio dio per amarla si fece stallone. Sulla vetta del monte.
(Cesare Pavese – Dialoghi con Leucò)
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Cavalli nella notte (Il Centauro) - Valerio Bollac
CAVALLI NELLA NOTTE
(Il Centauro)
I.
Gli occhi di Jalil sono due palle ardenti, enormi, sproporzionate, protese in fuori quasi a voler fuggire l’angusto limite dell’orbite, fiammeggianti e bollenti come il fuoco greco che ulula la sua furia sibilante mentre assale le torri e le mura nemiche. Jalil lo conosce, i suoi antenati lo hanno visto volare sopra le loro teste e scatenare l’inferno prima di lanciarsi nella carica finale, lì, sotto i bastioni di San Giovanni d’Acri o davanti alle porte di Gerusalemme ed hanno inciso profondamente il ricordo nel suo DNA di guerriero. Talvolta Jalil placa la fiamma delle pupille bloccandosi all’improvviso rigido ed austero a fissare un punto lontano nel cielo mentre odora l’aria col naso puntato a sud e Kelso, vecchio montanaro mite redattore delle mille e mille storie che si aggirano nella valle, non si meraviglia e suggerisce sorridendo che Jalil è arabo, quindi probabilmente anche mussulmano e perciò è normale che preghi il suo dio de La Mecca ed in ciò Kelso si limita ad annotare, senza neppure invocare la protezione del più accattivante Dio nostrano, l’ossequio di Jalil verso i dettami di quella strana religione moresca; i suoi Dei, invece, Kelso li cerca tra i boschi, le montagne non per chiedere grazie o perdono ma per imparare dalle fronde, dalle rocce e dalle acque incontaminate di sorgenti nascoste.
II.
Sei cavalieri dispersi tra le gole nell’alta valle d’Ingarda: cosa aspetta l’Autorità ad intervenire? (Il Corriere di Matlhus)
Il giudice Lauche Torux poggia il giornale sulla scrivania ricoperta di niente, fascicoli senza futuro, dimenticati da Dio e dalla Giustizia, lasciati lì a decantare la loro futilità sul tavolo del super raccomandato, l’atleta olimpionico blasone dello sport nazionale che, con l’incidente e la fine della carriera, si era guadagnato un posto in Procura a scaldare la poltrona più chiacchierata del Palazzo di Giustizia. Un anno rinchiuso in quella specie di cella monastica a sfogliare margherite e ritirare lo stipendio a fine mese; è vero, a Lauche il ginocchio ancora scricchiola quando l’umidità appena si fa sentire, ma non era questo il premio che aveva sperato.
III.
La gamba è guarita, non duole e Gerbera può anche azzardare una breve corsa sul prato: un buon decorso considerata l’età della paziente e la magagna abbastanza seria. Ma Gerbera, anche se non è più una bambina da molto tempo, ha fibra di ferro: è nata lì, tra le strette forre dell’Ingarda, le conosce tutte e non le teme, le ama invece e lo stesso amore per quella Natura indomabile lo ha trasmesso a sua figlia Luna. Gerbera si ferma davanti a Jalil che la scruta coi suoi occhi ardenti di condottiero berbero, principe di un deserto senza remissione che conduce gli uomini al limite della follia, oltre, fino alla morte.
«Quanto è bello! – pensa – Ma che ci è venuto a fare questo figlio del sole implacabile in un mondo così diverso però altrettanto inospitale?»
Gerbera non ha risposte a questa domanda ma il suo cuore ancora freme guardando i dolcissimi occhi terribili di Jalil e pensa con affetto a Luna, il frutto di quell’istante di folle passione meravigliosa e mentre brividi antichi sembrano tendere la sua pelle come fosse sfiorata da fiocchi di neve candida la immagina adesso lassù, negli intrichi rocciosi, tra i boschi dell’Ingarda impegnata a cercare nuove strade da raccontare ai suoi figli quando tornerà stanca ma felice a valle.
IV.
Yethon Frujale vive con nonno Kelso da quando i suoi genitori sono morti: dieci anni, metà della vita, ad imparare a conoscere la valle ed i cavalli, a carpire segreti a chi non vuole nasconderli, dieci anni spesi a capire quello che si può vedere con occhi soltanto meno offuscati, a sentire con orecchie meno intasate. E nonno Kelso, il vecchio saggio, lo ha accompagnato per questa via e per le altre, più impervie, che conduco su alle fredde radure dell’Ingarda, alle inattese spianate illuminate da un sole improvviso che si aprono nei fianchi della montagna, ai torrenti impetuosi dove rocce bianche e consunte ricordano agli uomini quando siano più vecchie di loro.
«Andremo lì, Penyan, – sussurra Yethon alla puledra, mentre stringe con dolcezza il sottopancia – su per la valle e potrai rivedere il luogo dove sei nata, i prati delle prime corse, ascoltare il vento che ti scompigliava la criniera, sentire l’odore della resina che trasuda dagli alberi e dell’erba fresca … ricordi, piccola mia, quant’era tenera, saporita?»
Penyan ha tre anni, è la prima volta che torna su in montagna ma Yethon è sicuro che sarà tranquilla, l’ha domata lui seguendo i consigli di Jorlin e nonno Kelso, Homes non l’ha mai sfiorata neanche con un dito: Penyan è la sua cavalla. Controlla che gli altri cavalieri siano già in sella, sorride alla bella ragazza che monta la cavalla storna, infila il piede nella staffa issandosi delicatamente in sella e s’incammina lungo il sentiero che entra nel bosco; pochi metri e, mentre il sole tramonta, i sei cavalli trottano verso l’oscurità sconosciuta.
V.
Lauche Torux, il dolce angelo volteggiava in sella ad Ippogrifo, suo cavallo suo amico suo compagno fidato tra le insidie del campo ostacoli ed il pubblico restava incatenato senza proferire parola senza staccare gli occhi, incantato da quella coppia impossibile che sembrava un unico essere meraviglioso; solo un coro di sospiri ad ogni volo magico oltre le gigantesche barriere degli oxer, troppo alte per essere vere.
Si disse poi che il ginocchio di Lauche aveva ceduto durante il percorso ma non era andata così: Lauche, forse distratto dagli osanna vibranti provenienti dal parterre o dal verde intenso del campo o troppo concentrato sulle difficoltà che a breve avrebbe dovuto affrontare, strusciò la gamba sul pilastro del cancello d’ingresso e si spaccò la rotula. Incurante del dolore, come si conviene ad un Eroe mitologico concluse la gara egualmente e vinse; in fondo la