Liberate l'Ostaggio
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Si presenta immediatamente con un "prendere o lasciare", se si superano queste quattro righe si arriva fino alla fine, altrimenti si rimane fermi lì, leggermente storditi nel chiederci se non fosse stato il caso di proseguire la lettura. Ma non ci sono mezzi termini, e se tanto schietto è l’incipit, lo è altrettanto il filo conduttore di questo testo: scavare nella storia, mettere a nudo i motivi reali di una guerra di Troia voluta da Agamennone per controllare il Bosforo e suggellare la propria egemonia. Motivi economici e politici insomma, null’altro che i motivi di tutte le guerre.
Bollac non ha paura di smontare e rimontare l’Iliade del Monti, ne dà una lettura che pone l’accento non sulla guerra guerreggiata, ma su quella combattuta all’interno del fronte greco fra il machiavellico Agamennone ed il rampante Achille, che minaccia di ricevere più consensi del vecchio sovrano Atride. Non più duelli dunque, ma uomini che si confrontano, e si affrontano, mentre insieme combattono battaglie che non tutti avrebbero voluto.
Ancora non basta, la vera sorpresa è la completa riscrittura del personaggio di Ulisse, non più quello del Cavallo, del rapporto fra l’itachese e l’equino non v’è traccia, ma portaborse, lacchè, scudiero, vassallo di Agamennone, per il quale lavorerà diligentemente al mantenimento del suo potere con trucchi e raggiri di perfetta fattura.
Certamente “Liberate l’Ostaggio” non vuol essere un saggio accademico, ma vuol contribuire a ravvivare la bibliografia sul poema ponendosi sia come mezzo di rilettura, sia come primo strumento per avvicinarsi ad Omero da un punto di vista "altro".
Tiene il lettore sulle pagine con una scrittura dal ritmo elevato, lo fa sorridere quando mette in versi alcuni accadimenti, e lo fa rallentare, accompagnandolo sul finale, con il “Dialogo tra Achille e il Fiume”, in cui il Pelide viene riconsegnato al secolo con la possibilità di riscrivere l’intera storia.
Gabriele Sabatini
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Liberate l'Ostaggio - Valerio Bollac
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LIBERATE L’OSTAGGIO
(Rileggendo Omero)
Introduzione
Un po’ tutti abbiamo patito nefaste conseguenze ai genitali; i maschietti sopportando una precoce quanto irreversibile frammentazione dei testicoli, mentre le femminucce ancora tentano di rimettere pazientemente insieme i pezzi delle piccole labbra completamente a suo tempo sfaldate dalla lettura scolastica del capolavoro omerico.
Tutto ciò si deve, in primis, alla penna poliedrica, capace di passare con mirabile disinvoltura dal conservatorismo monarchico e clericale dell’entourage pontificio vaticano agli ideali democratici e giacobini della Repubblica Cisalpina, (salvo poi trasmigrare al servizio degli Austriaci) di Vincenzo Monti, il quale, ancora ossessionato dal classicismo ellenico frequentato in gioventù nel Bosco Parrasio, intese spendere energie, abnegazione (gli occorsero vent’anni per completare l’opera, pubblicata nel 1812) e la sua prorompente vena poetica nel tentativo di spacciare una guerra mercantile finalizzata al controllo dei traffici commerciali in medio oriente (argomento attualissimo) per un passatempo degli Dei Olimpici, glorificando i loro insulsi burattini sadici capaci solo di vivere e morire di spada, rubarsi donne e bottino, vicendevolmente squartarsi senza misericordia.
Tra mistificazioni ed italiano illustre
, l’unico risultato certo fu di convincere molteplici generazioni di giovani studenti che la Letteratura è un’insopportabile sequela di parole e lo studio comparato della mitologia greca un insulto all’intelligenza; tant’è che, letto l’ultimo versetto dell’Iliade e conclusa l’estenuante maratona, nessuno scolaro, per quanto solerte, si sarebbe più accostato, senza una sorta di seccante repellenza, all’epopea troiana.
<><><><><>
Nel 1812, Vincenzo Monti era il boss della cultura letteraria meneghina, quindi il riferimento dell’intellighenzia borghese, non ancora insidiato dall’astro nascente del Manzoni (che, peraltro, gli dedicò l’idillio Adda nel 1803).
In conseguenza a questa posizione di predominio culturale, la sua Iliade fu considerata l’unica vera traduzione valida dell’originale omerico: certezza fallace, per avvalorare la quale si ricorse ad una pietosa dimenticanza, giacché l’arcadista Monti, maniaco dell’archetipo ellenico, nostalgico della mitica Età dell’Oro, fanatico sostenitore dello statico ma perfetto neoclassicismo, non conosceva il greco ed è quindi improbabile che abbia potuto tradurre dall’originale (ammesso e non concesso che ne possedesse o ne esistesse una copia).
In realtà le sue fonti erano trascrizioni latine, italiane e francesi, di certo non eccessivamente fedeli, che lui riprese e sintetizzò, con la consulenza dell’archeologo Ennio Quirino Visconti e d’altri amici storici assai competenti, in quello che sarebbe diventato uno dei Sacri Testi delle scuole italiane.
L’ignoranza (nel senso di non conoscenza
) linguistica del Monti non era mica un segreto: tutti conoscevano la sua lacuna filologica.
Ciò non di meno il Maestro è intoccabile, anche se questo comportava disdicevoli attacchi di sordità e di mutismo nell’auditorio acquiescente.
Tra le poche voci libere da sottomissioni culturali spicca per ironia quella di un pur sempre irriverente Ugo Foscolo (pure lui autore di una splendida ma incompleta versione dell’Iliade), che coniò per il Sommo Pedagogo la definizione più pregnante, definendolo il grande traduttor dei traduttor d’Omero.
Con identico spirito dissacratorio, tenteremo una rilettura estemporanea, ma non campata in aria, della guerra di Troia.
Cantami, o Diva …
… del Pelide Achille l’ira funesta
che infiniti addusse lutti agli Achei
e molte anzitempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi.
Il ciclo omerico, ridimensionata la partecipazione del Pantheon ellenico e spogliati i personaggi dagli orpelli di un mito stereotipato, è moderno ed interessante (almeno per chi s’interessa di Storia) né più né meno della seconda guerra mondiale o di quella del Vietnam e, se fosse esistita la televisione, forse avremmo potuto analizzarlo, ripassandolo con calma alla moviola come Desert Storm.
Altre coalizioni, altri protagonisti, altre metodologie belliche sono oggi all’opera nella stessa parte del mondo e sebbene sistemi ed alleanze siano diverse, egualmente una guerra mercantile stanno combattendo. C’è sempre un Agamennone borioso e prepotente a capo degli invasori, col suo consesso di esperti militari, siano essi vecchie cariatidi millantatrici d’antiche glorie (Nestore), potenti guerrieri abili in battaglia (gli Aiaci, Idomeneo, Diomede), pacati intellettuali precettati (Palamede) o subdole faine come Ulisse; neanche manca il provocatore, il fatuo Paride, campione assai scadente però molto abile nel creare condizioni favorevoli all’avversario.
In mezzo a questa combriccola di esaltati guerrafondai, la superstar, il solista, la voce potente e fuori dal coro: Achille, il più forte e coraggioso tra gli Achei, strano eroe che non vuole combattere benché quando impugna la spada si trasformi in uomo d’arme imbattibile, spietato stragista, terrore dei Troiani e, infine, giustiziere di Ettore.
<><><><><>
Stranamente l’Iliade, cronaca di guerra, si ferma ai funerali di Ettore rifiutando di riferirci come si concluse l’epico scontro (per saperlo dobbiamo attendere l’ottavo canto dell’Odissea), forse perché l’intento originale del primo autore non era di celebrare i trucidi scontri fisici su cui tanto indulge il Monti, bensì dare risalto al contrasto umano, etico, tra Agamennone e Achille; non sarebbe male, quindi, sentire l’opinione del Pelide, magari gli svogliati allievi massacrati a scuola saranno soddisfatti da un filo diretto col guerriero.
Stavo lì, bel tranquillo, nel mio fresco padiglione;
meditavo