Oracoli & Miracoli
By Franco Mimmi
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Oracoli & Miracoli - Franco Mimmi
Franco Mimmi
Oracoli & Miracoli
Uno
Il tempo, naturalmente. Delle sue mani che posano inerti sulla scrivania, deformate alle nocche, peli folli sul dorso delle falangi. Nascosti nel palmo, ma evidenti nella piegatura innaturale dell'anulare, i noduli del morbo di Dupuytren, secondo stadio gli ha detto il medico, con flessione del dito fino a 45 gradi, meglio operare prima del terzo stadio con flessione fino a 90 gradi, e assolutamente prima del quarto, quando il dito ormai si ripiega su se stesso. Il tempo, naturalmente: dei suoi pensieri che si fanno pigri nel denso liquido amniotico dell'inutilità, e delle sue palpebre che pesano come se il sonno non le abbandonasse mai, dal risveglio al sonno vero e invincibile, ombra che scende sulla pagina della lettura, sempre più presto, sempre più rapida.
Stanchezza, certamente. Un cerchio pesante alla testa, un senso di oppressione allo stomaco. O un infarto, pensa con un trillo minimo di allarme, e subito, con sorpresa, con sollievo: così finalmente saprò di che morte devo morire. Ma non è un infarto, lo sa, solo stanchezza, come quella che piega all'ingiù i mustacchi grigi dell'uomo di fronte a lui e toglie un po' di comicità alla faccia prototipica di poliziotto coi baffi, stagionato come lui dalla convivenza con l'ingiustizia. Da quanto tempo lo conosce? La testa grigia di capelli ispidi come di ferro, grigia la pelle di peli invincibili, spenti gli occhi nel grigiore dell'insuccesso. È il suo riflesso e lo annoia come lui si annoia. Peggio ancora quando parla e dice: Nessun movente, nessun indizio. Il commissario è disperato e non lo nasconde: Non caviamo, dice, un ragno dal buco, sarà uno dei tanti delitti che restano impuniti. Il giudice lo consola, lo esorta: Sono sicuro che presto troverà qualcosa, commissario, e non possiamo lasciar cadere il caso, neppure facendo finta di starci ancora sopra. Si tratta di un grande funzionario pubblico e di sua moglie, dal ministero mi ossessionano, i giornalisti non mollano, vogliono un titolo al giorno, qualsiasi titolo. Coraggio, commissario, siamo nella stessa barca: remiamo!
Ma la barca sembra un sughero impotente a trovare una direzione, caduto nel mezzo di uno stagno senza correnti in una giornata senza vento: non c'è modo di portarlo a un approdo qualsiasi, neanche gettando nello stagno un sasso per provocare qualche onda, perché neppure hanno idea di che sasso. La verità, dice il commissario alzandosi, lisciandosi automaticamente i baffi antiquati, la verità è che è stato un lavoro perfetto, di grande professionalità. Chapeau!
Quella è una espressione che il giudice detesta, e il commissario lo sa ma non se ne ricorda mai o forse fa finta, perché a lui sembra elegante, così si lasciano senza ulteriori saluti, appena un cenno della mano del magistrato che nel frattempo si fingeva già immerso nelle sue scartoffie. Ma in realtà pensava ad altro, e continua a pensarci quando è rimasto solo: pensa che è assurdo, come potrebbe venire da tanto lontano una soluzione, ma pensa pure che forse solo da lontano può venire una soluzione, una sorta di miracolo, uno degli oracoli bislacchi che uscivano dalla bocca di quel brasiliano certo pericoloso e probabilmente folle, come diavolo si chiamava, e che poi il Senatore distribuiva a caro prezzo ai suoi clienti per salvarli neppure dalla galera ma dalla giustizia o meglio ancora - lo pensa come se apparisse su una lavagna, per vedere la maiuscola - dalla Giustizia.
In un cassetto ha un numero di telefono. Lo ha lì da tanti anni, da quando il Senatore glielo diede nell'aeroporto dove stava per imbarcarsi e lasciare per sempre l'Italia della prima repubblica e della seconda repubblica, perché, come gli aveva detto, un cielo così sporco non si pulisce senza una tempesta, e quella provocata dai giudici, le famose mani pulite che avrebbero dovuto spazzare via le nubi, era stata appena un acquazzone: presto tutto si sarebbe ricomposto, le nubi di sempre, il cielo di sempre. Facile previsione, pensa il giudice permettendosi un sorriso ironico alla volta dell'indovino, ma poi confessa a se stesso che lui ci aveva sperato, aveva pensato che forse, per una volta, le cose sarebbero cambiate in meglio: nulla di strabiliante, ovviamente, ma un po' più di onestà, un po' più di pulizia, e insomma un po' più di Giustizia. Se lo ripete per togliere la maiuscola, per dimostrarsi che non era poi così ingenuo: di giustizia.
Sul biglietto c'è una esse maiuscola e un lungo numero che è stato cancellato con una linea, e sotto un altro lungo numero che un giorno, interrompendo per un solo attimo il silenzio ma garantendo al tempo stesso la possibilità del dialogo, gli arrivò con una email: Oracoli & Miracoli l'indirizzo del mittente, il nome dell'agenzia con la quale l'ex politico era tornato a mungere le ubri degli scandali italiani. Allora si informò sui prefissi, per pura curiosità, e scoprì che S. si era spostato da Rio de Janeiro a Salvador de Bahia, vai tu a sapere perché, due entità comunque ignote per lui. Ma è passato tanto tempo, e quella esse così maiuscola, quel grassone che alimentava il proprio grasso per sconfiggere la vanità della vita, potrebbe essere scomparso del tutto, per cause naturali o aiutato dal suo pericoloso assistente, come diavolo si chiamava?, ah sì, Oscarzinho.
Si decide a chiamare il lungo numero, pochi squilli e risponde una voce femminile, giovane, cantante: Oráculos e milagres, e lui capisce che ha detto oracoli e miracoli in portoghese ma non sa che fare, come rispondere, chiede in italiano del Senatore, lei dice qualcosa come momencín, aspetta un po', e poi un'altra voce, più matura ma ugualmente musicale, dice não está, vuol lasciare un messaggio? Che ho chiamato, dice. Dice il suo nome. Riappende.
Vorrebbe andare a casa e non vorrebbe andare a casa. Che fare lì, nel vuoto di idee che lo assilla? Ma che fare a casa, nel vuoto di affetti, di scopi, persino di suoni? Si vede seduto in poltrona, immobile, lo sguardo sbarrato, il braccio calato, due dita infilate nella presa di corrente per passare così la notte e alzarsi la mattina dopo ricaricato, apparentemente vivo. Resta in ufficio, sfoglia carte, cerca di non pensare, finge di pensare. Quando suona il telefono non sa che ora è, sicché non si meraviglia che lo chiamino tanto tardi. L'ho cercata a casa, dice la voce, e non l'ho trovata, così la trovo in ufficio. Brutto segno, a quest'ora. Sì, la voce è quella. Nella quindicina d'anni trascorsi ha continuato a suonargli all'orecchio, ironica e un po' amara, sdegnosa e un po' rassegnata: per pulire un cielo così sporco era necessaria una tempesta, ma è stato solo un acquazzone.
Come sta? chiede. L'altro ride. E che gliene importa? Mica è per questo che mi ha cercato. Lei mi disse, dice, e l'altro gli prende il filo: Se decide di invecchiare e di ingrassare sa dove venire a cercarmi, così le dissi. Ha deciso? Scuote la testa ed è come se l'altro lo vedesse, perché continua: No, evidentemente, sicché deve essere davvero in un brutto guaio. Il giudice preme il bottone che lo libera dal microfono, si abbandona contro lo schienale della poltrona, dice: Ha letto i giornali, no? Questa volta è lui che vede annuire l'altro e continua: Non cavo un ragno dal buco. E l'altro: Mi racconti un po'.
Ma non è quello che fa. La sua voce è bassa e pacata ma risuona nell'ufficio deserto come invocando la propria eco, il giudice parla e si ascolta e non si capisce, perde il senso delle proprie parole però continua a parlare perché è rimasto chiuso nel silenzio per anni e adesso, chissà perché, gli sembra di poter finalmente abbandonare ogni cautela e arrendersi al suono anche se le parole scorrono senza senso, incomprensibili. Ordine, dice. Giustizia, dice. E all'altro capo del filo, al di là dell'Atlantico: Disordine. Confusione. E lui, improvvisamente iroso: Ma che cosa crede, che sia nato ieri? Ma sa quante ne ho viste? Di tutti i colori, ne ho viste. Chiedevo solo un briciolo di ordine, un minimo di giustizia. E all'altro capo del filo, nel tono di un sorriso pietoso ma certo un po' ironico: Macché, macché, lei non ha visto niente, non ha idea, o meglio un'idea sì, ma un'idea sbagliata, come tutti quelli che ne hanno solo un'idea. Venga qui, le mostrerò un poco di vero disordine, di vera confusione, e allora forse riuscirà a veder chiaro in quel pizzico di disordine che la opprime tanto. Venga qui, signor giudice, venga da me. E il giudice vorrebbe ribattere, rispondere sicuro e beffardo che nulla lo può meravigliare, che ha visto la morte e la vergogna, la violenza e l'assurdo, e che non chiede poi molto, appena un poco di ordine, un briciolo di giustizia.
Si sente il respiro del Senatore, o per meglio dire il sospiro, e poi: Dia retta a me, prenda le distanze per un po', l'aiuterà a recuperare il senso della prospettiva. Lei mi parla di assurdo. Sa cosa disse anni fa un politico di qui? Disse: pensate a una cosa assurda, a Bahia è già successa. Venga qui a bersi qualche caipirinha. Sarà alcolica, suppongo, dice il magistrato. L'altro ride. Ma poveruomo, dice, non mi dica che non ha mai bevuto una caipirinha. Le confesserò, risponde il giudice, che a casa mia, nel salotto buono, c'è un mobile bar che ho ereditato dai miei genitori, e dentro ci sono ancora le bottiglie che ci hanno lasciato loro. Nuova risata d'oltre Atlantico. Immagino, dice il Senatore, che ci sarà anche una bottiglia di rosolio con il tappo di legno scolpito, la faccina aguzza e le gote rosse di un omino tirolese o qualcosa di simile. Questa volta a ridere è il magistrato. Come ha fatto a indovinare? chiede. Silenzio adesso, forse S. c'è ancora, forse no. Senza accertarsene il giudice dice: Lei mi dice mi racconti un po', si fa presto a dire, ma da dove si incomincia? Dunque, il primo caso - se è stato il primo caso, perché magari ce n'erano stati altri prima che avevano richiamato meno l'attenzione e perciò a nessuno era venuto in mente di metterli in relazione, non che adesso siano stati messi in relazione, almeno ufficialmente, ma come si fa a non pensare, come si fa a non vedere, e allora, se le cose stanno così, almeno sette, no, almeno otto, e ancora aspetto... Vediamo un po', il primo caso è di tre mesi or sono, qui a due passi, nel centro del centro storico della capitale, l'urbe, la città eterna, un appartamento più o meno dove Claudio riceveva il saluto prima della naumachia, morituri te salutant, non si ha notizie che altri lo dicessero, che fosse consueto, i gladiatori nel Colosseo voglio dire, almeno duecento metri di gran lusso, acquistato, appurammo (questo passato remoto è impagabile, puro verbale di polizia, appurammo, dicevo) che l'alto funzionario aveva firmato il compromesso pochi giorni prima di andare in pensione, cedente un ente di stato, a prezzo, appurammo, un terzo o forse meno, un quarto, un quinto del valore di mercato, ma non si arrivò al rogito perché due giorni prima, non proprio alla vigilia come sarebbe stato letterariamente congruo ma due giorni prima, il funzionario ormai in pensione, già riscosse le prime due mensilità, veniva freddato con un colpo di pistola a bruciapelo e certamente con silenziatore mentre si apprestava, seduto al tavolo della sala da pranzo, a terminare la prima colazione di cui aveva già consumato il succo d'arancia e un uovo strapazzato, restandogli il caffè con latte e pane tostato con marmellata che la fedele domestica gli avrebbe portato ben caldi e che infatti gli portò ma solo per trovarlo ormai impossibilitato a berli e a mangiarli. Un visto e non visto. Entra il funzionario, si siede, entra la domestica, buon giorno, buon giorno, depone succo e uovo, torna in cucina, entra l'assassino - da dove? entrato come? -, spara, flop, esce, entra la domestica, dice ecco il caffè, grida, il vassoio cade, se c'era qualche traccia dell'omicida resta sepolta sotto il caffellatte, il pane e la marmellata, e comunque altro non si trova.
Non che ci si debba stupire, dice il giudice. Fare l'assassino è la cosa più facile di questo mondo, qualsiasi persona intelligente, solo che ci si impegni un po', può farlo e farla franca, e infatti la maggior parte degli assassini la fa franca. Potrei spiegare con casi, citare statistiche, ma non è il momento, forse neanche il caso, meglio non dare idee. Ma quello fu il primo.
Finito il racconto all'uomo all'altro capo del filo, sull'altra sponda dell'Atlantico e per giunta nell'altro emisfero, il giudice si arrende al fatto che quello ha riappeso da un pezzo e riappende anche lui, si alza, infila i documenti nella cartella di cuoio che sua moglie gli regalò pochi mesi prima di abbandonarlo - dopo dieci anni ancora non l'ha perdonata -, si alza e infila il cappotto e i guanti, prende l'ombrello ed esce nel buio di una città ancora incerta tra la pesantezza della cena e l'irrequietezza della notte, va a casa e si siede in poltrona, se i buchi della presa di corrente non fossero così piccoli ci infilerebbe due dita e resterebbe a ricaricarsi fino a rialzarsi la mattina dopo, apparentemente vivo.
BAHIA - 1
Salvador, 9 ottobre 2007
Sono ancora latitanti 21 detenuti fuggiti dal Commissariato V di Periperi, nel suburbio ferroviario di Salvador. Finora la polizia è riuscita a riprendere solo i fratelli gemelli Jocelino Lázaro e Lázaro Jocelino Amorim Pereira, catturati da agenti della 18ª Compagnia Indipendente della Polizia Militare.
Secondo il commissario titolare, José Roberto dos Santos, non vi sono informazioni sul nascondiglio dei fuggitivi, ma le ricerche continuano.
I detenuti sono fuggiti attraverso un buco praticato nell'area destinata all'ora d'aria, nel tardo pomeriggio di domenica 7. Secondo informazioni della polizia, i 23 uomini occupavano una cella con capacità per quattro persone.
Il Commissariato V, che prima della fuga aveva 53 internati, ora ne ospita 32, però la sua capacità è per 16, afferma il commissario. La maggior parte dei fuggitivi risponde alla giustizia per assalto a mano armata, omicidio e traffico di droga.
O&M: DONA ALFINETE - 1
I bambini corrono incontro all'anziana, che distribuisce loro caramelle e monetine. Strillano e non se ne vanno, neppure quando è evidente che la distribuzione è finita. L'anziana, pelle bianca e capelli grigi fitti come una paglietta metallica, di quelle per strofinare i tegami, si fa strada nella piccola folla e intanto si rivolge alla giovane che l'accompagna. Vede? le dice. Loro mi vogliono bene, graças a Deus. Gli innocenti sanno leggere nel cuore delle persone, capiscono chi li ama davvero, se Deus quere, ma c'è molta gente cattiva, che vuole la mia rovina e mi perseguita.
Arrivano alla fine della sala lunga e stretta, affollata di bambini che dimostrano, sia vero o sia la malnutrizione, tra gli otto e i dodici anni, tutti neri o mulatti, quasi tutti maschi vestiti di magliette non pulitissime e con qualche buco, pantaloncini quasi tutti scuciti qua e là, ciabattine di gomma ai piedi quelli che le hanno, solo in un angolo c'è un gruppetto di bambine che spupazzano una grande bambola bionda e nuda, l'anziana le ignora e fa strada alla giovane verso una scala ripida e scrostata, senza una ringhiera nè un corrimano. Non è pericolosa? chiede la giovane. L'altra si stringe nelle spalle: I bambini, dice, sono agili, sono di gomma, anche se cadono non si fanno niente. Incominciano l'ascesa, ma ogni due o tre scalini la donna si ferma, ansando. Il cuore, dice, ma non smette di concionare alla giovane. Quarant'anni, dice, che mi occupo di loro. Quanti ne ho salvati dalla fame? Dalle malattie? Dalla morte? Centinaia. Migliaia. E tutti si ricordano di me e mi vogliono bene, graças a Deus.
La giovane tace. Prende l'iniziativa e fa qualche scalino, ma l'altra, ansando penosamente, le mette una mano sul braccio e la ferma. Questa scala, dice, su e giù tutto il giorno, e una volta ero sana e forte ma adesso sono vecchia e malata, il cuore, aspetto solo di andarmene, in cielo se Deus quiser, perché ho fatto solo del bene, ho dedicato ai bambini tutta la mia vita, e anche se adesso qualcuno, per invidia, per cattiveria, cerca di fermarmi, di portarmeli via, io continuerò fino alla fine, se Deus quiser.
La giovane, con la punta delle dita color caffelatte con molto caffé, allontana la mano che la trattiene e riprende l'ascesa, decisa ad arrivare in cima senza ulteriori soste, ma l'altra, con uno scatto improvviso pieno di energia, la rincorre, la supera, varca per prima la soglia della porta che dà a una sala lunga e stretta gemella di quella dabbasso. È piena di lettini, tanti che tra l'uno e l'altro non c'è spazio, solo si può circolare nel corridoio tra le due file, cambiare il lenzuolo e sistemare i materassini non dev'essere facile, e infatti appaiono tutti sgualciti, spesso macchiati, un odore di orina stantia e meno stantia riempie la sala. Nei letti, tra le pieghe dei lenzuoli, sulle macchie secche o bagnate, dormono o si rotolano dei bambini che dimostrano, sia vero o sia la malnutrizione, tra gli otto mesi e i due anni, tutti neri o mulatti, quasi tutti maschi vestiti di magliette non pulitissime e con qualche buco, pochi quelli con un pannolino e così si vede che c'è anche qualche bambina. La donna anziana avanza tra le due file, muta di commozione ma con larghi gesti che vogliono dire sono tutti miei figli, graças a Deus. E finalmente ritrova la voce: Non me li porteranno via! grida. E poi si volta verso la giovane e le agita un pugno davanti alla faccia: Lei non me li porterà via! Dio non lo permetterà.
La giovane sospira. Nel suo mestiere di promotora de justi'a ne ha visti anche di peggiori, di rifugi per bambini orfani o poverissimi, ma li ha sempre considerati residui di un passato di cui non può accettare la sopravvivenza nel presente, nel futuro, ed è riuscita a farli chiudere, a far mandare i bambini in organizzazioni migliori, dove il concetto non è quello di far sopravvivere le persone dando loro da mangiare, da bere e da dormire, ma quello di renderle autonome, individui capaci di sostenere e di gestire la propria vita. In questo caso, però, sa che non sarà facile: dona Alfinete non è, come nei casi fin qui affrontati, una donna di buon cuore ma ignorante, di vedute sorpassate: dona Alfinete sa quello che fa e perché lo fa, e non è sola nella sua battaglia per tenere quello che ha. Si stringe nelle spalle: Io, dice, sono solo un funzionario pubblico, un magistrato che deve far applicare le norme. Le norme dicono che i bambini non possono...
Macché non possono, grida l'altra, non con rabbia ma con prepotenza, possono e come, e potrebbero anche di più se voi non mi aveste tagliato i fondi, se non veniste tanto a controllare, a contabilizzare, a pretendere, con il bel risultato che anche le donazioni private si stanno riducendo a niente. Cosa volete che faccia, senza soldi? Che cambi i materassi? Che dia da mangiare carne invece di fagioli? Che compri delle magliette nuove?
La ragazza si stringe di nuovo nelle spalle. La mancanza