I silenzi dell'aquila
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I silenzi dell'aquila - Marco Panfighi
VENTIDUE
CAPITOLO UNO
Odio me stesso per il semplice fatto che amo così profondamente la scelta di vivere sognando di più.
Era davvero una topaia di merda. Non pensavo che nella realtà esistessero stanze di hotel a una stella, probabilmente rubata dal cielo pure quella. Ma non avevo scelta, Giulia piangeva e nonostante i miei 143 euro, gentilmente messi a disposizione dal mio vecchio portafoglio nero CK, avevo deciso che quella sera mia figlia avrebbe dormito in un letto comodo, o almeno in un letto.
Entrati in stanza pensai che stavo dando a quella bambina di cinque anni dagli occhioni azzurri, una frangetta nera e un vestitino con disegnate delle ciliegie, molto meno di quello che meritava. Ma quella povera creatura non aveva che me.
Avevo solo venticinque anni e già la lingua della mia vita aveva assaggiato il sapore della morte, togliendomi quello di cui avevo più bisogno in un colpo solo: i miei genitori e la mamma di Giulia.
Erano trascorsi anni, ma non passava attimo senza che mi chiedessi se quello che era successo quella mattina avrebbe mai avuto un senso un giorno.
Gli incidenti automobilistici capitano spesso, bisogna sempre stare attenti…
, ma come fai a dare un senso ad un tossico che di sabato mattina sta tornando a casa, completamente ubriaco e strafatto di cocaina, e invadendo la corsia contromano uccide la tua famiglia?
Quando la mia ragazza morì insieme a mio padre e mia madre, morì anche il mio mondo, o quasi…
Accadde cinque mesi dopo la nascita di Giulia, la mia unica ragione di vita, la mia unica ragione perfetta per dare senso ai respiri che, senza capirne il motivo, avevo fatto fino a quel momento. Tutto era lei e lei era tutto.
Conobbi Claudia ad una festa a casa di amici. Ancora oggi non riesco a capire se l’abbia mai amata. Di certo ha saputo prendersi il suo posto nel mio mondo. Era bella, bionda, occhi castani, corpo da ballerina, perché il ballo era la sua passione e i minuti che viveva erano focalizzati soprattutto sulla danza. Tutto della sua vita era dedicato ai movimenti che il suo corpo sapeva rubare a qualunque melodia, finché non dovette iscriversi all’università di Economia e Commercio per non deludere i suoi genitori, Renzo e Fiorella Del Pozzo. Lui piccolo imprenditore e lei impiegata del comune, dalla mentalità che qualche vecchio attivista politico definirebbe bigotta
. Non mi sono mai piaciuti e io non sono mai piaciuto a loro, perché nonostante fossi di buona famiglia, padre ingegnere e madre docente all’università di Medicina, credevo che nella vita ci fosse qualcosa che valesse di più del sistemare le cose per garantirsi la sopravvivenza a qualunque costo. Faccio ancora i conti sul chi avesse ragione, ma forse servirà più tempo per capire la lungimiranza vincente tra me e i miei quasi
suoceri.
Resta il fatto che con lei, dopo solo un mese che la conoscevo, feci il più bell’errore della mia vita, la misi incinta ed ebbi Giuly nove mesi dopo, partorita da una ragazza che mi ero trovato costretto a voler bene.
Adoravo guardarla dormire, la mia Giuly.
Era come guardare un piccolo fiore che nonostante il vento del mondo sapeva che il suo papà l’avrebbe coperta e protetta da tutto e tutti.
L’amavo in un modo che poche persone al mondo erano in grado di comprendere.
Io avevo smesso di esistere da quando sua madre se ne era andata ed ero diventato semplicemente uno strumento di tutela e sopravvivenza per lei, che nulla aveva chiesto al mondo.
Amavo la sua voglia di sognare, mi dava forza e mi deteriorava il cuore, logorandolo fino all’ultimo pezzetto, mettendomi alla prova ogni giorno, ogni ora, ogni minuto di più per vedere fino a quando sarei riuscito a farle capire che a questo mondo, se vuoi le stelle devi darti da fare, devi crederci, ma se non molli puoi contarle tutte e se non ti basta ce ne sta almeno una pronta a farsi raggiungere e scoprire.
Ricordo la pioggia che cadeva non troppo forte, battendo a vento sulla finestra della stanza e sui miei pensieri, mischiati al ritmo di un orologio troppo ticchettante per una notte come quella, tra le più difficili della mia vita.
Erano le due di notte, eppure credevo fossero le due di notte da almeno mille ore.
Avevo paura e non avevo più soldi.
Avevo dovuto lasciare l’università di Giurisprudenza a cinque esami dalla laurea e continuavo a rileggermi quel biglietto maledetto da me conservato, senza uno specifico motivo, scritto molti anni prima dalle uniche due persone che potevano realmente aiutarmi in quel momento: Non chiamarci, non devi cercarci, quella è tua figlia e noi non siamo in grado di mandare avanti tu e lei, Claudia è morta, tu sei quasi un estraneo per noi, non riusciamo più ad essere felici e vogliamo solo provare ad andare avanti. Claudia è morta.
Sentirsi soli a questo mondo è facile, esserlo davvero è tutta un’altra storia.
Decisi di appoggiare la testa sul cuscino a fianco di quello di Giuly, nel letto matrimoniale che avevamo a disposizione per quella notte.
Ero steso sul fianco, ancora vestito, e stavo per addormentarmi con le mie paure ancora sveglie addosso, abbracciando mia figlia e urlando silenziosamente al mondo di salvare almeno lei tra noi due, di darle una possibilità e di non farle capire quello che stava succedendo.
Mi chiamo Achille Domenici e questa è la mia storia.
CAPITOLO DUE
L’hotel dove avevamo dormito era proprio di fronte alla stazione dei treni.
La mia Ford Fiesta aveva ancora metà serbatoio pieno e dovevo riflettere sul come uscire da quella situazione. Erano le otto del mattino e sapevo che…
Papà papà, guarda oggi c’è il sole!!!!
La giornata era ufficialmente iniziata.
Giuly era in piedi sul letto e sorrideva saltando, costringendomi ad alzarmi, ma come tutte le mattine mi faceva capire una cosa davvero importante, che mi cambiò la vita per sempre, cioè che non importa se fuori dalla finestra vedi il sole o la pioggia, tu sorridi e salta sul letto urlando: Guarda c’è il sole!
oppure guarda c’è la pioggia!
. Era come se ogni mattina quella paperella saltellante mi dicesse: Sorridi sempre papà, la vita è bellissima!
e forse aveva proprio ragione…
Feci una doccia al volo mentre lei già colorava il suo quaderno con le api sulla copertina, poi le tolsi il pigiamino, le cambiai i vestiti e mentre rifacevo al volo le due valige trolley che avevamo a disposizione, la mia più grande blu scuro e la sua azzurra con disegnate delle nuvole bianche, Giuly mi venne vicino prendendomi la mano e, dopo avermi guardato negli occhi, mi chiese un po’ titubante:
Papà, perché sei triste?
Non sono triste, sto pensando
E a cosa pensi? Ma tu pensi sempre sempre!
Mentire era tanto doloroso quanto giusto in quel momento:
Penso a cosa scegliere per colazione, brioches con la cioccolata o con la marmellata??? Non so proprio cosa prendere! Mi aiuti tu a scegliere?
Cioccolata!!!! Cioccolata!!!
Ecco fatto. Ora si che va meglio! Dammi subito un bacino così andiamo a prendere le brioches e un bel bicchiere di latte al bar, che ne dici?
siiiiii!!!!
Quella gioia che le usciva dagli occhi era un’iniezione di forza e coraggio puri direttamente nel cuore e solo il cielo sapeva quanto ne avessi bisogno.
Mi abbracciò stampandomi un bacione sulla guancia, facendo un bello schiocco.
Mentre uscivamo dalla stanza pensai a quanto stesse crescendo e diventando sempre più accorta e chiacchierona. Sarei dovuto stare più attento da lì in poi. Era davvero sveglia per avere solo cinque anni, per non dire quanto fosse bella.
Pagata la colazione e comprato un pacchetto di Marlboro Lights morbide, mi rimanevano poco più di 134 euro. Non fumavo mai davanti a lei, ma il vizio del fumo l’avevo stupidamente ripreso due anni prima, durante una serata concessami per svagarmi un po’, che terminò con me completamente ubriaco, sigaretta accesa in bocca e il pensiero della brutta scopata che mi ero appena fatto con una della quale non ricordo né nome né fisionomia.
Perfino il giorno dopo, quando andai a riprendere Giuly dalla signora Franca, donna vedova in pensione da anni e mia ex vicina di casa, mi sentii dire da quest’ultima: Achille che è successo, non ti senti bene? Forse dovresti riposare un po’ di più
(si riposare, come no? Ho dei postumi Franca che lei non li ha mai avuti in tutta la sua vita!
)
Effettivamente non ho dormito bene stanotte, ma con un caffè passa tutto
finto sorriso di accompagnamento e via…
Mancavano ancora circa 2 ore di macchina per arrivare dal sig. Carlo Borganti, responsabile-capo di una fabbrica che produceva lamiere nel nord Italia.
Amavo la montagna e aver accettato quel lavoro da operaio, per quanto non avrei potuto mantenerci me e Giulia e pagare un affitto, l’avevo visto come un’opportunità.
Così una settimana prima di partire chiamai Filippo, amico di un mio conoscente, che lavorava già lì ed era riuscito a farmi assumere, per ringraziarlo della dritta e chiedergli conferma della possibilità di appoggiarmi a casa sua per qualche settimana fino a che non avessi trovato un piccolo appartamento da prendere in affitto, per incominciare una nuova vita.
Al problema dei soldi ci avrei pensato lì, cercando un secondo piccolo lavoro per permettermi di sbarcare il lunario e trovare un equilibrio economico di partenza.
Era ancora tutto in bilico, ma almeno era un progetto.
A venti minuti da casa di Filippo, mi accorsi di essermi imparato a memoria tutte le canzoni Disney, che Giuly continuava a cantare, troppe volte coinvolgendomi pure, mentre le ascoltavamo con il lettore CD della macchina.
Con un tempismo perfetto Filippo in quel momento mi chiamò al cellulare e io risposi:
Pronto?
Pronto Achille sono Filippo! A che punto stai?
Ciao Filippo! Il navigatore mi dice che mancano 18 minuti
Perfetto, ti ho preparato già la stanza, vi aspettiamo!!
Non so come ringraziarti, a malapena mi conosci e nonostante tutto sei così gentile, ma di sicuro un giorno ci riuscirò!
Vai tranquillo, mi è stata spiegata la tua situazione e per noi non c’è nessun problema, a tra poco
Ok……, grazie…
Era primavera inoltrata e quell’aria fresca di montagna meritava davvero di essere respirata a pieni polmoni. Così abbassai ancora un po’ il finestrino, dissi a Giuly di stare più composta nel suo posto tra i sedili dietro, mentre urlava in fondo al mar, in fondo al mar!
con la sua magliettina gialla e i suoi piccoli jeans.
Spostai lo specchietto retrovisore per vedermi riflesso, ma soprattutto per non farmi vedere da Giuly e ricordo che piansi in silenzio…poi risistemai ancora lo specchietto, stavolta come voleva il codice della strada.
Quel paesino di montagna non era poi così piccolo. Avevo contato diversi ristoranti, pub, perfino una o due discoteche, un campo da calcio, letto un insegna con la scritta piscina
, visto un bel movimento di persone. Sembravano felici. Sembravano