Oronzo, le Donne (e io)
By Alfeo Zin
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Oronzo, le Donne (e io) - Alfeo Zin
Concept design e stampa: D&Co
Via Pra’ di Risi, 17 Z.I., 33080 Zoppola (PN) - Tel. 0434 571796 www.dandco.it - info@dandco.it
Prima edizione: novembre 2012
Seconda edizione: novembre 2013
Edizione 2012 - Pordenone
© Dreossi Editore
Tutti i diritti sono riservati.
È vietata la riproduzione anche parziale dell’opera, in ogni forma e con ogni mezzo, inclusi la fotocopia, la
registrazione e il trattamento informatico, senza l’autorizzazione del possessore dei diritti.
In copertina: Collage con Venere di Milo di Alfeo Zin
Alfeo Zin
Oronzo, le Donne (e io)
Introduzione
Il libro che avete tra le mani e vi accingete a leggere (mi au- guro con lo stesso piacere divertito che ho provato io) è un libro strano, nel senso che sfugge alle classificazioni cui siamo abi- tuati. Per stessa dichiarazione d’intenti dell’autore si tratta della prima parte di una trilogia, cosa che ci porterebbe a pensare a un romanzo: così non è. Almeno non nel significato convenzio- nale che diamo a questo termine. Certo il discorrere che ne fa lo scrittore sottende una storia, una vicenda forse romanzata, forse reale. Però il testo è ricolmo di ragionamenti, di pensieri, di insegnamenti, di speculazioni filosofiche e di citazioni. Questo ci farebbe propendere per il saggio. Ma non è il saggio il formato stilistico di questo libro. Bisognerà prenderlo così com’è, come si presenta e come – ma ne siamo sicuri? – viene dichiarato nel titolo: memoria. Che sia ricordo dell’autore o che si tratti di memoria-archetipo, una sorta di iperuranio della saggezza cui tutti possono attingere, è cosa di secondaria importanza. Certo, come sempre in ogni scrittura, c’è una componente autobiogra- fica più o meno importante. In questo caso possiamo azzardare che questa componente sia preponderante; ma non si tratta di un diario: anche questo schema è escluso!
Chi ha conosciuto Alfeo Zin sa della sua passione per il volo a vela e della sua sconfinata competenza in questo campo. Del- taplano e parapendio non hanno segreti per lui e innumerevoli
sono state le imprese, talvolta straordinarie, che l’hanno con- dotto sui cieli del mondo, soprattutto sopra le nostre meravi- gliose montagne, le splendide Dolomiti, ora dichiarate dall’Une- sco patrimonio dell’umanità. Ebbene io credo che questo stra- no scrittore-saggista-filosofo abbia appreso, volando, un suo modo peculiare di guardare il mondo. Credo che Alfeo Zin sia un trasvolatore anche nel suo modo di esprimersi con la scrittura. Già con il suo precedente libro, Elogio della perplessità, egli ci aveva avvicinato alla speculazione filosofica attraverso un testo che non era, e non voleva essere, un saggio. Anzi, rifuggendo anch’esso dalle classificazioni tradizionali si proponeva proprio come fuori linea
tentando di portare il ragionamento specula- tivo su ogni fatto della vita al più semplice livello possibile, alla comprensione di tutti, creando quello spaesamento culturale che determina l’incertezza, l’uso sistematico della ragione con- trapposto all’irrazionale ma confrontato con la saggezza popo- lare; inducendo insomma il dubbio che, appunto, lascia perples- si. Così come con quell’operazione al di fuori degli schemi, Zin si proponeva di rendere accessibile la cultura alta, quella difficile, anche a chi non ha potuto studiare abbastanza per costruirsi gli strumenti intellettuali d’interpretazione del mondo, altrettanto fa ora con quest’altro testo strano, usando l’arma potentissima della memoria intorno a un’amicizia incorruttibile. E lo fa da par suo, volando in alto sopra di noi, guardando le cose da pro- spettive inconsuete, usando un linguaggio popolare e talvolta crudo nel tentativo di raggiungerci tutti, quale che sia il nostro livello di acculturazione; forse con un privilegio di classe, forse con un occhio di riguardo per i più… emarginati, quelli che non hanno mai avuto tempo da perdere perché, sempre, dovevano guadagnarsi la vita.
Allora quale modo migliore, per tentare di creare coscienza di sé e del mondo in chi non ha avuto abbastanza fortuna, se
non quello di cercare nella memoria le parole più preziose del- la propria esperienza: le parole con le quali tra amici fraterni ci si scambiano conoscenza, sensazioni, esperienze? L’insegna- mento reciproco della supposizione e della verifica; la ricerca del senso e del significato; la passione per il bello; la condivisione delle analisi, delle supposizioni, delle sintesi. Tutto ciò che ci si scambia con un amico sta dentro le parole che gli abbiamo det- to e che egli ci ha detto, le parole che ci siamo scambiati, che abbiamo condiviso; parole tanto più preziose quanto più pro- fondamente scolpite nella memoria. Tanto più preziose in quan- to rare e irripetibili se poi uno dei due viene a mancare! Allora preziosi sono anche i gesti, gli attimi, gli sguardi. Così ci prende la voglia di volare altissimo, di ricordare l’amico e mentore, di distribuire agli ignari passanti - per gesto di estrema generosità
- quei tentativi di saggezza che avevamo costruito assieme. Ciò diventa, se si vuole, anche la reminiscenza di un rito di passag- gio all’età adulta.
L’ipotesi di un’amicizia siffatta e reale alla quale attingere vale quanto quella che si tratti di un’invenzione letteraria; for- se la verità sta nella compenetrazione tra realtà e finzione. Gli episodi del racconto vagano in un passato discontinuo: talvolta storicamente riconoscibile e cronologicamente collocabile, ta- laltra scostato nel tempo e nello spazio come se fratture invisibili avessero permanentemente deformato la realtà. Ma è il modo di vedere di un trasvolatore! E siccome la memoria riguarda co- munque l’arco di vita d’un uomo, il caso ha voluto che questo intervallo fosse quello stesso nel quale – dalla seconda guerra mondiale a oggi – si sono verificati capovolgimenti rivoluzionari nel modo di concepire la vita, i diritti, i rapporti interpersonali nella nostra società. Di questi cambiamenti c’è in questo testo una traccia profonda, un segno permanente nei protagonisti del racconto e anche, ne sono più che convinta, nell’autore. La rivo-
luzione del femminismo è forse la modificazione sociale che più ha colpito i maschi di quegli anni lasciandone cicatrici indelebili anche in quelli di oggi. Devo dire che personalmente, proprio in quanto donna, non riesco a condividere alcune prese di posizio- ne dei protagonisti. Trovo però assai istruttivo e divertente il loro discuterne, il loro reciproco aiutarsi - smussando spigoli che la società d’allora riteneva insormontabili - a cambiare pian piano la loro weltangshauung (come Alfeo Zin, traduco: metodo di vi- sione del mondo) seguendo sentieri talvolta inconsueti. Stiano tranquille le lettrici: essi sono ancora ben lontani dal comprender davvero le donne ma è bello che almeno ci provino!
Ecco allora che riconosco lo schema letterario cui può far riferimento quest’opera: il Dialogo! Ci sono illustri precedenti. Hanno adottato questo modulo: Platone, Seneca, Luciano di Samosata, Confucio, per citare solo pochissimi grandi.
Il volo
di Alfeo Zin vale la pena di esser osservato con at- tenzione perché, con generosità, egli dissemina la nostra vita di innumerevoli briciole di sapere, di saggezza e di ironico sorriso. Parole preziose, certo; è questo il bello della Bellezza della me- moria!
Venezia, novembre 2011
Dora Noël
Questo libro è dedicato alla memoria di Ivo Molmenti, uomo straordinario,
indimenticabile, indimenticato amico.
Prologo
Oronzo era un uomo rozzo, ignorante e… geniale! Questa è la sua storia e, un po’, anche la mia.
Orfano fin da bambino, non gli era stata impartita alcuna educazione e, ancor meno, un’istruzione; crebbe come un selvaggio, una sorta di Tarzan e, proprio come il personaggio creato da Edgar Rice Burroughs, divenne forte, coraggioso e risoluto.
Da ragazzo ebbe a patire terribili esperienze frequentando tutto solo la libera università della vita, dove il semi-analfabetismo era la regola e la miseria una costante.
Durante il secondo conflitto mondiale, ormai adulto, venne arruolato (suo malgrado) nel Regio Esercito Italiano dove, al grido di Vinceremo!
, disertò quasi subito per unirsi agli schieramenti della Resistenza.
Nel corso di un rastrellamento venne catturato e, come partigiano e in più disertore, fu imprigionato, torturato e condannato a morte. Non fu però fucilato perché riuscì a scappare insieme a due compagni di cella ai quali qualcuno aveva procurato una lama di seghetto nascosta in un fiasco di vino rosso (ultimo desiderio del condannato?).
Finita la guerra si arrangiò alla meno peggio vivendo di vari espedienti, in un paese devastato dove si diceva che si
moriva di… appetito; dire che si moriva di fame non era signorile!
In ogni caso, lui la fame la patì regolarmente, perciò, raggiunta l’età della ragione, emigrò prima in Francia e poi in Svizzera, dove non capiva una sola parola di quelle strane lingue. Del resto, Oronzo a quel tempo era così culturalmente sprovveduto che era facile potergli far credere che Giuseppe Garibaldi fosse l’inventore della carta igienica o che Zarathustra fosse stata la moglie di Zoroastro, famoso scopritore della varechina! Pertanto, non essendo poliglotta e non riuscendo a comunicare con quegli stranieri tornò in Italia dove, ancora una volta, ebbe la dimostrazione che il noto proverbio l’appetito vien mangiando è del tutto sbagliato: infatti lui, che non mangiava, non si sentiva minimamente sazio anzi, aveva sempre moltissimo appetito, per non dire proprio fame.
Fu così che, dopo un certo periodo di dieta, decise di imbarcarsi come marinaio su un vecchio cargo che incrociava gli oceani e tutte le rotte per il Sud America. Nei diversi porti più o meno malfamati ebbe esperienze di vario genere (che qui non potremmo mai raccontare) compresa qualche strana storia di donne e di coltello. Durante le sue varie traversate scoprì tra l’altro che tutti i sette mari erano praticamente uguali, tant’è che un giorno, ritornato a casa, mi disse:
«… ogni mare è soltanto pieno d’acqua!».
Ma fu proprio in quel periodo marinaresco che in Oronzo ebbe inizio una sorprendente metamorfosi; durante i suoi interminabili viaggi, infatti cominciò a leggere moltissimo e di tutto; imparò bene lo spagnolo, al punto che in quella stessa lingua bestemmiava con serenità e disinvoltura senza
temere minimamente il castigo divino. Anzi, pareva avesse un rapporto piuttosto confidenziale con il Padreterno, come se lui e il buon Dio si dessero del tu: praticamente lo trattava da pari a pari e, qualche volta, anche da pari e dispari!. Infatti, quando per qualche motivo personale lasciava partire una saetta in direzione del cielo, alzava gli occhi verso l’alto e mormorava:
«Eh! Lui mi capisce… sicuro che mi capisce!»; e anch’io sono sicuro che Lui lo capiva davvero!
Per la verità Oronzo un po’ ce l’aveva con Nostro Signore, se non altro per tutto quanto aveva dovuto patire nel corso della propria esistenza (e non solo lui). Infatti una volta mi lasciò interdetto dicendomi che il giudizio universale sarà il giorno in cui il buon Dio verrà a giustificarsi con tutti noi uomini, donne e animali, per le innumerevoli sofferenze che abbiamo dovuto sopportare durante il nostro breve soggiorno in questo Suo strano mondo.
Se da giovane (e ignorante) non aveva paura di niente e di nessuno, divenuto più anziano si era dotato di una cultura e di una forza di carattere straordinarie. Ma a conferma di come un uomo di carattere sia un… caratteraccio (in peggioramento), con il passare degli anni lui stesso divenne scontroso e scostante. Spesso a certe domande rispondeva in modo surreale o addirittura volgare; ricordo che a un tizio curioso che gli chiedeva quale fosse il suo incarico a bordo del piroscafo (faceva il fuochista) rispose così:
«A bordo potavo le viti, facevo il giardiniere!» e subito dopo, sibilando con gli occhi semichiusi: «ma perché non ti fai un bel pacco di cazzi tuoi?».
Forse nella prima delle due risposte si nascondeva una sorta di lapsus freudiano, una reminescenza che lo riportava
alla grande