Nel sole e nell'ombra ROMANZO
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Nel sole e nell'ombra ROMANZO - Roberto Del Miglio
dell’autore
I
Me lo trovai davanti accompagnato dal capo e dallo stridio della porta che si richiudeva tramite il dispositivo ad aria compressa. La presentazione stile ufficio implica un cliché standard che l’ingegner Morelli rispettò alla lettera.
«Permette ingegner Colombo? Le presento il dottor Dammarco, il suo nuovo collega.»
Stringendogli la mano, mi colpirono il suo sorriso e la stretta vigorosa.
«È già stato informato sul lavoro dell’ufficio, ma lei potrà chiarirgli meglio l’ambito del nostro operare.»
Dileguatosi Morelli, il nuovo venuto si accomodò alla scrivania di fronte alla mia, guardandomi come se fossi il Virgilio capitatogli in sorte.
«Com’è l’andazzo qui?» esordì con aria annoiata.
«Come in tutti gli uffici…»
«Ho visto la targhetta Ufficio Calcolatori. Dove dovremmo impiegarli?»
«Nelle centrali termiche per dare agli operatori di sala manovra i dati relativi ai macchinari.»
«A chi è venuta questa bell’idea?»
«Agli americani.»
«Ho letto su una loro rivista che in futuro ci si potrà collegare a una rete – per ora è di pertinenza dell’esercito degli Stati Uniti – per accedere a qualsiasi tipo d’informazione. Ne è al corrente?»
«Un programma televisivo esponeva delle previsioni più o meno simili.»
Accortosi che non avrei saputo rispondergli altro, si alzò per mettersi alla finestra. Eravamo al quinto piano di un palazzo tutto vetri di Melchiorre Gioia, arteria di collegamento fra Porta Nuova e il Nord di Milano.
«È sempre così il traffico?» domandò, grattandosi il naso.
«Deve vedere nelle ore di punta o quando piove! Roba da rincretinirsi al volante.»
Mentre farfugliava un commento, gli feci una fotografia. Un gabardine beige di buon taglio, camicia leggermente più scura e mocassini fior di pelle, vestivano a modo un corpo snello e le lunghe leve. Unico impedimento per non considerarlo un gagà alla moda, la mancanza, ovviamente voluta, della cravatta ostentata da quasi tutti gli impiegati in carriera – specialmente i bancari – come bandiera nel loro combattimento quotidiano per assicurarsi un posto al sole.
Anche il viso non era male: allungato, fronte non spaziosa, ma di giusta misura, sovrastata da una selva di capelli castani leggermente mossi. Gli occhi e il naso non erano fra i migliori, ma si accoppiavano bene alla bocca carnosa atteggiata a un sorriso ironico. Assomigliava a quell’attore americano, che dopo essersi preso a fucilate con la sua bella, ferito la raggiungeva strisciando per dichiararle, nonostante tutto, il suo amore. Il suo atteggiamento altezzoso mi ricordava lo spagnolazzo dei Promessi Sposi, solito a guardava gli altri con il mento in su e gli occhi al pavimento.
Rimasi con questa impressione a mezz’aria, in attesa di conoscerlo meglio durante la coabitazione impostaci dalla circostanza: se non fosse stata di mio gradimento, avrei potuto approfittare di un cambiamento di ruoli per emigrare in un’altra stanza.
Mi concentrai sul lavoro, avvertendo comunque la sua presenza. Dammarco passò il pomeriggio leggendo le specifiche tecniche, lasciate da una mano ignota sulla sua scrivania a mo’ di vangelo a cui attenersi. Con una sigaretta ovale in bocca – le Macedonia di tabacco biondo facevano tanto tipo
–, educatamente uscì per fumarla altrove. Rientrato in ufficio, mi domandò:
«A che ora si termina?»
«In genere alle diciassette. Con l’orario flessibile prima si arriva la mattina, prima si esce il pomeriggio.»
«Grazie dell’informazione. Chi sta a quella scrivania?» domandò, additando l’angolo libero dal brandeggio della porta.
«Si chiama Rinolfi. Ora è in ferie, ma anche da presente è come se non ci fosse.»
«Come mai?»
«È un perito elettrotecnico, studia filosofia, vive in un mondo tutto suo e, tranne che per lavoro, parla poco. Assunto dall’Edison, ha mantenuto quel contratto per certe clausole migliore del nostro.»
«Beato lui» enfatizzò Dammarco con una strizzata d’occhi.
«Be’, ora vado.» Con un cenno della mano e un ci vediamo domani
uscii dall’ufficio.
In ascensore aleggiava la Marini, immersa nel suo profumo da demi-mondaine e nell’autoconvincimento di essere una calamita acchiappa uomini. Mi salutava con un cenno anche quando eravamo oltre lo spazio in cui scatta la socialità formale, offrendosi come tramite fra due mondi in mutua e continua osservazione – e in potenziale collisione – quali la direzione, di cui era la segretaria, e il parco impiegati di concetto nel quale militavo.
Da tempo, le carriere erano influenzate dalle tessere politiche dei tre maggiori partiti politici. Le formazioni delle cordate
per la scalata al successo facevano parte delle strategie in atto nei luoghi di lavoro, specie in quelli composti da centinaia di dipendenti: ci si valutava per rendersi conto delle singole potenzialità, per poi attribuire il ruolo di capo a colui ritenuto in grado di aprire la strada
anche ai collaboratori.
Con il sole ancora caldo, attraversare Melchiorre Gioia nell’ora del traffico era come immergersi in una camera a gas. Ma l’aria non era peggiore di quella respirata in ascensore.
II
Dalla nascente city, abbarbicata attorno alla Stazione Centrale, seguivo un percorso di strade secondarie per raggiungere la statale novarese nella periferia Ovest. Innestate le marce superiori, il motore della Fiat 600 prendeva un regime regolare: da quel momento cominciavo a rilassarmi, gustando il ritorno a casa dopo una giornata di lavoro.
Man mano, il cemento della città lasciava spazio ai prati, alle coltivazioni di frumento, mais, segale, e ai pioppi – l’albero caratteristico della Lombardia come i cipressi lo sono della Toscana – che come soldati inquadrati in battaglioni tendevano un agguato al sole ancora alto all’orizzonte.
«Eccola qui la Lombardia» mi dicevo, con l’orgoglio di appartenerle per metà. Su una musica accorata, canticchiavo una nota filastrocca:
Quando la pianura fumante trema sotto luglio
Quando il vento è al ridere, quando il vento è al grano
Quando il vento è a Sud ascoltatelo cantare
Questa terra piatta che è la mia
Con un impiego nella grande città e la residenza in un piccolo paese della provincia, vivevo un’esperienza simile a quella delle città parallele
. Perseguivo una dinamica filosofica di cui mi sfuggiva il significato profondo, non la carica rigeneratrice e l’intrigo di un dualismo in sintonia con la mia presenza in esse: a Milano ambivo a una carriera, mentre nel paese natale ritrovavo il nido, la dimensione vera con gli affetti e i miei valori.
Come è uso dire nelle descrizioni di luoghi, Xxxxx è un ridente comune poco lontano da Magenta. Dicendo che è a un tiro di schioppo, si rende meglio l’idea della distanza e della naiveté dei suoi abitanti, usi a rimpallarsi con quelli dei paesi vicini la nomea di non essere tanto svelti di mente e di fatto. L’unico a sfuggire a tale etichetta fu un ladro, dileguatosi in bicicletta dopo aver svaligiato la banca locale. Il fatto, riportato sul Corriere della Sera, sarebbe stato ancor più peculiare se il cronista avesse specificato che la banca era sita sull’alzaia del Naviglio esclusa ai mezzi motorizzati.
Da un punto di vista paesaggistico, il paese scende dolcemente dal livello dell’autostrada verso la valle, un’estensione di piccole proprietà agricole, cascine e villette compresa fra due strade. La prima, sfiorando il cimitero e la fabbrica di fiammiferi, corre parallela al Naviglio, dando modo di attraversarlo in località Ponte Nuovo. L’altra attraversa subito il ponte sul Naviri, scende verso il völt – così vengono chiamati Naviglio e curva nel vernacolo locale – e sfocia sulla statale Milano-Novara in località Magnana, non lontana dal ponte sul Ticino.
A Xxxxx, il tempo scorre con ritmi e riti adeguati all’umano vivere. La tranquillità è di casa e il centro del paese, la piazza Umberto I, contigua alla chiesa, si anima solo in occasione dell’entrata e dell’uscita delle messe: dalla rilevante affluenza si deduce l’ascendenza esercitata dal curato nella gestione del proprio gregge.
«Ciao Misa!»
«Ciao Mau!» risposi a Maurizio, che dalla soglia del negozio di suo zio mi aveva visto parcheggiare nella piazza. Ingegnere Colombo a Milano e Misa, diminutivo di Maria Elisa, nella mia versione paesana. Anzi, in questa ero la Misa
, in virtù di un lombardismo - ereditato dai celti-insubri? - nell’uso del quale i nomi propri e di famiglia erano preceduti dall’articolo determinativo. Il limite era un accoppiamento sgradevole all’orecchio, costituendo il torto al buon italiano un particolare trascurabile.
«Fa caldo in città?»
«Non te lo puoi immaginare. Minimo tre, quattro gradi più di qui.»
«Ma ce l’hai l’aria condizionata?»
«In ufficio sì! Però meglio questa proveniente dal Ticino.»
«Comunque, caldo o no, sembri fresca come una rosa.»
Sempre carino Mau, uomo con l’aria di bravo ragazzo caratterizzata da un sorriso offerto a tutti con un ciao, un buongiorno o un buonasera. Il fatto che mio padre, l’Angelo, non fosse cliente di suo zio, unico barbiere del paese, non aveva mai influito sui nostri rapporti, in quanto l’appartenenza a una comunità ristretta porta a salutarsi amichevolmente, a informarsi sulle famiglie e a evitare antefatti discordi. Per la cronaca, l’Angelo non era più andato dal Filo barbée da quando, da ragazzo, lo aveva visto infilare il dito nella bocca di un cliente per ripianargli le fossette delle guance prima di passarci il rasoio; ma non per questo mancavano di salutarsi e fare quattro chiacchiere quando s’incontravano al bar o in altre circostanze.
Mio padre si era laureato in letteratura italiana e inglese alla Cattolica di Milano. Tralasciando le proposte a lui offerte in città, aveva preferito insegnare alle scuole di Xxxxx e dei paesi limitrofi. Era ritenuto un uomo serio per il compito svolto, il comportamento equilibrato e le sagge opinioni. Riguardo al suo passato, alcuni lo consideravano un idealista, altri lo scrutavano con riserbo per la sua partecipazione alla guerra civile spagnola, alla fine della quale aveva conosciuto e sposato Cielo.
Figlia di un allevatore di bestiame di Arnedo, località della provincia di Logroño, Cielo – davanti al suo nome il lombardismo suonava stonato come il battito sordo della campana della chiesa – era esattamente come la si poteva immaginare dopo averla vista un solo attimo. Guardandomi con soddisfazione, aveva affermato che avevo ereditato il trapio – bellezza – da Angelo e la bravura –carattere – da lei, analogamente ai tori da combattimento allevati un tempo da suo padre. Secondo il mio parere, era stata modesta nel delegare tutto l’apporto di bellezza all’Angelo, che a sua volta non mancava certo di carattere. Al di là di ogni definizione, taurina e non, ero fiera dei miei genitori, dei quali mi consideravo una giusta mescolanza di caratteri e fisicità.
Dall’inizio degli anni cinquanta, abitavamo in una casa a due piani affacciata sulla piazza, giusto a metà distanza fra la chiesa e il negozio Di-tutto-un-po’ gestito da Giulia e Alfonso, i genitori dell’Angelo. Prima avevamo vissuto alla cascina Scissa, sita fuori dal paese in località Magnana. Così detta per avere i suoi terreni divisi dalla strada statale e dalla ferrovia Milano-Torino, la Scissa, dopo essere passata nelle mani di molti parenti, dagli anni venti era diventata proprietà di nonno Alfonso. Costruita nel 1848 – la data era incisa sul camino – aveva già undici anni al tempo della Seconda Guerra d’Indipendenza, la cui battaglia di Magenta, fra i franco-piemontesi comandati da Vittorio Emanuele II e Napoleone III, e gli austriaci di Francesco Giuseppe, fu combattuta proprio nei suoi paraggi. Io ci ero nata dopo il ritorno di Cielo e dell’Angelo dalla Spagna, e anche se Milano ha avuto una forte influenza su di me, il legame con la Scissa attesta il mio sentirmi in parte campagnola.
Quando cominciai la scuola, l’Angelo mi accompagnava alla scuola di Xxxxx, per poi raggiungere in moto quelle a lui assegnate nel circondario. Nelle occasioni in cui la maestra ci faceva leggere il Cuore, mi piaceva pensare che La piccola vedetta lombarda, protagonista di uno dei suoi racconti, avesse osservato il nemico da uno degli alberi della Scissa, prima di essere colpito a morte e onorato come un eroe dalle truppe piemontesi.
Abitammo in cascina fino a quando nonna Giulia convinse l’Alfonso ad andare a vivere in paese. Donna molto attiva, per non dire una vera forza della natura, non le era permesso partecipare ai lavori diversi dalla gestione casalinga. Sentendosi improduttiva, ambiva da tempo ad aprire un’attività commerciale in paese, in modo di poter frequentare le sue amiche: in genere erano loro a venirla a trovarla in cascina, in quanto lei, nonostante parecchi tentativi, non aveva mai imparato ad andare in bicicletta.
Presentatasi l’occasione di acquistare nella piazza Umberto I una casa con annesso un negozio, l’Alfonso stipulò un sacco di accordi con il Luigi per la conduzione a mezzadria della Scissa, riservandosi l’uso di uno dei tre fabbricati per ospitare, nelle occasioni di Pasqua, Ferragosto e Natale, amici e conoscenti.
Pur dispiacendomi lasciare la cascina, la nuova dimora avrebbe facilitato gli spostamenti giornalieri. Nel nuova condizione di paesana, cominciai ad apprezzare questa condizione. Oltre ai compagni di scuola, fino ad allora frequentati solo durante l’orario scolastico, avevo la possibilità di relazionarmi con altri coetanei durante le tante attività offerte dall’oratorio.
Abitare nel centro del paese aveva i suoi risvolti nella vita quotidiana, fatta di ripetuti incontri, saluti e scambio di informazioni sulle reciproche famiglie. Anche inconsciamente, ognuno contribuiva all’aggiornamento giornaliero di un bollettino orale delle dinamiche sociali di Xxxxx.
Salutato Mau con un sorriso, imboccai l’androne in comune fra l’ala di casa nostra e quella speculare dei nonni. Attraverso la porta aperta, sentii Cielo canticchiare il ritornello della canzone vincitrice dell’ultimo festival di Sanremo.
«Com’è andata oggi?» mi chiese senza alzare gli occhi dal manichino. La domanda, sempre la stessa, serviva a riempire la pausa aperta dalle nostre attività quotidiane.
«Bene mamma, ma tutto di vecchio.» Per un attimo, mi venne l’idea di parlarle del nuovo venuto, unica novità del giorno, e dell’impressione ricevuta; ma non avrei avuto granché da dirle. Tacqui, per evitare un discorso che sarebbe rimasto appeso come i salami in attesa della stagionatura nel Di-tutto-un-po’, fornito anche di merceria, cartoleria, mescita, biglietteria delle corriere e di altro ancora.
«E tu? Come va il vestito?»
«Lo puoi vedere» mi rispose. «Sta venendo bene, ma non sarà facile mimetizzare la panza del sindaco; ma se ci riesco…» Un esito positivo avrebbe rafforzato la fama della sua abilità di sarta, esercitata per noi familiari e qualche conoscente.
La guardai mentre puntava gli spilli togliendoli dalla bocca. Alta, bionda e con la pelle chiara non rappresentava il prototipo della spagnola mediterranea. Ai suoi tratti somatici di galiziana avevano contribuito i normanni, sbarcati e soggiornati nel corso della storia nella parte Nord-Ovest della piel del toro, come da sempre veniva chiamata la terra ispanica. In compenso, le male lingue dicevano che "las gallegas caen siempre de espalda y con las piernas abiertas". L’invidia e il gioco della torre hanno patria ovunque, ma in Spagna maggiormente che altrove. Più volte, avevo pensato che l’Angelo aveva avuto occhio nel scegliere Cielo, ma la decisione non era stata solo sua, quanto favorita da altre circostanze.
«Vado a farmi una doccia. Dopo andiamo dal Nene?»
«Sì, ma prima fammi finire l’imbastitura» mormorò Cielo, con l’angolo della bocca libero dagli spilli.
Uscire per prenderci un gelato era un’usanza del periodo caldo. Altresì, dopo diciassette anni di sospensione, era la prima estate in cui era stata ripristinata l’ora legale; pertanto,