Dita di fulmine
By Sylvia Noir
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Mi giro di profilo e scatto di nuovo, immaginando le gemelle che mi immortalano nella triste posa della schedatura del manicomio.
Eppure voltandomi di nuovo lo specchio ritrae un'altra me, il solo pensare a quel luogo cupo e inquietante fa emergere il lato più lucente di me, come a contrastarne il grigiore che si impossessa di tutto ciò che vi appartiene.
E vedo occhi diversi, pieni di pietà per la sofferenza che questi stessi occhi hanno impresso sin da quando hanno visto la luce. Chissà se nei miei occhi ci sono ricordi di quando vidi quelli di mia madre per la prima volta, la sua follia che come una fotografia mi si è stampata da subito nella mente.
E lo specchio mi rimanda la parte più brillante di me, quella più creativa, più passionale, che cerca il bello anche nello sguardo di un pazzo.
Forse perchè lui stesso è come il mio doppio, la mia follia.
Ho sempre temuto l'autoritratto, forse per paura di ritrovarci gli occhi di mia madre, o la rabbia per quello che mi ha tramandato.
O forse è il timore di farmi fagocitare dalla mia stessa doppiezza che mi ha sempre fatto fuggire dall'immortalare me stessa nella mia reflex.
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Dita di fulmine - Sylvia Noir
FULMINE
DITA DI FULMINE
Capitolo I
La mia immagine riflessa nello specchio. Fisso i miei stessi occhi che mi rimandano luci e ombre della mia stessa anima. Alle mie spalle la mia reflex a testimoniare quello che il doppio di me stessa mi sta riflettendo. Tenendo il busto fermo tendo il braccio indietro afferro la peretta e scatto. Ne eseguo una seconda, con lo sguardo rivolto verso la macchina, e mi fermo per alcuni lunghi istanti a contemplare me stessa.
Mi guardo negli occhi, vedo il mio narcisismo prendere corpo, la provocazione di me stessa, l'elogio della mia bellezza, quello sguardo sicuro di attirare a sé la sua preda, quel sorriso ammiccante e ironico, che racchiude un non so che di diabolico. è questo che vedono gli altri? E' questa la Grazia che scelta la vittima la attira a sé e dopo averla sedotta fugge, eppure si fa raggiungere come in un gioco di vittima e carnefice, un gioco perverso che alimenta il mio narcisismo. E quando la preda giunge nella rete, il ragno colpisce lasciandola intrappolata nella sua stessa anima che la tarantola ha risucchiato, nei suoi sentimenti incastrati nella rete.
Mi guardo nel profondo del mio doppio, vedo la parte più buia di me, il compiacermi del mio sadismo che sa come lasciare la vittima inerme e tornare vincitore di fronte a se stessa, al suo specchio.
Mi giro di profilo e scatto di nuovo, immaginando le gemelle che mi immortalano nella triste posa della schedatura del manicomio.
Eppure voltandomi di nuovo lo specchio ritrae un'altra me, il solo pensare a quel luogo cupo e inquietante fa emergere il lato più lucente di me, come a contrastarne il grigiore che si impossessa di tutto ciò che vi appartiene.
E vedo occhi diversi, pieni di pietà per la sofferenza che questi stessi occhi hanno impresso sin da quando hanno visto la luce. Chissà se nei miei occhi ci sono ricordi di quando vidi quelli di mia madre per la prima volta, la sua follia che come una fotografia mi si è stampata da subito nella mente.
E lo specchio mi rimanda la parte più brillante di me, quella più creativa, più passionale, che cerca il bello anche nello sguardo di un pazzo.
Forse perchè lui stesso è come il mio doppio, la mia follia.
Ho sempre temuto l'autoritratto, forse per paura di ritrovarci gli occhi di mia madre, o la rabbia per quello che mi ha tramandato.
O forse è il timore di farmi fagocitare dalla mia stessa doppiezza che mi ha sempre fatto fuggire dall'immortalare me stessa nella mia reflex.
E mentre osservo le diverse espressioni facciali che mettono in risalto riflessi di luce diversi a seconda della posizione del viso, penso a Leda e a quanto il mio narcisismo non sia da meno di quello di una diva del cinema.
Ho bisogno che tu riesca a far venir fuori tutto ciò che quella donna si porta dentro. Rubale l'anima con uno scatto!
Leda si era infervorata quando uscimmo dal carcere femminile dopo aver incontrato una detenuta che Bruno ci aveva chiesto di andare a fotografare.
Si tratta di un copione piuttosto impegnativo. La protagonista è una detenuta che è stata accusata di aver avvelenato il marito e altri mariti di altre donne per vendicarsi delle violenze subite.
Bruno aveva letto sui giornali del caso di un' avvelenatrice detenuta nel carcere di Roma, e dato che alcune scene dovevano riprodurre quel luogo, io e Leda varcammo la soglia dell'istituto penitenziario femminile di porta Portese.
Capitolo 2
E come uno specchio mi appare nella mente la foto che scattai appena giunta a Roma. 'Istituto penitenziario femminile', alzo lo sguardo in cerca di quegli occhi che attirarono la mia attenzione, e pensai a quanti avvenimenti si sono succeduti da allora.
Mentre aspettavo Leda, mi incamminai verso la sponda del fiume. Impugnai la mia reflex pronta a immortalare fasci di luci che si rispecchiavano sull'acqua.
Ricordai tutto quello che Frank mi aveva insegnato sulle zone di luce e di ombra, fra la zona del nero e quella del bianco esiste quella del grigio con otto tonalità diverse tu devi imparare a coglierle tutte!
mi sento sempre una ladra che ruba esperienze dagli altri e l'anima di chi si offre a me per poterla mettere a fuoco.
Avresti bisogno anche tu dell'esposimetro fotoelettrico per misurare la luminosità delle diverse parti della scena che vuoi fotografare
Frank avrebbe voluto che lo seguissi come uomo e come fotografo, ma io volevo dare un'impronta tutta mia alla mia vita di donna e di fotografa. Lui era un vero maestro della tecnica fotografica ma non sapeva leggere nell'animo altrui, lui era un grande fotografo cinematografico, era fatto per lo spettacolo per la finzione, io volevo entrare nella vita vera, attenta a non farti risucchiare dalla tua reflex!
mi sembrò di sentire la sua voce calda dietro di me, invece un rumore sordo mi fece voltare di scatto, c'era una piccola imbarcazione attraccata vicino alle scale di accesso al fiume.
All'interno della barca un telo dal quale si scorgeva un bordo di una piccola cassa di legno. L'ondeggiare dell'imbarcazione faceva cigolare il legno invecchiato della cassa. Scattai alcune foto, e mi resi conto di essere talmente persa in me stessa da non vedere quello che c'era intorno a me.
Abito nella zona trastevere ormai da tempo eppure questo fiume non ha mai attratto la mia curiosità. Per una donna salentina l'acqua è il mare che s'infrange sugli scogli, i fiumi non mi appartengono eppure qualsiasi specchio, anche d'acqua, sta diventando una calamita.
Forse gli artisti d'immagini hanno in sé un narcisismo che va oltre ogni