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Improvvisazioni per chitarra e batteria
Improvvisazioni per chitarra e batteria
Improvvisazioni per chitarra e batteria
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Improvvisazioni per chitarra e batteria

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About this ebook

Ravenna. Febbraio: in un’atmosfera fangosa e avvolta dal gelo non sai né come muoverti né, soprattutto, di chi fidarti. Se poi sei un extracomunitario di origini africane, le cose, anche in una terra in apparenza accogliente e solidale come la Romagna, possono diventare ancora più difficili.
Può succederti, se sei fortunato, di ricevere minacce per posta. Oppure di non saper più dove dormire perché il tugurio in cui vivi è stato incendiato. O, ancora, di morire volando “accidentalmente” da un’impalcatura nel cantiere edile in cui stai lavorando.
È in mezzo a questi episodi di razzismo che si trova ad agire l’investigatore Luca Corsini. A fargli da sponda è il capo della Squadra mobile Michele D’Arcangelo, seriamente impegnato a tenere a bada, oltre alla criminalità urbana, anche la propria gastrite…
LanguageItaliano
PublisherNevio Galeati
Release dateFeb 4, 2015
ISBN9786050354713
Improvvisazioni per chitarra e batteria

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    Improvvisazioni per chitarra e batteria - Nevio Galeati

    14

    NEVIO GALEATI

    Improvvisazioni

    per chitarra e batteria

    ROMANZO GIALLO

    IMPROVVISAZIONI PER CHITARRA E BATTERIA

    © 2005 Foschi Editore

    © 2015 Nevio Galeati

    Tutti i diritti riservati

    Layout interno dell’eBook: Scrittura a tutto tondo

    Fregi: Billy Frank Alexander

    Illustrazione di copertina: Riccardo Galeati (Omaggio a Eugenio Miccini)

    Progetto grafico: Salieritre Milano — Mauro Monaldini

    Questo libro elettronico contiene materiale coperto da copyright e può essere utilizzato per sole finalità di carattere personale: il testo non può essere copiato, riprodotto, adattato, tradotto, trasferito, distribuito, licenziato o trasmesso in pubblico, né in tutto né in parte, senza l’esplicito consenso dell’autore.

    Se stai leggendo questo libro elettronico e non l’hai comprato o non è stato comprato per il tuo uso personale, per favore acquistane una copia. Ti preghiamo di non usufruire della pirateria digitale, e di non incoraggiarla. Rispetta il lavoro di chi scrive. Grazie!

    Per contattare l’autore: ngaleati@alice.it

    ISBN: 9786050354713 — ASIN: B00T6ZW0R6

    L’Autore

    Nevio Galeati, ravennate, classe 1952, giornalista dal 1979, ha iniziato pubblicando racconti gialli a puntate sui quotidiani, prima l’Unità, poi Il Resto del Carlino. Il suo primo romanzo, Telefonate e birra, d’autunno, è uscito con la casa editrice I Fiori Blu di Bologna (1999) a cui è seguita la raccolta di racconti Otto alla rovescia (Allori Edizioni, 2001). Altri racconti sono stati pubblicati dalla rivista Delitti di carta diretta da Renzo Cremante e Loriano Macchiavelli e dal sito Carmillaonline.com; Adriatica è uscito nella raccolta Oltre la nebbia, curata da Eraldo Baldini (Foschi Editore, 2004). Improvvisazioni per chitarra è batteria è uscito in prima edizione nel 2005 (Foschi Editore).

    È stato fra i fondatori (nel 2003) ed è il direttore artistico del Festival di letteratura di genere GialloLuna NeroNotte; dal 2013 fa parte del Gruppo di lavoro del Progetto nazionale di promozione alla lettura In Vitro, promosso dal Centro per il libro e la lettura di Roma.

    È sposato con Maria Cristina. Ha tre figli: Giulia, Martina e Pietro.

    La ‘casa dei negri’ era in fondo alla carraia, a fianco di un fosso dove arrivavano, incontrollati, i liquami di un allevamento di conigli. Una parte del tetto era crollata da molto tempo, dopo che Anselmo era morto senza lasciare alcun erede. Nessuno aveva voluto quelle mura screpolate; ci si era solo limitati a bloccare porta e imposte con assi di legno. Le stagioni avevano fatto il resto. Per un breve periodo qualche giovane del vicino paese l’aveva utilizzata per scoprire il sesso: due vecchi materassi buttati per terra erano più comodi e sicuri dei ribaltabili di una qualsiasi automobile. Era durata poco perché le ragazze, libere o a pagamento, non avevano alcuna intenzione di tornare una seconda volta: un conto era attraversare un campo invaso solo dalle erbacce, un altro sentire sulla pelle l’aria di quelle due uniche stanze buie. Il tanfo del fosso spesso toglieva il respiro; topi e insetti non scappavano neppure più, si limitavano a guardare gli intrusi.

    Così era diventata la casa dei negri. Erano arrivati in due alla fine di settembre; a piedi, magri, il più alto aveva un sacco informe sulla spalla destra, sicuramente senegalesi. Forse erano scesi dal treno, il locale che arranca da Ravenna a Bologna. Di sicuro qualcuno li aveva visti parlare con un ragazzo marocchino che lavorava per la cooperativa braccianti. Anche se incomprensibile, la loro lingua faceva parte dei suoni conosciuti, in quella parte di Romagna ai confini con l’Emilia. Poi si erano rimessi in cammino e, a quanto pare, avevano deciso di vivere almeno per qualche tempo nel rudere del vecchio contadino.

    Durante l’inverno non avevano creato alcun problema; restava difficile capire come riuscissero a sopravvivere, senza accendini, tappeti o elefantini intagliati da vendere. Qualcuno evidentemente li aiutava, mentre il maresciallo della stazione carabinieri faceva finta di non vedere. Che fossero clandestini non c’era dubbio ma, in fondo, nessuno aveva avuto ragioni per lamentarsi.

    Così, in quella mattina di febbraio, quando le fiamme dal legno delle imposte passarono ad intaccare il resto della casa, in paese vi furono sguardi stupiti. Molti corsero a vedere, nonostante il freddo. L’ultima parte del tetto franò pochi istanti prima che l’autobotte dei Vigili del fuoco si fermasse in quella che era stata l’aia di Anselmo. Il fosso era ghiacciato e l’aria pulita. Non fu difficile spegnere l’incendio e, smassando le macerie, si recuperarono un paio di pentolini, brandelli di un vecchio materasso, una scarpa. Poco più in là, a fianco di quello che restava di un aratro, un carabiniere trovò una tanica vuota, pulita, nuova. Odorava di benzina. Il maresciallo sbuffò e chiamò il magistrato di turno; aveva un’unica consolazione: non erano stati trovati cadaveri, i due clandestini probabilmente se n’erano andati prima del rogo.

    Anche dentro la Clio azzurra, rimasta sulla provinciale, qualcuno sbuffò. Un altro imprecò.

    — Dici che non c’erano, eh?

    — Certo che no: hai visto ambulanze o becchini?

    — Dovevi controllare tu, cretino!

    — Almeno adesso non hanno più dove andare…

    — Non è una consolazione. Lui ci scorticherà. Aveva detto: date una lezione a quei negri.

    — Andiamo, forza, prima che qualcuno venga a chiederci cosa facciamo qui. Ah, lasciami in stazione. Ci vediamo stasera…

    Gli albanesi dilagavano, cosa poteva fare? Tanti muratori, in nero e, naturalmente, senza permesso di soggiorno. Senza contare i papponi e gli spacciatori. Il capo della squadra mobile, Michele D’Arcangelo, aveva il naso schiacciato sul vetro della finestra che guardava la città. I campanili e le chiese, pochissimi palazzi con più di otto piani; forse solo due toccavano gli undici. Erano laggiù, sfumati dalla distanza, vicino al porto. In realtà li immaginava solamente. Conosceva Ravenna a memoria, alla faccia di molti che vi erano nati e non sapevano dove fosse vicolo Viola del Circo. Ma cosa poteva fare, lui, contro tutti quegli albanesi? Per fortuna l’estate era passata, perché altrimenti…

    — Dobbiamo mettere un freno al commercio abusivo sulla spiaggia!

    — Dottore, mi sembra che i negozi di Milano Marittima, ma anche di Punta Marina Terme, Marina di Ravenna, Porto Corsini, non vendano collanine o binocoli sovietici…

    — La settimana scorsa i carabinieri hanno sequestrato un camion di griffe…

    — Roba taroccata, mi scusi il termine, dottore, in fondo un paio di jeans a 15 euro, dove li trova?

    — È questione di principio: siamo di fronte a concorrenza sleale; poi evadono il fisco…

    — Come le puttane — in quell’occasione, nell’ufficio del questore, con sindaci, assessori e dirigenti delle associazioni del commercio, D’Arcangelo aveva perso la pazienza — che fanno marchette, ma non ne versano…

    — Ecco, un’altra piaga che le forze dell’ordine non riescono a sanare! Non c’è niente da ridere, sa!

    Era uscito dalla riunione sbattendo la porta; guadagnandosi l’ennesima sfuriata dal questore stesso; a sua volta passato con il pettine fine da tutto il comitato per l’ordine pubblico. Risultato: notti sull’Adriatica a rincorrere lucciole e giorni sotto il sole a sudare per una manciata d’immigrati che avevano un unico difetto. Si erano illusi che in Occidente, nel Nord del mondo, si vivesse meglio. Intanto i suoi uomini a volte lo capivano e a volte pensavano che di idealisti come lui ne avevano piene le tasche. In fondo però tutti gli volevano bene e lo difendevano; insomma, quasi tutti.

    Si spostò appena un passo dalla finestra, giusto lo spazio per accendere un mezzo toscano. Gli albanesi, eh? Contro ogni speranza, l’anno prima, erano riusciti a trovare gli assassini di una prostituta e del suo fidanzato. Albanesi, appunto. Il killer, per un certo periodo, era stato descritto come ‘un bravo ragazzo’, un ‘onesto lavoratore’, muratore appunto. Con cinque alias. Il sostituto procuratore, donna di grinta e per questo poco ben voluta, era riuscita a dimostrare che il lavoro della polizia aveva senso. Due condanne, un successo raro, rarissimo, in mezzo a una lista troppo lunga di delitti senza colpevoli.

    Ma questa contro gli albanesi doveva essere una crociata o un’indagine? Su cosa doveva lavorare? Qualcosa gli si agitò nello stomaco. Guardò la scrivania: nel secondo cassetto doveva esserci una confezione di Anacidol. Poi la radio sfrigolò.

    — … incendio doloso… vittime… poco fuori il centro abitato di Fruges. Si cercano… senegalesi…

    — Sono io. Non ho copiato — disse spingendo due volte il pulsante a fianco del microfono — ripetete il messaggio, se sono cose serie.

    — Stiamo ripetendo una segnalazione dei cugini, dottore — dalla voce gli sembrava Santo; cosa ci faceva alla centrale operativa?

    — Santo?

    — Sì…

    — Cosa fai in centrale? Aspetta che ti chiamo via filo.

    Compose il numero interno, aspettò appena due squilli.

    — Dottore, sono qui. Mio cugino si è beccato l’otite dal figlio, lo sostituisco per questo turno. Ero di riposo…

    — Devi essere scemo. Cos’è ‘sta storia dei morti?

    — No, dottore, ha davvero ricevuto male: non ci sono state vittime. Hanno incendiato un rudere dove di solito dormivano due senegalesi. Ma loro non c’erano; pare fossero a una festa a Porto Fuori…

    — La festa di che?

    — Quella organizzata dalla consulta per l’immigrazione, credo l’avessero anche invitata, dottore. Quelle cose dove si mangia etnico…

    — Ho capito, poi fatemi avere un rapporto. Ah, Santo, non si mangia etnico solo in Africa; anche i tuoi gnocchetti sono etnici, della Sardegna…

    Posando il ricevitore del telefono D’Arcangelo si accorse di ridere da solo. Il pasticcio non era di sua competenza e, in fondo, c’era il commissariato di Lugo. A lui bastavano gli albanesi. Ma perché cercare Hoxa e compagni, ‘a prescindere’? Controlliamo i clandestini, gli avevano detto. Perché toccava a lui? Non riuscendo a trovare una risposta sensata, decise che l’Anacidol era meglio del toscano. Il pastiglione lasciava in bocca un vago sentore di gesso e limone. Glielo aveva consigliato, qualche anno prima, un suo amico. Amico… chissà se la definizione era giusta. Sì, lo era: Luca Corsini, il rompiscatole con l’assurda idea di lavorare come investigatore privato in una città come quella, e talmente testardo da riuscire ugualmente ad arrivare alla fine del mese senza saltare troppe cene. Ma sempre con la giacca e la cravatta giuste. Chissà dove stava combinando guai, quella mattina…

    Avevo il naso freddo perché, nonostante tutto (e in quell’avverbio si nascondeva in primo luogo l’età), mi ostinavo a dormire con le finestre socchiuse anche in pieno inverno. Era stata, però, una notte di sogni sereni. Le vecchie ferite avevano concesso una tregua; sulla scrivania, nello studio al piano terra della piccola casa a metà di via Cavour, non c’erano bollette da pagare e il conto in banca non arrossiva di vergogna. Ma soprattutto la vocina che negli ultimi anni aveva deciso di accomodarsi negli interstizi del cervello, pareva decisa a lasciarmi, almeno, dormire in pace. Una psicanalista, che non so come avevo convinto a condividere qualche notte con me (rigorosamente nel suo letto), mi aveva spiegato che si trattava di una materializzazione della mia coscienza.

    — Marinella — avevo risposto abbottonandomi la camicia — lei non si materializza mai: rompe e basta.

    — Allora devi crescere, Luca. Le vocine, gli amici invisibili, sono giochi da bambini, salvo che non diventino patologie.

    Quando però le avevo mandato all’aria due appuntamenti, smettendo anche di rispondere al telefono, era stata costretta a ricredersi. Ero fuori, peggio dei suoi pazienti. Preferivo la vocina a lei. Non era così, ma come facevo a spiegarlo… a tutte e due? Non mi piaceva stare solo, neppure per idea, ma fino a quel momento era andata così, fra lavatrici da preparare, frigoriferi e dispense da rifornire e il revolver nascosto in un calzino, quarto cassetto dell’armadio, in camera da letto.

    Quasi come ogni mattina, dopo la doccia, la barba, un caffè da Moka allungato con l’avanzo della sera precedente, decisi di fare colazione al bar. L’unica variabile possibile era quale bar scegliere. Ricordai che Pino aveva chiuso per ferie; una nuova, estenuante, inutile settimana per cercare la sua Angela. Lo avevo invidiato negli anni in cui andava al mare con la piccola seduta sulla punta del sedile della Vespa; quando li raggiungevo in spiaggia e la bambina voleva nuotare con ‘lo zio Luca’. Adesso no: una figlia viva, ma perduta, non si sa dove o perché, era un peso che non sarei stato in grado di portare. Ma Pino era Pino, niente da dire.

    Sbirciai dalla finestra; il sole riusciva a scaldare il selciato quasi artistico di via Cavour, cercando di non scivolare sui ciottoli, belli ma umidi per la nebbia della notte appena trascorsa. Cappotto grigio, cappello nero, scesi le scale e decisi di iniziare la giornata da Lino. La vocina si svegliò e naturalmente mi fece notare che frequentavo troppa gente con nomi simili. Sembravano filastrocche: Pino, Lino, Tino, Gino. Sbuffai, ricordando all’ultimo momento di aver lasciato pipa e tabacco sulla scrivania; tornai indietro. Finalmente a posto abbandonai la zona protetta, le mura di casa insomma, e mi ritrovai in mezzo alla realtà. Un’altra giornata senza alcunché da fare; cominciavano ad essere troppe, convalescenza a parte. Gli avvocati sembravano essersi dimenticati di me e avevo le tasche piene di coppie sfasciate per questioni di corna. Però il sole c’era davvero e all’angolo con via Salara guardai forse con troppa insistenza una ragazza che aveva due gambe splendide. Ah, le biciclette! Ma come faceva a non sentire freddo? Già, ci voleva un caffè, forse una brioche con la marmellata.

    Da Lino il caos non cambiava mai. Il bar era stato ricavato in un angolo del palazzo che ospitava un cinematografo, il Capitol. Le due pareti esterne erano state sostituite al momento della costruzione dell’edificio da vetrate e quando c’era poca gente il freddo s’insinuava fra le fessure e pareva quasi di essere all’aperto. In pochi metri quadrati, però, si potevano trovare caramelle, biscotti, merendine, cioccolate, pop corn, patatine e altre porcherie più o meno sintetiche, d’ogni tipo. Lino era riuscito a sistemare fornelletti e microonde, un forno ventilato e due piastre per panini caldi in uno spazio che a me sarebbe bastato appena per stendere ad asciugare due camicie. All’ora di pranzo, da quando era dilagata anche in Italia, l’abitudine di nutrirsi di corsa prima di tornare al lavoro, riusciva ad allestire addirittura tre tavolini. Ma l’asso nella manica di quella specie di istituzione per centinaia di persone era l’assoluta scioltezza con cui Lino riusciva a comunicare con chiunque. Parlava tre lingue, storpiava solo il romagnolo. E aveva una memoria visiva straordinaria.

    — Dottor Corsini, come sta? Titti, un caffè e un bicchiere d’acqua, naturale e non fredda, per il dottore.

    Era così con tutti, ricordava gusti e manie di ogni cliente senza sbagliare mai. A differenza di Pino che, se con me si comportava meglio di un parente, con la maggior parte dei clienti era duro e scorbutico. Non a caso aveva la cassa spesso vuota. D’altra parte Tiziana, Titti appunto, era una cameriera assolutamente in sintonia con il suo stile e la malizia con cui si rivolgeva ai ragazzi aiutava ancora di più il lavoro del bar.

    — Lino, delinquente, come stai?

    — Bene, Luca, anzi meravigliosamente. Siamo giovani, belli e pieni di soldi: cosa ci serve di più!

    — ‘cidenti a te, Lino: è la stessa battuta da vent’anni! Non siamo più giovani, dubito di essere mai stato bello e quanto a soldi… lasciamo stare.

    Era un momento tranquillo della mattina; nel bar, seduta ad uno dei due tavolini rotondi con il ripiano di marmo, c’era solo l’impiegata del commercialista che aveva uno studio dall’altro lato della strada; occhiali da vista molto intriganti, capelli castani corti, espressione quasi sempre imbronciata. Molto, molto carina. Titti era andata alla Camera del lavoro con un vassoio di caffè e brioche; doveva esserci una riunione importante. O solo una riunione. Sfogliai il giornale senza neppure leggere: guardavo le fotografie. Nella prima pagina della cronaca locale sbucò un piccolo titolo che attirò la mia attenzione: ‘Perquisizioni illegali agli immigrati’. Lessi due righe sì e una no, ma fu sufficiente. Sembrava che le ‘forze di polizia’ si fossero espresse, come dire, al meglio: irruzioni all’alba negli appartamenti sulla riviera, dove qualcuno riusciva a stipare otto o dieci persone in 65 metri quadrati, addirittura senza mandati di perquisizione… a che pro? Un passaggio mi sembrò significativo, a parte lo stile, come dire, legnoso, con cui era scritto: ‘Gli immigrati devono preliminarmente dimostrare di non essere spacciatori, lenoni, criminali in genere’.

    Mi venne in mente un modo di dire dei vecchietti che giocavano a briscola nel retro del bar di Pino; il senso era: ‘Cosa vuoi capire tu, che sei un marocchino’. Ma si intendeva meridionale.

    Chiusi il giornale. Si trovava sempre il modo di rifarsi su qualcuno: è facile pensare

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