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Heaven versus Hell
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Heaven versus Hell

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About this ebook

Una giovane demonietta alle prime armi viene mandata sulla Terra come demone tentatrice di Eliam, un tredicenne molto intelligente ma emarginato. Eliam, infatti, è un ragazzino solitario che si rifugia nello studio, in cui eccelle anche grazie ad un’intelligenza fuori dal comune. Ma a renderlo diverso da tutti gli altri c’è ben altro, anche se lui ancora non lo sa: Eliam è uno Sciente.
Cos’è uno Sciente? E’ un essere umano raro, in possesso di un’anima del tutto particolare e dotata di poteri sovrannaturali esclusi a chiunque altro. Proprio per questo motivo l’Inferno vuole impossessarsi della sua anima.
Ma come può un demone ottenere l’anima di un umano? Non con la forza, dal momento che l’uomo è un essere libero, semplicemente spingendolo verso il male.
Ma il giovane Eliam non è lasciato da solo. In suo aiuto il Paradiso manda Albain, un angelo custode molto esperto e stravagante.
La vita di Eliam viene così sconvolta da avvenimenti strani, a cui non sa dare risposte, e finisce col perdere un frammento della sua preziosa anima.
Per recuperare il frammento perduto Eliam deve intraprendere un viaggio pericoloso proprio agli Inferi tra demoni spaventosi e altri spassosamente improbabili. E in quest’avventura Eliam deve imparare a usare le sue strabilianti doti di Sciente.
LanguageItaliano
Release dateFeb 2, 2015
ISBN9786050354171
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    Heaven versus Hell - Valentina Rota

    sacrificio

    Capitolo 1 - La piuma dell'angelo

    La figura incappucciata, acquattata nel buio del vicolo e appiattita contro la parete dell’edificio nel tentativo di mimetizzarsi, teneva gli occhi puntati sugli esseri che riempivano la piazza che si apriva davanti a lei: demoni. Nascosta alla loro vista, osservava silenziosa il via vai dei diavoli. Era giorno di mercato a Feralia, capitale del Regno Oscuro, e numerosi banchi e tendoni occupavano il centro della Piazza Grande. Nel baccano si distinguevano a fatica le voci sguaiate dei venditori che invitavano le diavolesse ad avvicinarsi ed esaminare la merce. Una vantava le sue anime di prima qualità, un’altra prometteva sconti stracciati sull’acquisto di anime di burberi pirati e famelici assassini. Le diavolesse si accalcavano attorno ai banchi spintonandosi per tastare la merce. Piccoli demoni scorrazzavano infliggendo scherzi e dispetti a tutti, rubacchiando occhi di rospo caramellati dai chioschetti di dolciumi e filandosela impuniti.

    Cocchi trainati da bestie mostruose e alate sfrecciavano volando per le strade incuranti dei pedoni, infilandosi in viuzze e sparendo tra enormi e terrificanti costruzioni. Semafori impazziti cercavano di regolare un traffico indisciplinato e incontrollabile.

    Diavoli e mostri di ogni sorta volavano da una parte all’altra, da un edificio all’altro, indaffarati, scontrosi e frenetici: chi si recava a lavoro stringendo una voluminosa ventiquattrore, chi doveva sbrigare commissioni o eseguire consegne. Tutti correvano come tante formiche, ma nessuno guardava in faccia l’altro o pareva mostrare interesse per ciò che accadeva intorno. Urla e schiamazzi gareggiavano in decibel con i ringhi paurosi dei mostri giganti che trainavano i cocchibus.

    La figura osservava immobile la scena: sembrava di guardare un alveare in piena attività ma l’atmosfera non era gioiosa. Com’era assurda la vita dei demoni e quanto egoista la loro società! Anzitutto non conoscevano i concetti di gruppo, di amicizia, di aiuto reciproco; a ogni individuo veniva affidato un compito che svolgeva da solo, senza chiedere o offrire aiuto, anzi cercando, dove possibile, di fregare gli altri per accaparrarsi incarichi più remunerativi. Importava solo la carriera e ogni demone era pronto a fare qualsiasi cosa pur di avanzare di grado. In quella società nessuno era insostituibile e vigeva la regola per cui tutto era sacrificabile per il raggiungimento del fine ultimo, ovvero la conquista di tutte le anime umane e la vittoria del Male sul Bene. I demoni erano come automi, nient’altro che oggetti, pezzi sostituibili di un enorme ingranaggio progettato e controllato da una volontà diabolica superiore: Sua Malignità Nephestos.

    La figura scosse la testa, certo non avrebbe mai desiderato vivere neanche un giorno da demone. Ma quello non era il momento per simili pensieri, doveva prestare attenzione a non farsi scoprire. Attese il momento in cui il fiume di passanti sembrò diminuire e, con molta cautela, uscì dal suo nascondiglio. Fu investita da una luce cupa e rossastra e dovette calcarsi bene il cappuccio sugli occhi per non rimanere abbagliata. L’aria poi era molto calda, soffocante e pestilenziale, e se si fissava l’orizzonte si vedevano le sagome degli edifici tremolare per effetto del calore.

    La figura si avvolse meglio nel mantello, doveva riuscire a confondersi fra i demoni. Non che quelli perdessero molto tempo a osservare il prossimo, presi com’erano da loro stessi; tuttavia doveva fare attenzione a non dare loro indizi sulla sua diversa natura. Si incamminò fiancheggiando brutte costruzioni tra cui il muro bitorzoluto di un imponente edificio, il Banco Diabolico degli Usurai, il cui ingresso era custodito da due enormi statue in pietra, ciascuna raffigurante un mostro dal corpo felino dal cui collo uscivano quattro teste di drago. Ognuna di esse guardava la piazza con occhi maligni e spalancava le fauci in un diabolico ghigno, mostrando denti aguzzi e lingua biforcuta. La figura sentì brividi freddi correrle giù per la schiena e dovette distogliere lo sguardo da quell’orrida vista. Molto probabilmente sarebbe tornata indietro se proprio in quel momento non le fosse comparso davanti, non molto distante, all’improvviso come un miraggio nel deserto, il Laboratorio. Si fermò di botto e misurò il palazzo in tutta la sua imponenza. Era un edificio mastodontico, ancora più grande di quello della banca, e ancora più spaventoso, se possibile. Era costruito con blocchi di pietre rosso cupo. Una scalinata di pietre nere portava all’ingresso, che era incorniciato da un portico formato da quattro colonne, anch’esse di pietra nera. Ai lati della scalinata vi erano due colossali statue di demoni in atto di spiccare il volo.

    La figura proseguì fin dove la strada si apriva in un altro slargo, al centro del quale si trovava il Laboratorio. Una scritta era incisa sulla facciata del palazzo con caratteri di fuoco, in una lingua strana ma non ignota alla figura incappucciata. Lasciò il marciapiede, rischiando più volte di essere travolta da un cocchio volante, e si trovò ai piedi della costruzione.

    Come entrare eludendo la sorveglianza e senza destare sospetti? La risposta si offrì quasi immediatamente. Un gruppo di demoni in camice, probabilmente scienziati, si stava dirigendo verso il palazzo di ritorno dalla pausa pranzo. La figura incappucciata colse l’occasione al volo, affrettò il passo e si unì al gruppo che, silenzioso e marziale, si apprestava a entrare nell’ingresso sorvegliato da guardie armate di tridenti e dall’aspetto tutt’altro che amichevole. Fortunatamente erano troppo ansiose di poter finalmente smontare dal servizio e godere anche loro della pausa per degnarsi di controllare i pass.

    La figura stava per passare davanti a una delle guardie quando fu urtata da uno dei demoni scienziati particolarmente frettoloso e scorbutico. Un lembo del lungo mantello si scostò e per un momento qualcosa sotto di esso brillò. La figura se ne accorse e subito riaccomodò il manto attorno al corpo; diede uno sguardo preoccupato alle guardie, ma poté tirare un sospiro di sollievo, nessuno si era accorto di niente. Seguì il gruppo nell’atrio, le cui pareti erano disseminate di quadri raffiguranti le facce boriosamente impettite di eminenti demoni scienziati, su per una scalinata che sembrò non terminare mai, e lungo un corridoio, una grossa galleria di pietra dal cui soffitto pendevano stalattiti acuminate, illuminata da fiaccole fissate alla roccia che creavano ombre sinistre sulle pareti. Al passaggio le fiamme si contorcevano e con esse anche le ombre, con un effetto ancora più spettrale. La figura sentì ancora una volta il coraggio venirle meno, ma ormai era tardi per pentirsi.

    Vi erano numerose porte di legno borchiato, ognuna delle quali portava inciso sopra un’iscrizione: «reparto sostituzione ali, direttore prof. Lubius Lucifer», «reparto riparazione corna, direttore prof.ssa Fiamma Ardente». Alcune scritte poi erano davvero inquietanti: «reparto sperimentale di fusione mostri-demoni, direttore prof. Mortimer Malus».

    Una incisione recitava «reparto nascite, direttore prof. Fero Mors». La figura rallentò il passo e, quando i demoni furono abbastanza lontani, tornò indietro, aprì la porta, vi sgattaiolò dentro e la richiuse dietro di sé. Si apriva un altro corridoio simile a quello appena lasciato, solo più stretto. Dopo parecchi metri la galleria svoltava a destra e terminava con una seconda porta, anch’essa di legno borchiato.

    Una specie di sesto senso le suggerì che si trovava vicina alla meta. Ora doveva essere molto prudente. Spinse piano la porta cercando di non farla cigolare, impresa ardua viste le condizioni delle cerniere. Con molta cautela fece capolino. La porta introduceva in una enorme caverna la quale, come probabilmente buona parte dell’edificio, aveva pochissima illuminazione naturale. La luce proveniva da alcune fiaccole che ardevano alle pareti, da un centinaio di fuochi accesi in altrettanti camini sui quali bollivano dei calderoni, e da un lucernaio scavato nel soffitto, simile a una lunga e profonda cappa. La volta della caverna era sostenuta da grosse colonne di pietra, alte almeno dieci metri.

    All’improvviso si udì il cigolio di una porta subito seguito da note stonate. Qualcuno era entrato da un altro ingresso nascosto nell’oscurità. La figura si appiattì contro una colonna, nascondendosi nell’ombra.

    Un demone basso e corpulento si diresse saltellando e fischiettando verso i calderoni fumanti. Indossava un camice bianco e portava sul nasone un minuscolo paio di occhiali rotondi. Il diavolo rimestò uno a uno tutti i calderoni senza mai smettere di fischiettare. Quando ebbe finito tirò fuori dalla tasca del camice un quadernetto tutto logoro e sgualcito, sfilò da dietro l’orecchio appuntito una matita, ne bagnò la punta con la linguetta biforcuta e scribacchiò qualcosa. Infine diede uno sguardo alla clessidra da polso e assunse un’aria soddisfatta.

    Bene, bene! Manca poco. Ancora qualche etermese di bollitura e presto avremo altri cento demoni nuovi fiammanti disse e rise tutto compiaciuto per il giochetto di parole. Poi, balzellon balzelloni, se ne andò così com’era venuto, lasciandosi dietro l’eco del motivetto stonato, questa volta cantato a squarciagola.

    La figura incappucciata aspettò che il silenzio ricadesse sulla caverna. Si guardò attorno: quel posto incuteva paura; l’unico suono udibile era il crepitio delle fiamme. Si avvicinò a uno dei calderoni e notò che sul metallo era inciso un nome. Fece ancora qualche passo e sbirciò dentro, ma fu investita da una zaffata di vapore puzzolente che la fece arretrare e tossire disgustata.

    Bleah! Siete nauseabondi ancora prima di nascere! disse. Dovette sforzarsi di non vomitare e ci vollero alcuni minuti per riprendersi completamente. Poi, sotto il cappuccio, assunse un cipiglio deciso. Si mosse verso il calderone e lo spinse con tutta la forza di cui era capace fino a che si rovesciò e con esso anche il suo fetido contenuto. Sbuffando per la fatica, contemplò la brodaglia melmosa che ribolliva sulle pietre del camino e fece una smorfia di disgusto. Con la stessa fermezza di prima si diresse verso il secondo calderone e, rovesciato anche quello, si accanì contro il terzo e il quarto.

    Stava spingendo il decimo calderone quando la porta da cui era entrata si spalancò con un rumore che la fece sobbalzare di paura. Si voltò di scatto. Un demone guardiano era apparso sulla soglia e stringeva in mano un forcone.

    Lo sapevo! Quello scintillio sotto il tuo mantello mi aveva insospettito. Il demone spiccò un balzo, spiegò le enormi ali nere e in pochi attimi fu addosso alla figura incappucciata. Questa fece per scappare, ma il demone fu più rapido e la afferrò per la vita gettandola a terra.

    Con la forza della disperazione la figura si divincolò e riuscì a liberarsi dalla presa. Il demone cercò di afferrarla, ma lei sgusciò via carponi e, nel tentativo di rimettersi in piedi, perse del tutto il mantello che rimase fra le grinfie del demone.

    Non più coperte dal pesante manto due ali bianche e luminose si spiegarono sulla schiena della figura. Era un angelo. Un giovanissimo angelo dal viso pallido e i capelli chiari tutti arruffati.

    Sei solo un ragazzetto – lo schernì il demone con un ghigno ironico, rialzandosi e gettando via il mantello che stringeva ancora nelle mani. – Cos’è, il Supremo è a corto di angeli e manda in giro un moccioso come te? Allora siete davvero ridotti male a Lumea e cominciò a ridere sguaiatamente.

    Il giovane angelo si sentì punto nel vivo. Certo, era ancora adolescente, aveva sì e no duecento eteranni (eteranno più eteranno meno, dopo un po’ si perde il conto) ma lui si sentiva pronto per grandi imprese. Eppure anche a Lumea tutti continuavano a ripetergli che era ancora troppo presto, che prima o poi sarebbe arrivato il suo momento, che per i giovani angeli come lui era più saggio studiare. E lui studiava, e a dire il vero andava anche piuttosto bene a scuola. Ma era molto impaziente di mettere alla prova le proprie capacità. Voleva combattere i demoni e diventare un ottimo angelo custode. Per questo si era avventurato da solo nel Regno Oscuro. Pensava che se fosse riuscito a entrare nel Laboratorio e a sabotare il processo di creazione di nuovi demoni, il Supremo sarebbe stato fiero di lui. Inoltre avrebbe dimostrato di essere pronto a impegnarsi nella lotta contro il Male. A questo pensiero l’angelo riacquistò sicurezza e si preparò ad affrontare il demone. Il viso esprimeva una decisione e una fierezza tale che per un istante il diavolo ne fu spiazzato.

    Credo proprio che ti darò una bella lezione, così ti passerà la voglia di fare l’eroe disse il demone scroccando rumorosamente le nocche, poi spiccò un balzo verso l’angelo che, nuovamente colto alla sprovvista dalla rapidità del nemico, fece appena in tempo a sollevarsi di alcuni metri nel tentativo di schivare l’attacco. Ma non fu sufficiente perché il demone era molto più veloce. In men che non si dica le braccia pelose del diavolo afferrarono l’angelo alle spalle e lo strinsero così forte da stritolarlo.

    L’angelo si rese conto di non poter resistere a lungo e gli tornò alla mente una mossa di autodifesa imparata a scuola; la sua forza non era pari a quella di un angelo adulto, se almeno fosse riuscito a far allentare la presa al demone avrebbe avuto qualche possibilità di liberarsi.

    Cercò di raccogliere tutte le energie che gli restavano, si concentrò e dal suo corpo si irradiò una luce bianchissima, debole ma sufficiente a stordire il diavolo. La stretta si allentò e l’angelo colse l’occasione per divincolarsi. Riuscì ad allontanarsi poco perché la stretta lo aveva completamente intontito. I suoi riflessi erano lenti, lo sguardo appannato, gli sembrava di non riuscire a coordinare i movimenti. Era troppo debole per volare e precipitò a terra come un sacco di patate. Non poteva perdere i sensi, sarebbe stata la fine. Si girò a fatica sulla schiena per non perdere di vista il demone. Lo vide: si era ripreso e ora se ne stava sospeso in aria, quattro metri sopra di lui. Lo fissava con uno sguardo feroce e sghignazzava, sicuro del proprio vantaggio: lui era il cacciatore e l’altro la preda caduta in trappola.

    Sei spacciato, angioletto! Ora ti infilzo e ti consegno a chi di dovere ringhiò il diavolo e scagliò il forcone.

    In seguito l’angelo si sarebbe sempre chiesto dove avesse trovato la forza per schivare quel colpo micidiale; riuscì a rotolare sul pavimento appena in tempo per evitare il tridente che infilzò un’ala e si conficcò nel pavimento. Il dolore atroce lo fece gridare. Fortunatamente la ferita non era grave. Tuttavia era immobilizzato a terra, senza nessuna possibilità di fuga.

    Veloce come una saetta il diavolo scese a terra e si piantò a gambe divaricate su di lui. L’angelo si guardò attorno nel disperato tentativo di trovare qualcosa che gli potesse essere di aiuto, ma l’unica cosa vicino a sé in quel momento era il mantello che aveva perso nella colluttazione. Poi fu folgorato da un’idea: il lucernaio. Se la luce riusciva a entrare dall’esterno attraverso quell’apertura nel tetto, allora lui avrebbe potuto servirsene per uscire, sembrava sufficientemente largo.

    Il demone prese l’aria pensierosa del suo nemico per paura e pensò bene di tirare ancora un po’ la corda e prolungare l’agonia della sua vittima, tanto per divertirsi. Fu una fortuna per l’angelo perché in questo modo ebbe il tempo di riordinare le idee e radunare le energie.

    Non fai più lo spavaldo adesso? – domandò, e afferrato il forcone lo estrasse con violenza dal terreno, liberando l’ala ferita e sghignazzando sguaiatamente per l’espressione di dolore provocata, pronto a colpire. – Mi piacerebbe giocare ancora un po’ con te, ma tra poco dovrò tornare al lavoro: ho quasi finito la mia pausa.

    Questa volta l’angelo era preparato. Tese le braccia e con un fascio di luce accecante abbagliò il demone che barcollò. Poi, veloce come un fulmine, si drizzò a sedere, afferrò il mantello e spiccò il volo verso il lucernaio.

    L’ala gli faceva male, ma strinse i denti e stese le braccia lungo il corpo per fendere meglio l’aria. Guardò verso terra. Il demone aveva riacquistato l’uso della vista ed era davvero inferocito. Si era lanciato all’inseguimento. L’angelo accelerò cercando di non pensare al dolore lancinante che gli dilaniava l’ala. Ormai mancavano pochi metri. Il demone gli stava dietro. L’angelo entrò nel cunicolo; come aveva calcolato era largo a sufficienza, anzi anche troppo, perché come ebbe modo di constatare il demone gli era ancora alle calcagna. Guardò davanti a sé: se fosse riuscito a tenere duro ancora per un po’ sarebbe stato salvo perché il cunicolo si restringeva e il demone non avrebbe mai potuto passare attraverso la strettoia, ma sarebbe rimasto incastrato. Il demone doveva aver fatto lo stesso ragionamento perché improvvisamente accelerò. Allungò una mano e diede un violento colpo d’ali.

    L’angelo si senti avvinghiare una caviglia. Non poteva arrendersi proprio in quel momento, non ora che era quasi arrivato all’uscita. Con la gamba libera sferrò un calcio. Il suo inseguitore ringhiò dal dolore e lasciò la presa. L’angelo sorrise soddisfatto. Poi puntò lo sguardo dritto davanti a sé e sbatté con forza le ali: presto il passaggio sarebbe diventato troppo stretto per usarle ancora e doveva procurarsi una spinta sufficiente a raggiungere l’esterno.

    Il demone, che aveva acquistato troppa velocità, non riuscì a fermarsi in tempo e rimase incastrato. Le sue bestemmie echeggiarono a lungo, ma ormai non intimorivano più l’angelo finalmente libero che, ancora impaurito, si sedette sul tetto dell’edificio per controllare la ferita all’ala. Non sembrava grave. Certo, avrebbe dovuto dare molte spiegazioni, e non lo divertiva il pensiero delle ramanzine, nonché delle punizioni, che si sarebbe preso appena tornato a Lumea. Ma di una cosa era sicuro, nessuna punizione sarebbe stata peggiore di quello che aveva appena passato. Rabbrividì al pensiero del pericolo che aveva corso. Facendo molta attenzione a non farsi vedere scese giù dal tetto, si avvolse nel mantello e scomparve mimetizzandosi fra la folla.

    Ci volle parecchio tempo perché il demone riuscisse a liberarsi e a dare l’allarme, e a quel punto l’angelo era ormai al sicuro a Lumea. Tutta la storia fu un grosso smacco per i demoni che con questa bravata avevano subito la perdita di dieci nuovi membri. E non era una cosa da poco considerato che per creare un demone ci volevano più o meno dieci eteranni.

    Fortunatamente per loro novanta calderoni erano rimasti illesi, o meglio ottantanove. I demoni ancora non lo sapevano, ma durante la colluttazione una piuma si era staccata dall’ala ferita dell’angelo, ed era finita proprio in uno dei calderoni. Quello con inciso sopra il nome: «Len».

    Capitolo 2 - In missione sulla Terra

    Il preside dell’Istituto Infernale Per Demoni, il professor Otar Flamb, era un diavolo basso e grasso. Aveva due occhietti piccoli e viscidi e portava due baffetti sottili e arricciati alle punte che non smetteva mai di tormentare. Indossava sempre una giacca di una misura inferiore, nel vano tentativo di snellire la sua pesante figura, ma l’unico risultato era quello di rendersi ridicolo, perché il solo bottone che riusciva ad abbottonare pareva sul punto di saltare via da un momento all’altro. Passava le giornate seduto sulla poltrona della sua scrivania a fagocitare quantità industriali di cibo. Persino quando era obbligato a svolgere le sue mansioni da preside portava sempre con sé un sacchetto pieno di cibarie.

    Era abilissimo nel delegare ad altri i propri compiti e trovava sempre il modo di cavarsi d’impiccio. Tutti si chiedevano come avesse fatto a diventare preside, ma nell’istituto girava voce che in realtà Otar Flamb si era accaparrato quel posto di prestigio grazie ai più sporchi

    imbrogli. D’altra parte era logico, questo era il modo di fare dei demoni.

    Quel giorno il preside se ne stava tranquillo nel suo studio, cercando di risolvere un delicato problema che richiedeva tutta la sua attenzione: stabilire se fosse più appetitoso un toast alle lumache bavose o un tramezzino di rane squamose in salsa rosa. La complicata riflessione fu interrotta dal trillo dell’interfono. Una vocina gracchiante emise alcune parole che parevano gemiti.

    Preside, c’è una visita per lei...

    Ora non ho tempo, Smaagh. Chiunque sia digli che... che sono impegnato.

    Ma è importante, è il…

    Oh, insomma, inventati una scusa degna di un mephit quale sei e toglimi dai piedi quello scocciatore sbottò Flamb, chiudendo la comunicazione e tornando a dedicarsi al proprio stomaco.

    La porta dello studio si spalancò e sulla soglia comparve la figura alta e filiforme di un demone. Il viso lungo e appuntito era contratto in una smorfia di rabbia. Attraverso le sottili fessure degli occhi due pupille fiammeggianti fissarono Flamb come per incenerirlo.

    Preside Flamb – squittì Smaagh alle spalle del demone, cercando di giustificarsi – io ho provato a dirle che era il segretario personale di Sua Malignità in persona…

    OTAR! Voglio proprio vedere quali sono queste faccende importanti per le quali non puoi degnarti di ricevermi – tuonò il demone entrando di prepotenza nello studio e sedendosi su una poltrona di pelle di mostrocane nera. – Allora? Sto aspettando!

    Vostra Eccellenza Zolpher… annaspò Flamb, ma subito si interruppe vedendo che il mephit

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