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Non accettare sogni dagli sconosciuti
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Non accettare sogni dagli sconosciuti
Ebook184 pages2 hours

Non accettare sogni dagli sconosciuti

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About this ebook

Un giallo avvincente, una scrittura ricca e immaginifica, una lettura piacevole.

Aldo Carli, cronista di nera per un quotidiano di provincia, ospita nel proprio appartamento la nipote, Anita, diciottenne capace di donare allo zio quel sorriso che aveva perduto. La vita di Anita lambisce per caso quella di un delitto su cui si stagliano ombre scure. Scure e inquietanti, come le prospettive di alcuni giovani alla ricerca della loro identità, nella cittadina di Polibergo.
LanguageItaliano
PublisherEnrico Cerni
Release dateFeb 25, 2015
ISBN9786050360240
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    Non accettare sogni dagli sconosciuti - Enrico Cerni

    Il libro

    Aldo Carli, cronista di nera per un quotidiano di provincia, ospita nel proprio appartamento la nipote, Anita, diciottenne capace di donare allo zio quel sorriso che aveva perduto. La vita di Anita lambisce per caso quella di un delitto su cui si stagliano ombre scure. Scure e inquietanti, come le prospettive di alcuni giovani alla ricerca della loro identità.

    L’autore

    Enrico Cerni, veneziano, manager e formatore di professione. Ha già pubblicato Dante per i manager. La Divina Commedia in azienda (Il Sole-24 Ore Libri, Milano, 2010) e assieme alla moglie, Francesca Gambino, La Divina Avventura. Il fantastico viaggio di Dante (Coccole e Caccole, Cosenza, 2007), Bestiario fantastico. Mostri e animali d’altri tempi (Coccole e Caccole, Cosenza, 2009), Alla scoperta della Divina Commedia (Onda Edizioni, Napoli, 2010). Non accettare sogni dagli sconosciuti è il suo primo romanzo.

    Enrico Cerni

    Non accettare sogni

    dagli sconosciuti

    Romanzo

    © 2015 by Enrico Cerni

    Tutti i diritti riservati.

    (e)Book & Cover design:

    www.mirkovisentin.it

    Photo Cover:

    Batintherain (via Flickr.com)

    Pause

    Ché saetta previsa vien più lenta

    Paradiso, XVII, 27

    Quel rovello che l’aveva tormentato per oltre un mese cominciava ora ad allentare la presa. Il pensiero fisso stava perdendo vigore piano piano.

    Sofferenza in attenuazione.

    Il merito era tutto del tempo, che dirada i lacerti di dolore come fa il vento quando sibila in montagna e si diverte a spostare le falde di neve.

    Il tempo batte un passo ambiguo sull’acciottolato della vita: è un dio bifronte che ti osserva con occhi curiosi, gli occhi delle due facce divine scavate dalle rughe dell’ironia. Una ti sorride e, scherzando, ti stempera le afflizioni dell’anima; l’altra ti scruta corrucciata accompagnandoti alla fine dei giorni.

    Aldo Carli aveva faticato a ritrovare la felicità dentro di sé: senza fretta e senza tregua, però, la serenità stava avendo la meglio sulle tenebre che avevano oscurato la mente del cronista per oltre trenta giorni.

    Nelle prime settimane dopo l’addio di Julie, il ricordo del commiato gli aveva svuotato le viscere, ribollendogli dentro come un’ossessione feroce che aveva danzato indemoniata nel suo corpo.

    Ogni qual volta si trovava da solo e iniziava a pensare a sé, ripiombava nella visione di quel momento.

    Di quella maledetta sera, lunedì 19 marzo.

    Una sera fredda, con il cielo senza nuvole rischiarato dalla luna.

    Un lunedì sfrangiato da lamine di ghiaccio scagliate nel cuore.

    Soffriva, Aldo.

    Soffriva come se stesse ammirando un quadro di Turner appeso alla parete del proprio io, con le onde voraci pronte a mangiarsi le navi, ingurgitando le vite dei passeggeri tra mille schizzi di schiuma.

    Il muscolo che presiede alla memoria non gli restituiva altre scene precedenti o posteriori. La mente di Aldo calamitava solo la sequela di nitidi, angoscianti fotogrammi dei taglienti minuti di quel lunedì. Quanto accaduto in quell’istante, del resto, aveva costituito la fine e l’inizio di tutto: aveva messo in centrifuga la sua vita e l’aveva scaraventata lontano, lungo traiettorie fino a quel momento impensate.

    Aldo e Julie stavano in cucina, quella sera, al termine di una cena in due tempi come tante, con una conversazione rarefatta come tante, con dialoghi scarnificati come tanti. S’era fatto tardi, oltre le undici.

    Le palpebre di Aldo erano già in procinto di calare sui ricordi di un altro giorno trascorso senza nulla di memorabile: schegge di quotidianità, frammenti di esperienze senza emozioni, racconti pigri del pomeriggio di lavoro in redazione, schizzi di menabò preconfezionati dal sistema informatico mescolati agli aneddoti sulla cronaca quotidiana.

    Il pollo cotto alla piastra nel piatto liscio, l’insalata con molto aceto nel contenitore di porcellana, il Carnia stravecchio nel piattino, la bottiglia verde riempita d’acqua del rubinetto.

    Julie aveva già cenato intorno alle otto, da sola, com’era solita fare, aggiornandosi sulle notizie del giorno grazie ai siti dei giornali francesi. Non era avvezza ad aspettarlo. E faceva bene.

    Non si sa mai a che ora un giornalista termini il lavoro: fino all’ultimo momento, l’imprevisto può dilatare il tempo trascorso in redazione. E l’attesa, per chi sta a casa, si tramuta in inutile afflizione.

    «Senti Aldo, devo dirti una cosa importante», aveva annunciato quel 19 marzo, guardando il compagno negli occhi seduta all’altro lato del tavolo.

    Pausa.

    «Penso sia meglio prenderci un periodo di riflessione», aveva sibilato Julie.

    Punto.

    Silenzio.

    Sospensione.

    Periodo di riflessione non vuol dire niente, aveva ragionato d’acchito Aldo.

    Cosa sta a significare periodo-di-riflessione?

    Ogni qual volta ricordava quell’istante, ad Aldo ribolliva il sangue. E per acquietarne il bollore, il suo cuore lo faceva scivolare nel vaso dell’inedia.

    «Non ha senso continuare così. Mi sento inutile. Negli ultimi tempi ho ripreso i contatti con clienti che avevo in Francia. Mi hanno proposto di andare a lavorare per loro, devono progettare un’intera area edificabile a ovest di Nanterre. Ho pensato di accettare. Magari un periodo di separazione farà bene anche a noi. Trascinare così il nostro rapporto non mi convince. Non mi convince più. Dobbiamo provare a cambiare direzione», aveva argomentato Julie.

    Cambiare direzione.

    Forse cambiare direzione apparteneva al lessico dell’architettura.

    Sarà stato un modo di dire che mademoiselle de la Cravière, figlia dell’ingegner François de la Cravière, aveva appreso studiando per qualche esame di urbanistica. Il culto dell’asse, della perpendicolarità, delle linee che si secano feconde o che procedono parallele e solitarie sul piano era affiorato nella bocca di Julie per annunciare la fine del loro rapporto.

    Chissà, forse anche il prefetto Haussmann si era espresso così quando aveva avuto il guizzo di squassare Parigi prima di ricostruirla, aveva pensato Aldo.

    Ma lui, in definitiva, cosa c’entrava con l’architettura e con l’urbanistica e con i riti di Neuilly-sur-Seine? Già, forse il nodo stava proprio lì. Che c’entrava lui con quell’architetta francese, le sue consuetudini, le sue manie, le sue espressioni?

    Dopo la conversazione lampo in cucina, rapida e sconvolgente, mentre Aldo vagava nel soggiorno, Julie si era indirizzata in camera da letto, aveva indossato il pigiama e si era infilata sotto le lenzuola. Reggeva in mano un libro d’arte sulle opere di Piet Mondrian ma non lo leggeva. Gli occhi le restavano fissi sulle prime righe della prefazione, la mente era altrove.

    Quando aveva deciso di fondre la cloche, di prendere in mano la situazione, si era immaginata una conversazione differente. Ora i suoi pensieri raffrontavano il dialogo che si era prefigurata nei giorni precedenti con quello che era avvenuto pochi minuti prima. La mente di Julie era costretta a esaminare una partita doppia: su una colonna l’atteso, sull’altra il reale.

    Aldo l’aveva spinta a interrogarsi sul perché, mentre Julie era proiettata sul come e sull’affinché. Ormai lei aveva deciso: cambiare direzione per ritrovare se stessa e ripensare a un’altra vita possibile.

    Il perché, per quale ragione, non le interessava più. Le scocciava tenere la testa rivolta all’indietro, per interrogarsi sulle cause. Voleva raddrizzare il collo e guardare bene in avanti.

    Aldo, in piedi in soggiorno, aveva tenuto a lungo gli occhi bloccati e inespressivi, quella stramaledetta sera.

    Era rimasto a scrutare dapprima le pareti arancioni e gialle della stanza e poi fuori della finestra, con lo sguardo perso nel nulla pensando in cosa avessero sbagliato.

    In cosa lui avesse sbagliato.

    Quali cause avessero minato la relazione.

    Per quale motivo le parole di lei fossero risultate così taglienti.

    L’avviso ai naviganti Julie gliel’aveva propinato al termine della cena. Purtroppo. Tutto quello che aveva mangiato poco prima gli era rimasto ingrugnito nella bocca dello stomaco.

    A mezzanotte Aldo, come fosse in trance, aveva deciso di uscire a prendere una boccata d’aria. Aveva indossato un giaccone e aveva camminato come un automa lungo il corridoio dell’ottavo piano. Era sceso per le scale, anziché chiamare l’ascensore.

    Trascinandosi al piano terra, Aldo era penetrato nell’Averno e ne aveva attraversato i cerchi infernali. Dal più esterno, nel quale i peccati da condannare erano meno gravi, al più interno, nel quale tutto brucia e ghiaccia allo stesso tempo. A ogni rampa di scale, la vetrata del pianerottolo gli aveva fatto crescere la voglia di farla finita: un tuffo nel vuoto gli avrebbe ridato l’assenza di dolore a cui anelavano gli epicurei.

    Dalla vetrata delle scale, la luna aveva osservato il suo dolore, rischiarandolo con luce pudica. Aldo si era accorto di lei, del suo pallore tondo in mezzo al cielo. L’aveva odiata, in quel momento. Aveva trattenuto a stento l’impulso di maledirla, scagliandole contro la propria aggressività. Aveva odiato il principio del ciclo, del ritorno, dell’eterno femminino che gli stava voltando le spalle.

    Era lei, la luna, la causa del turbamento di Aldo. Era lei che gli stava sfondando il ventre con i colpi di maglio della sofferenza.

    La rotazione del pianeta solleva le acque e le deposita sulle coste, sommergendo i litorali di carezze.

    Almeno per un po’.

    Col passare delle ore, il pianeta si annoia, si stanca, molla la presa e decide di lasciare scoperto il terreno nel tempo della bassa marea, trasferendo al sole il compito di scaldare le zolle. Ma quando è sommersa, la terra non pensa che in poche ore riuscirà a imporsi sul liquido che la copre. E quando la marea scende, abbandonando solo un lieve madore sulle rive, il litorale si abitua rapidamente all’idea dell’aria e scorda il tempo trascorso in immersione.

    Aldo in quel momento si era sentito come se quell’afflizione non avesse dovuto più lasciarlo, come se fosse stato destinato a convivere per sempre con essa, tenendo in petto un cuore desolato, triste e fiacco.

    Arrivato al pianterreno, era uscito all’esterno. Il freddo gli pungeva la pelle. Lucifero lo aspettava in giardino, con le sembianze di un vomito che non gli lasciava tregua. A ogni battito di ali del nero pipistrello, un conato che, anziché liberargli il corpo, gli riempiva l’anima di dolore.

    Più i residui decomposti della cena si spargevano sull’erba e più Aldo acquisiva consapevolezza della frattura interiore che lo stava dilaniando.

    Il cerchio illuminato, nella volta del cielo concavo, aveva scrutato la scena. Aldo, quella luna, non l’aveva mai coltivata. Quando si era acceso una sigaretta per cercare di bruciare, assieme al tabacco, lo strazio che provava, se ne era reso conto.

    E la presa di coscienza lo aveva torturato ancora di più.

    Scivolamenti

    Vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede

    Purgatorio, IV, 9

    Già due giorni dopo la stralunata conversazione serale con Julie, a rammentargli la compagna francese, non era rimasta che una boccetta di vetro blu contenente profumo Givenchy alle fragranze floreali.

    Aldo le aveva regalato quella boccettina per Natale e lei aveva voluto abbandonarla nella casa di via Rousseau al momento di preparare i bagagli.

    In un giorno, in un solo giorno, mentre Aldo era in redazione, Julie aveva vuotato l’appartamento di tutti i propri oggetti, lasciando solo quel profumo.

    Lui si sentiva perso, con il corpo occupato da un esercito di spettri pronti a farsi gioco di sé. Lei invece era guidata dalla determinazione: aveva chiuso definitivamente con Polibergo martedì, il 20 marzo, grazie a un Iveco Daily bianco e blu, preso a noleggio, partito in direzione di Neuilly.

    Non era stata una dimenticanza, la sua: aveva lasciato l’ampolla di proposito nell’armadietto del bagno, per segnare simbolicamente la cesura con il passato.

    Con il suo passato.

    Con il loro passato.

    Il ricordo è amico più dell’olfatto che degli altri sensi.

    Mademoiselle de la Cravière lo sapeva bene.

    Chi vuole scordare, cioè chi è intenzionato a togliere qualcosa dal cuore, deve evitare di annusare. Gli odori riportano la mente a ciò che è stato.

    Più dei suoni.

    Più delle immagini.

    Più dei gusti.

    Avere nelle narici il profumo dell’esperienza italiana, per Julie, avrebbe significato gettare l’ancora sul fondale e impedire alla nave della propria esistenza di salpare verso nuovi porti. Seguendo nuove rotte.

    Lei non amava perdere tempo: detto fatto era il suo motto. La decisione era presa, il suo profumo sarebbe

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