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Storia di un industriale proletario
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Storia di un industriale proletario

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L’epopea della grande storia italiana contemporanea raccontata in prima persona attraverso gli occhi attenti del protagonista: dalla lotta partigiana ai sacrifici e alle sofferenze del dopoguerra, dalla straordinaria vitalità – sociale e culturale – della ricostruzione, fino ai cupi anni settanta, gli anni di piombo, con i suoi devastanti conflitti sociali.

Ambientato fra le dolci colline del Monferrato, il Canavese e la industriosa città di Torino, il libro narra le gesta del protagonista, piemontese di origine proletaria, che si muove nel contesto dell'industria tessile italiana. Egli cerca di barcamenarsi fra gli eterni, astiosi dualismi della nostra società, seguendo di volta in volta la corrente più opportuna del momento, attento a non lasciarsi sfuggire le occasioni che gli permetteranno un’arrampicata sociale addirittura oltre le sue più rosee aspettative.

Il libro, basato su esperienze in parte autobiografiche e in parte sugli attendibili racconti di amici e parenti dell’autore, riporta situazioni del tutto vere: drammi, gioie, dolori e le strepitose opportunità di uno dei momenti più coinvolgenti e dinamici della nostra storia recente.

L’autore offre tra le righe una chiave innovativa per interpretare l’attualità alla luce del passato. Un lettore attento individuerà facilmente ricorrenti e interessanti analogie fra il districarsi della storia narrata e i fatti della vita attuale.

---

Cico Istria Jr (il Junior sta per differenziarlo dall’omonimo nonno) è nato a Torino in un’umile famiglia di proletari, che comunque riuscirono a farlo studiare. All’età di 31 anni era già Dirigente Operativo in un grande gruppo brasiliano. Oltre agl’impegni di lavoro, ha avuto modo di conoscere e approfondire, per interesse personale, usi, costumi e mentalità delle più diverse popolazioni ed etnie. Ritornato in Italia, dopo la pensione – sfruttando il cospicuo bagaglio di esperienze acquisite in quarant’anni di attività – si è dedicato alla narrativa, cioè la passione nascosta di tutta la sua vita.
LanguageItaliano
Release dateDec 8, 2014
ISBN9786050341652
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    Storia di un industriale proletario - Cico Istria Jr

    Cico Istria Jr

    Storia di un

    industriale

    proletario

    Cico.Istria.Jr©2014

    Rev1.02

    In copertina: opificio tessile Crespi presso il villaggio operaio di Crespi d'Adda in provincia di Bergamo (1878, patrimonio dell'umanità Unesco).

    Avvertenza

    Tutti gli avvenimenti di questo racconto sono ispirati a fatti realmente accaduti. Per ovvie ragioni di discrezione abbiamo cambiato l’identità dei protagonisti, nonché – in alcuni casi – date e teatro delle loro azioni.

    Nomi di paesi e città sono spesso di pura fantasia, mentre quelli dei personaggi principali sono stati scelti fra i più comuni delle zone in cui si svolge il racconto, con l’intenzione di accrescerne il realismo ambientale. Gli eventuali casi d’omonimia con persone realmente esistite, o esistenti, sono quindi da ritenersi puramente casuali.

    Ciononostante, se qualcuno si riconoscesse in loro, non posso farci nulla. La storia italiana di quegli anni è stata vissuta in modo simile da milioni d’individui, un popolo intero coinvolto negli stessi avvenimenti, fuori dal controllo della logica e della buona volontà.

    E questa storia, con poche, praticamente ininfluenti variazioni, continuò per tutti gli anni settanta, parte degli ottanta e, in una certa forma, dura tutt’ora. Anzi penso che purtroppo durerà per sempre nel nostro paese degli eterni dualismi, delle eterne faide, degli interessi di parte, sempre rivendicati e mai soddisfatti.

    Con molti ringraziamenti,

    l’Autore

    Prologo

    Prima di uscire scocco un rapido bacio a Teresa.

    «Hai preso le pastiglie?», domanda lei.

    «Si, le ho prese», rispondo.

    «Non ti affaticare, mi raccomando».

    «No, i soliti quattro passi».

    Sull’uscio di casa, Dick, il cane lupo del nostro giardiniere, mi corre incontro scodinzolando. Siamo diventati grandi amici, da quando mi sono trasferito a Montacuto. Lo accarezzo dietro le orecchie, mentre un gallo canta lontano, poi c’incamminiamo verso il paese.

    Fa molto freddo. Non c’è in giro anima viva. Il silenzio e la pace di sempre, che ogni volta riesce a sorprendermi, affascinarmi, stordirmi quasi.

    Solo all’angolo della Casa Bruciata incontriamo la prima persona. La vecchia Colombina vestita di nero. Viene dalla chiesa, dove ha fatto le devozioni del mattino. Adesso va dal fornaio, a comprare il pane ancora caldo per i suoi uomini. Si stringe al petto lo scialle di lana e cammina rapida come suo solito, quasi un piccolo trotto.

    «Buondì, Colombina», saluto dall’altro lato della strada.

    «Andate a spasso?», dice lei, ma senza aspettare la risposta.

    L’officina del fabbro è ancora chiusa. Le strade luccicano per l’umidità della nebbia. Qua e là escrementi di animali e chiazze di terra rossa, lasciata dalle ruote dei trattori.

    Un altro gallo si mette a cantare. Gli risponde, dietro un portone, l’abbaiare concitato di un cane. Dick drizza le orecchie, annusa l’aria intorno, ma riprende subito a camminarmi di fianco.

    La tabaccheria – che vende anche giornali e alimentari – ha già aperto. Mentre entro, il cane s’accuccia a lato della porta. Compro due pacchetti di americane, tipo king-size.

    «Sua moglie non vuole, signor Evasio», dice la tabaccaia con aria di bonario rimprovero.

    «Ma noi mica dobbiamo dirglielo, vero Erminia?», faccio io ridendo.

    Esco, chiamo il cane e scendiamo verso la Madonnina. Quasi al bivio di Castelletto lascio la strada principale e prendo a destra, giù per un ripido sentiero fangoso.

    Il cane corre avanti e indietro, abbaiando. Si diverte un mondo sul terreno sdrucciolevole. La vallata, tutta coperta di nebbia, sembra un lago grigio e triste.

    Giunti al piano, troviamo fango ancora più alto e vischioso. Dick s’inzacchera il mantello e io scivolo continuamente, nonostante gli scarponi con suola di vibram.

    Già immagino la faccia di Teresa, al ritorno.

    «Non entrerai in quello stato, spero!», dice sempre severamente, quando rincaso così conciato, ma so che ha una gran voglia di ridere. Intanto mi porge le pantofole ben calde, messe sul termosifone subito dopo ch’ero uscito.

    Lo stesso faceva tanti anni prima, quando Boris, nostro figlio, era un bambinello di due o tre anni. Andavamo a giocare nei prati, ci rotolavamo in terra, c’insudiciavamo dalla testa ai piedi. Anche allora Teresa brontolava: «Pazienza il bambino, lui non ragiona ancora. Ma il padre… non so, proprio non so cos’ha per la testa quest’uomo, che pure si crede così importante». Il bagno però era già pronto. Sull’attaccapanni, ben ripiegati e profumati, l’accappatoio e la biancheria di ricambio.

    Vicino al ponte sulla roggia del mulino, Dick si ferma di colpo ad annusare l’aria. Quasi subito cinque o sei cani si mettono ad abbaiare, seguiti da un gran tinnire di campanelli.

    Pochi passi oltre la roggia, nel campo del mugnaio, comincio a distinguere le prime pecore di un gregge. Tante pecore che brucano l’erba, agnellini candidi sulle lunghe gambe legnose, alcune capre, un cavallo e, un po’ in disparte, un paio di asinelli.

    Due pastori ancora dormono sotto un carretto, avvolti in grigie coperte militari. Altri due in canottiera, sulla riva della roggia, si lavano rumorosamente con l’acqua gelida.

    «Buongiorno», saluto dal sentiero, mentre Dick e i cani da pastore, nel prato, si annusano diffidenti. Gli uomini rispondono a gran voce, con la cadenza lenta e grave dei montanari.

    «Non avete freddo?» domando. «Al solo guardarvi, così mezzo nudi, mi fate accapponar la pelle».

    «L’abitudine», risponde uno, «quando siamo all’alpeggio, oltre i mille metri, non fa mai caldo, nemmeno in piena estate».

    «Venga ad assaggiare un pezzo del nostro formaggio», m’invita l’altro, «si fa due ciance e ci si scalda con un sorso di grappa».

    «Con piacere», dico.

    Quelli sotto il carretto, sentendo parlare, si svegliano. Salutano, poi tutti ci accovacciamo attorno a una latta con dentro una manciata di carbonella in brace, per fingere di stare al caldo.

    Mangiamo pecorino piccante, accompagnato da candido pane raffermo di pasta dura. Dopo una robusta sorsata di grappa, offro le sigarette king-size.

    «Buone queste», fa il più giovane aspirando con gusto, «mica come le Alfa che si fuma noi».

    Gli altri annuiscono in silenzio, concentrati sull’aroma del tabacco. Io gli lascio il resto del pacchetto. Loro ringraziano con dignità.

    «L’inverno sarà crudo quest’anno», osservo.

    «Si, ne ha l’aria», conviene un pastore, «per fortuna che abbiamo le bestie in buona salute. Per noi, questa, è la cosa più importante».

    Se le bestie stavano bene, lo stesso non si poteva dire degli uomini. Non di tutti, almeno. Il più giovane, spalle d’armadio e lunghi capelli biondi arruffati, tossisce come latrare di cane in fondo a una caverna.

    «Brutta tosse», dico io, «sarete magari abituati, ma dormire all’aperto, con questo tempo, si rischiano brutti malanni».

    Gli altri, più maturi d’età, si mettono a ridere.

    «Quella tosse», spiega uno, «il giovanotto non se l’è presa dormendo con noi sotto il carretto. Lui dorme sempre nei fienili, nudo e senza coperte. Ha trovato qui vicino una bella cascinera e tutte le notti sparisce dalla circolazione. Torna all’alba con gli occhi pesti e una faccia da far spavento».

    Prendiamo in giro il giovane gigante, che si schermisce goffamente, mentre addenta un’enorme pagnotta.

    Un sole pallido fa capolino attraverso la nebbia. Io m’alzo, stringo la mano a tutti e prometto di tornare a trovarli, questa volta con un paio di bottiglie delle mie, barbera genuina, quella che scalda il sangue e le ossa.

    Chiamo Dick e c’incamminiamo.

    Da lontano i pastori ci salutano ancora con grandi gesti delle braccia.

    Dopo un breve tratto di piano prendiamo un sentiero su per la collina, fra la malinconia delle vigne spoglie.

    La salita diventa man mano più faticosa. Il cuore si mette a battere come uno sfrenato tam-tam. Anche il giorno prima m’aveva preso un attacco dei soliti, ma abbastanza leggero, passato con un paio di pastiglie. Teresa non se n’era nemmeno accorta.

    Adesso però ci risiamo, almeno così sembra. Con la serenità di cui non credevo esser capace, mi viene in mente che potrebbe essere l’ultima volta.

    Salgo ancora qualche metro, poi sono costretto a fermarmi. Le gambe non mi reggono più, il fiato corto, il cuore in tumulto, la vista annebbiata. Mi metto a sedere in terra, appoggiato al tronco di un grande ciliegio dalla liscia corteccia nera.

    Dick mi si accuccia accanto. Comincia a uggiolare. Dicono che i cani sentono l’odore della morte, quando si avvicina. Forse lui la sta già annusando.

    Asciugo col fazzoletto il sudore freddo della fronte.

    Vedo nella piana i pastori col gregge attorno. Dalla nebbia bassa spuntano i cocuzzoli delle colline, a perdita d’occhio. Su ogni collina un gruppo di case appollaiate, il campanile della chiesa, i torrioni merlati di un castello. Sembra un presepe di Natale. Manca solo, in cielo, una grande stella cometa, a guida dei Magi verso la stalla del Redentore.

    L’immagine del presepio svanisce. Altre prendono il loro posto. Visioni di un delirio lucido e tranquillo, senza angosce d’addio, senza rimpianti penosi.

    Mi rivedo bambino, con la mamma, dolce, affettuosa, sempre sorridente. Com’era bello abbandonarmi sul suo seno, sentire le sue carezze sui capelli, i suoi baci dolcissimi sulla fronte. Oh, quanto vorrei averla ancora qui, in questo momento difficile, appoggiare il capo sulla sua spalla, abbandonarmi in un sonno senza fine. Sicuro, tranquillo, tanto ci penserebbe lei a vegliarmi e difendermi, come quando ero bambino.

    Da lontano arriva il fischio acuto del treno. Nulla si vede nella nebbia sempre più fitta, però so che si tratta dell’accelerato Casale-Asti. Entra adesso in Montacuto-Stazione. Due carrozze, mai di più, e sempre semivuote.

    «Lo aboliranno, prima o poi», dice la gente preoccupata, o per meglio dire, preoccupati quelli d’una certa età, senza mezzi propri di trasporto. Ai giovani il treno non interessa. Loro hanno la moto o la macchina, liberi di partire e arrivare quando gli fa comodo. Mica usano più la ferrovia, i giovani.

    Un ultimo fischio. Il treno riparte lentamente. Sulla strada aspetta col motore acceso il pulmino giallo della cosiddetta navetta. Servizio gratuito, istituito dal comune per collegare la stazione al centro del paese, e viceversa.

    La stazione di Montacuto… oh, la ricordo bene, anche se sono trascorsi tanti anni, tutta una vita.

    Ci scendevo, arrivando da Torino, col cuore che batteva per l’emozione di rivedere Teresa. Allora mi sembrava la più bella, la più accogliente stazione del mondo. Quando ripartivo, invece, quella stessa stazione diventava fredda e malinconica, perché così in quel momento ero io, dopo aver lasciato la principessa dei miei sogni per tornare in città.

    Poi, qualche anno dopo, la battaglia della stazione, con i repubblichini asserragliati dentro. Volevano impedirci d’entrare in paese ma erano quattro gatti e alla fine, piuttosto che cedere, si fecero ammazzare tutti. E noi passammo.

    Oh, ricordo bene, come se fosse ieri…

    Parte prima

    L’immediato dopoguerra

    Cap. I

    Sul finire dell’aprile ’45, il CLN regionale ordinò alla banda Oscar di liberare Montacuto, l’ultimo centro monferrino ancora in mano fascista.

    All’alba di un giorno piovigginoso e freddo – nonostante la primavera avanzata –, trenta garibaldini presero posto sui cassoni scoperti di due Lancia 3RO, requisiti il giorno avanti a un’impresa trasporti di Belmonte. Non sembravano particolarmente preoccupati, solo speravano di finirla presto.

    Fra loro c’era anche il sottoscritto, Masserano Evasio, detto Vasino, classe 1924, ex studente, partigiano più per necessità che per convinzione. Come quasi tutti, del resto.

    Io non aspettavo altro che appendere il mitra al chiodo, sebbene mi ossessionasse il pensiero del dopo. Anzi mi metteva addosso un’ansia non inferiore a quella per lo scontro imminente. Avevo il grande problema di cos’avrei fatto per vivere, chi mi avrebbe dato un letto per dormire, chi cucinato un piatto di minestra. Perché ero rimasto solo al mondo. Solo come un cane, con il ricordo terribile dei morti sotto le bombe, di quelli che avevo ammazzato io stesso, di tanti altri morti e tanto dolore...

    C’era Teresa, sì, ma anche lei aveva i suoi problemi, con il padre fascista. Mentre la gente esultava e rideva e cantava, per me sarebbe stato ancor più duro affrontare la nuova realtà. Per me avrebbe mai avuto un senso la parola pace?

    Così rimuginavo in silenzio, stretto fra i compagni, l’aria gelida che mi tagliava la faccia, i vestiti inzuppati di pioggia.

    Poi arrivammo a Montacuto-Stazione, sul fondovalle. Fra poco – non sapevamo dove, ma sapevamo che ci aspettava – avremmo incontrato la repubblica. Ognuno, in silenzio, afferrò convulsamente la propria arma.

    Nell’attraversare il passaggio a livello, gli autocarri rallentarono, sobbalzando sulle rotaie. Proprio allora, dalla sala d’aspetto, ci spararono addosso con mitra e fucili. Saltammo come palle di gomma dai camion e ci defilammo dietro la massicciata della ferrovia.

    Rispondevamo al fuoco senza risparmiare munizioni, tanto, fra poco, non sarebbero più servite a niente. I muri della stazione finirono crivellati di colpi, ma quelli dentro non cedevano.

    «Coglioni, coglioni!», gridava Oscar incazzato per la vana, assurda ostinazione dei repubblichini.

    Dopo mezz’ora di sparatoria, il Piola – chiamato così perché prima della guerra giocava da centravanti nelle riserve della Pro-Vercelli – fu colpito a una spalla. Oscar divenne furibondo. Ordinò di bombardare il casotto della stazione. Gli spiaceva ammazzare quei quattro stronzi, proprio adesso che la guerra era finita, però nemmeno voleva rischiare la pelle dei suoi.

    Ghibli, il nostro esperto dell’artiglieria, preparò il mortaio.

    Il primo colpo fu un po’ corto. Il secondo centrò in pieno l’obiettivo. Il fuoco degli occupanti cessò immediatamente.

    Prima di entrare lanciammo dalle finestre sventrate mezza dozzina di bombe a mano. Di quelle tedesche, a forma di mazzuolo, e ananas americane, dal terrificante potere distruttivo.

    Appena diradò il fumo delle esplosioni, entrammo a finire il lavoro. Ma non c’era più niente da finire.

    Sotto le macerie trovammo i corpi straziati di mezza dozzina di ragazzotti vestiti in nero. A giudicare dalle facce imberbi erano tutti sotto i vent’anni. Gli ultimi fascisti rimasti a presidiare Montacuto. Avevano giurato di vincere o morire, poveri diavoli, resi ciechi dalla propaganda.

    Nelle tasche di uno coi gradi da sottotenente trovammo una lettera indirizzata alla madre. Oscar la lesse subito, teso, duro in volto. Non fece commenti, salvo che imprecare a denti stretti, poi s’infilò la busta nella giubba. Più tardi l’avrebbe spedita, accompagnandola con qualche parola sua.

    • • •

    Giunti in paese, scendemmo schiamazzando dai camion. Alcuni corsero in chiesa a suonare le campane. Ai primi rintocchi si schiusero delle finestre. Volti impauriti s’affacciarono timidamente.

    La mattina era grigia e umida ma in breve, come per un incantesimo causato dal suono a distesa delle campane, la nebbia scomparve, un sole raggiante illuminò il cielo azzurro di primavera. Alte le rondini intrecciavano garrendo il loro magico volo. Le campane dell’altra chiesa del paese si misero anch’esse a suonare, accompagnando i nostri canti partigiani, i peana della vittoria.

    In breve ci trovammo coperti di fiori, abbracciati da cento braccia, carezzati e baciati. Una dozzina dei nostri erano del posto, e li vedemmo avvinghiati a nere madri piangenti, un unico corpo, un unico cuore, un’unica gioia senza limiti.

    Le campane continuavano a suonare come durante la Pasqua, anzi la nuova vera Pasqua di quell’anno, la resurrezione dello spirito, il rifiorire della speranza.

    La piazza era tutta uno sventolio di fazzoletti rossi. Pane bianchissimo e salame crudo affettato arrivò da ogni casa, senza economia, come se anche la tessera fosse finita in quel momento, soltanto più un brutto ricordo.

    Poi si fecero vive le ragazze. Ci abbracciavano e baciavano gridando a squarciagola: «Viva i partigiani! Viva i patrioti!».

    Schioccarono i tappi delle bottiglie di malvasia e moscato. I partigiani bevevano dal collo delle bottiglie, inondandosi la faccia e le giubbe. Tutti si sentivano fratelli, inneggiavano alla libertà, mai più tirannia, sangue, violenza. Mai più!

    Il suono delle campane, ora, giungeva anche dai paesi vicini. Le rondini si moltiplicarono nel cielo terso del mattino. Dalle finestre, la gente continuava a lanciare fiori primaverili.

    Il podestà fu scovato nella cantina di casa sua, nascosto in un tino vuoto. Fu portato in piazza a calci in culo, sbattuto contro il muro del municipio e fucilato. Sapevano tutti che, appena cinque mesi prima, era stato lui a far venire i tedeschi per il rastrellamento. I tedeschi avevano bruciato delle case e impiccato quattro giovani in piazza.

    Le raffiche di mitra si persero nel suono delle campane. I fazzoletti rossi non smisero di sventolare.

    • • •

    Io lasciai i compagni in festa e corsi verso la casa di Teresa, attraverso le scorciatoie lungo il costone. Scivolavo sul fango, caddi un paio di volte, impacciato dal mitra a tracolla, ma continuai a correre, fradicio di sudore, il cuore in gola.

    Non sapevo cosa m’aspettava. Se ci sarà il padre di Teresa, come dovrò comportarmi? Nei giorni precedenti mi avevano detto che si trovava a Torino, ma poteva essere scappato prima che i partigiani entrassero in città. In tal caso me lo sarei trovato davanti. Io col mitra e lui… sarebbe stato armato? Forse sì, ed era un tipo piuttosto deciso… almeno così dicevano tutti. Allora che accidenti capitava?

    Arrivai alla villetta in mezzo al verde. Scavalcai con un salto il cancello. Bussai alla porta d’ingresso.

    Tutte le finestre erano chiuse con gli scuri. Nessun rumore veniva da dentro. Bussai ancora, con insistenza. Sentii uno scalpiccio di passi leggeri, affrettati, quindi lo scatto del catenaccio, il cigolare della porta che girava sui cardini.

    Un volto pallido, incorniciato di riccioli neri, apparve nell’apertura. I grandi occhi, nel vedermi, si riempirono di pianto.

    «Tuo padre?», chiesi rapido, ma avevo già capito come stavano le cose.

    «E’ morto», disse Teresa in un soffio, «l’abbiamo saputo stanotte da uno di Vignale, che lo ha visto ammazzare. Lui è riuscito a scamparla ed è venuto ad avvisarci, poveraccio, prima ancora di correre a casa sua».

    Restammo a fissarci negli occhi, impietriti, quasi senza respirare. Io col mitra ancora caldo in mano. Ricordai in un attimo i compagni sulla piazza, che abbracciavano e baciavano le loro morose. Quanto avrei voluto farlo anch’io, senz’altri pensieri per la testa, solo tanta gioia, e amore, e desiderio di dimenticare!

    L’allegro scampanare lontano contribuiva a rendere più assurda la situazione.

    Le labbra di Teresa ebbero un fremito.

    «Mi devi aiutare, Evasio», disse finalmente.

    «Certo», dissi io.

    «So dove l’hanno ammazzato», continuò lei rapida, «e allora voglio andare a prenderlo, portarlo a casa, voglio che mia madre possa vegliarlo una notte in preghiera, poi seppellirlo nella tomba di famiglia, qui, Evasio, vicino a noi».

    «Solo che dopo averlo trovato», obiettai, «e già non sarà facile, come fare a trasportarlo fin qui?».

    «Ho un po’ di soldi, e con l’aiuto di Dio, troveremo un mezzo adatto».

    «Va bene», dissi ancora, «però è una pazzia».

    Dal paese giunse un colpo secco di moschetto. Subito dopo lo sgranare dei mitra. Chissà cosa stava capitando lassù? Qualche irriducibile, qualche imbecille irriducibile che aveva voluto fare l’eroe. Teresa accennò con la testa dalla parte dove arrivavano i colpi.

    «E loro?» disse. «Loro non sono pazzi? In questi giorni tutti sono diventati pazzi».

    Avevo la gola arida, nemmeno un filo di saliva in bocca. Forse eravamo davvero tutti pazzi, ma andar a ricuperare la salma del padre era ancora più pazzesco.

    «Se proprio vuoi», dissi ugualmente, «quando partiamo?».

    «Il tempo di vestirmi».

    Mi fece entrare. In sala trovai sua madre abbandonata su una poltrona, immobile, vestita di nero. Era ancora una bella donna, col viso scarno pallido come cera. I suoi occhi interrogarono la figlia.

    «Vado a prenderlo», disse Teresa, come fosse la cosa più naturale di questo mondo, «Evasio mi aiuterà», e salì di corsa le scale per andarsi a vestire.

    Io rimasi solo con la madre, nervoso, a disagio. Chi le aveva ucciso il marito portava al collo lo stesso fazzoletto rosso che portavo io. Un ragazzo come me, uno che stava dalla mia stessa parte, aveva sparato la raffica mortale. La mia posizione non poteva essere più assurda. Aveva ragione Teresa, il mondo era diventato un unico grande, sporco manicomio.

    Mi misi a balbettare qualche parola di condoglianza.

    «Mi dispiace», ripetevo goffamente, «mi dispiace…».

    «Perché dovrebbe dispiacerti?» m’interruppe acida, fissandomi coi grandi occhi scuri, una volta bellissimi, come quelli della figlia, ma ora opachi e spenti. «Lui era fascista e tu stesso, se ne avessi avuto l’occasione, l’avresti ammazzato senza nemmeno pensarci».

    «Non dica questo, signora?», dissi io sottovoce. «Lui era il padre di Teresa. Un fascista, certo, ma prima di tutto il padre di Teresa».

    La donna mi zittì con un gesto imperioso della mano. Poi abbozzò un sorriso, amaro e ironico insieme.

    «Oh, non fare il sentimentale, adesso», lei fece, «sai benissimo che se fosse ancora qui ti sbatterebbe fuori a calci nel sedere».

    «Lo so», dissi io dopo averci pensato un attimo, «l’odio è una brutta bestia. Ora però dobbiamo smetterla… basta con l’odio, il rancore, la voglia di vendetta…».

    «Per quel che mi riguarda», fece ancora scrollando le spalle, «è già finito tutto, l’odio, l’amore, fra poco anche la vita…».

    Grazie a Dio tornò Teresa. La madre tacque e io sospirai di sollievo.

    La ragazza indossava giacca a vento da montagna, gonna di lana a quadri, un fazzoletto in testa. Portava sulle spalle uno zaino di tela grigioverde, pieno. Non capivo di cosa.

    «E lì dentro?» domandai.

    «Un suo vestito, le scarpe, una camicia pulita, un paio d’asciugamani. Non sappiamo in che stato lo troveremo».

    Parlava come se il padre fosse ancora vivo.

    Abbracciò e baciò la madre. Uscimmo.

    «Sai», dissi avviandoci, «sarà meglio che ne parli a Oscar, il nostro comandante. Chissà che possa aiutarci».

    Quando giungemmo sulla piazza, tutti ammutolivano al nostro passaggio. Guardavano Teresa di traverso, perché era figlia di fascista. Io però la tenevo stretta per mano, e con l’altra mano tenevo il mitra, il dito sul grilletto. Nessuno ebbe il coraggio di dire una sola parola, di offenderla in qualche modo.

    Davanti al municipio la gente si accalcava attorno al cadavere del podestà, supino in una pozza di sangue. Qualcuno gli aveva messo sul petto un cartello con la scritta a carbone:

    Chi la fa

    l’aspetti

    Mi vergognai per il balordo che l’aveva scritto, e anche per chi leggeva e sghignazzava. Non avevo fatto diciotto mesi il partigiano perché la gente si prendesse la libertà di comportarsi come bestie.

    Lì vicino, in mezzo a un crocchio di ragazze che ridevano stupidamente, vidi un paio dei miei compagni.

    «Ehi, Bill», gridai, «hai visto Oscar?»

    «In municipio, tovarich, viva Stalin!» rispose Bill, già ubriaco, agitando per aria una bottiglia in ogni mano. Le ragazze continuavano a ridere senza nessuna ragione.

    Entrammo nel municipio pieno di gente vociferante. Parlavano tutti insieme, contemporaneamente, come pappagalli sui rami di un albero. Non si capiva un accidente cosa dicessero, ma più che altro, dopo tanti anni di forzato silenzio, stavano soltanto sfogandosi, senza importargli un’acca di cosa parlare, purché parlare.

    In mezzo alla calca notai il cappellaccio australiano di Ghibli, il mio amico più intimo. Mi aveva fatto per due anni da padre e fratello maggiore. Lo chiamai e lui corse verso di noi, facendosi largo a gomitate.

    Ghibli conosceva Teresa – tutti si conoscevano in paese –, ma non l’aveva più vista da molti anni, sempre in giro per il mondo a far la guerra. Si spinse il cappellaccio sulla nuca, il suo gesto abituale.

    «Cuntàch, che bella figliola ti sei fatta», disse, «e sarai ben contenta che te l’ho riportato a casa sano e salvo, il tuo partigiano, vero?».

    Gli occhi di Teresa si riempirono di lacrime. Ghibli s’era fatta una grossa gaffe nel parlarle in quel modo, ma poveraccio, non poteva sapere cos’era successo.

    «Ho bisogno di un tuo consiglio», dissi prendendolo in disparte. Gli raccontai del padre di Teresa e della nostra intenzione di andare a ricuperarne il cadavere.

    Ghibli non si scomponeva mai, anche nelle situazioni più scabrose. Rimase impassibile, disse soltanto che si trattava di un osso molto duro: «Specie per te», aggiunse, «che hai ancora i denti da latte».

    «Lo so che sarà dura», risposi, «cercavo appunto Oscar per vedere se può aiutarmi in qualche modo. Per esempio, fornendoci dei lasciapassare».

    «Oscar ti aiuterà, Vasino», disse Ghibli mettendomi un braccio sulle spalle, «tu eri un buon patriota e sai che ti vuol bene. Adesso è in riunione col ci-elle-enne appena arrivato da Alessandria, ma cercherò lo stesso di parlargli. Aspettate qui tutti e due».

    Io e la mia ragazza sedemmo su una panca ad aspettare.

    Teresa mi stava incollata al fianco. Una manina fra le mie. Gli occhi bassi, silenziosa, paziente. Sembrava che il tempo, per lei, avesse perso ogni significato. Sembrava essersi trasformata in una stupenda scultura gotica di Pietà, per la quale il tempo, lo spazio, le stagioni, le umane cure perdono ogni significato, si annullano nella sublimazione del suo dolore.

    Attorno continuava il vociare sconnesso. C’era tutta la Montacuto che contava, dal macellaio al farmacista, dal maestro al medico, ai particolari più importanti, fino al vecchio conte decaduto, col monocolo e la grande pipa ricurva. Tutti con fazzoletto rosso al collo, coccarde tricolori sui risvolti delle giacche. Non capivo come avessero fatto a procurarsele così in fretta. Forse, per italica lungimiranza, le tenevano da tempo nascoste in un cassetto del canterano, sotto le camicie d’orbace e i fez col fiocco usati fino al giorno prima.

    Chiusi gli occhi per non vederla, quella carnevalata. Però ne sentivo lo schiamazzo. Mi venne la nausea, poi un gran capogiro. Avevo la sensazione di cadere lungo disteso da un momento all’altro.

    Per fortuna, quando riaprii gli occhi vidi spalancarsi la porta in fondo alla sala, uscirne Ghibli di corsa. In mano aveva dei fogli di carta e li agitava sopra la testa.

    «Ecco qui, figlioli», disse quando ci fu davanti, «tre lasciapassare che più autorevoli non si può, firmati dal segretario provinciale del ci-elle-enne in persona. Oscar è il solito mago. Ha messo i fogli sotto il naso del tale e quello dice: Ma..., e lui dice: Firma!, e l’altro ha firmato».

    «Perché tre lasciapassare?», chiesi sorpreso.

    «Beh, sai com’è Oscar», disse Ghibli calcandosi il cappellaccio sulla fronte, «ti crede ancora il pulcino di due anni fa, che ha sempre bisogno della chioccia dietro. Così mi ha ordinato di venire anch’io. A me dispiace che ti tratti così, però mica posso mettermi a discutere proprio adesso, che ha mille cose per la testa».

    Dovevo aspettarmelo, questo, da Ghibli. Lui era davvero come un fratello. Non trovavo le parole per ringraziarlo. Lo abbracciai stretto, con un groppo in gola dalla commozione.

    Uscimmo sulla piazza ancora affollata. Ghibli prese deciso sulla destra.

    «Dove vai?», chiesi.

    «Andiamo a prendere il furgoncino Balilla del Podestà. Tanto a lui non serve più».

    Io e Teresa lo guardammo con occhi spalancati dallo stupore.

    «Anche questa è stata un’idea di Oscar?» chiesi ammiccando.

    «Certo. Oscar ha sempre un sacco di belle e buone idee, non trovate, figlioli?».

    • • •

    La macchina del podestà era nella rimessa della sua cascina, chiusa da un portone in legno. Per non chiedere la chiave alla gente di casa, intenti a consolare la vedova e i bambini, Ghibli fece saltare la serratura col calcio del mitra.

    Restammo stupiti nel vedere che il furgoncino non aveva l’impianto a carbonella. Il fatto è che il podestà, in virtù della sua funzione – e anche come gerarca del partito – beneficiava di un’assegnazione mensile di benzina.

    Controllammo il serbatoio. Era pieno a metà e nel cassone, sotto il telo mimetico, trovammo una tanica di carburante. Più che abbastanza per andare a Torino e tornare.

    Dalla casa uscì un vecchio con grandi baffi spioventi. Gli occhi rossi di pianto recente.

    «Non vi basta avergli preso la vita?» disse con voce severa. «Anche la macchina, ora? A quando le bestie nella stalla, e poi tutta la cascina?».

    Ghibli gli si avvicinò togliendosi il cappello.

    «Mi dispiace per vostro figlio», disse a bassa voce, comprensivo, «ma Oscar ed io non c’eravamo quando lo hanno fatto fuori. Se ci fossimo stati l’avremmo impedito, e poi consegnato a un tribunale regolare. In ogni modo, sapete, alla fine sarebbe stato fucilato lo stesso».

    «Si, so che tu e Oscar avreste fatto così», ammise il vecchio, «però intanto mia nuora è rimasta senza marito, e i bambini senza padre. Come spiegarlo a quelle creature?».

    Ghibli allargò le braccia, come dire che non aveva chiamato lui i tedeschi a rastrellare il paese. Per fortuna che era finita, sembrò anche dire, e adesso dovevamo darci tutti una calmata.

    «In quanto alla macchina», disse poi, consegnando al vecchio un foglio con timbri e firme, «ve la riporteremo domani. Se per qualsiasi ragione dovesse andar persa, presentate questa ricevuta all’amministrazione provvisoria del comune. Vi risarciranno in qualche modo».

    Il vecchio prese il foglio, lo accartocciò, lo buttò in terra con rabbia. Ghibli non ci fece caso.

    Disse a noi, che aspettavamo in disparte, imbarazzati, di salire in macchina. Quando ci sedemmo, lui accese il motore.

    Partì sollevando un gran polverone sulla terra battuta dell’aia.

    Cap. II

    Luparia Eusebio, detto Ghibli, aveva preso la patente sotto le armi. Come gli era stato insegnato dal suo severo sergente istruttore, guidava con prudenza e moderata velocità.

    Scelse la strada delle colline, per evitare eventuali convogli tedeschi in ritirata attraverso la pianura. Avrebbe allungato il percorso di qualche chilometro, ma era più sicuro.

    Incappammo in molti posti di blocco partigiani senza mai avere noie. Per darsi un contegno, i patrioti fingevano di controllare i lasciapassare, poi ci lasciavano proseguire gridando viva l’Italia, viva la libertà e sventolando bandiere rosse.

    Poco prima di entrare in Torino fummo fermati l’ennesima volta. Il partigiano di guardia, saputo che eravamo diretti in città, ci disse di aspettare, poi si allontanò di corsa. Tornò con un ufficiale. Dal passo malfermo si capiva che era ubriaco.

    «An-daa-te a To-torino, co-compagni?» disse quello inciampando in ogni sillaba.

    «Questa sarebbe l’intenzione», rispose Ghibli, «soltanto che incontriamo più posti di blocco che pisciatoi. Andando avanti così, a Torino ci arriviamo la prossima settimana».

    «Misura necessaria, co-compagno. Le strade pullulano di bastardi fascisti in fu-fuga».

    «E voi lasciateli andare. Se fuggono significa che non sono più in grado di nuocere», sentenziò Ghibli, con ironia.

    «Tagliamo corto, co-compagno», disse l’altro, risentito, mentre ondeggiava per mantenere l’equilibrio, «consegnate questo all’ufficiale di guardia del primo posto di blocco che incontrerete in città», continuò porgendo a Ghibli un foglietto spiegazzato, con poche righe scritte a lapis, «è l’indirizzo di una troia che dev’essere fucilata».

    Ghibli fissò il partigiano dritto negli occhi.

    «Tua moglie che t’ha messo le corna, compagno?», masticò fra i denti.

    L’ufficiale sostenne lo sguardo con la dignità che gli permetteva la sbronza. Era livido in faccia, arcigno, le mascelle serrate. Sembrava di sentir perfino il digrignare dei denti.

    Istintivamente imbracciai il mitra, ma per fortuna quella faccia cambiò all’improvviso espressione. Le mascelle si scollarono di colpo, scoppiò a ridere. Una risata fragorosa, ottusa, imbecille, più forte del rombo del nostro furgoncino che partiva a tutto gas.

    In fondo al rettilineo mi voltai a guardare. Quello ancora rideva come un idiota, in mezzo alla strada, coi suoi uomini attorno che ridevano anche loro.

    Dopo la prima curva, Ghibli appallottolò il foglio e lo buttò dal finestrino.

    «Quel porco mi ha messo di buonumore, figlioli. Tanto da farmi venir voglia di cantare:

    Forsa Luigi

    forsa Luigi

    forsa Luigi

    caié ’l tranvai

    Canta, Teresa, e anche tu, Vasino. Stiamo andando a un funerale e invece di essere tristi, dobbiamo cantare. Perché il nostro morto è stato fortunato. Lui, almeno, ha finito di farsi rompere le palle dagl’imbecilli, da tutti gl’imbecilli di tutto il mondo. E allora cantiamo:

    Forsa Luigi

    caié ’l tranvaa-ai

    Vasino, Teresa, cantate».

    E Teresa si mise a cantare. Esplose nel canto come risvegliandosi da un incubo durato troppo a lungo, la liberazione da un’angoscia crudele:

    Fermate il tram,

    sposta-aate il tra-aam

    • • •

    Entrammo in Torino senz’altri inconvenienti.

    Sul corso alberato che costeggia il Po c’era una confusione come nemmeno a Carnevale in piazza Vittorio. La folla, accalcata lungo i marciapiedi, applaudiva al passaggio dei camion carichi di patrioti con bandiere rosse e tricolori sventolanti. Barbuti, vestiti di stracci, i patrioti agitavano in aria le armi e cantavano inni della Resistenza. I clacson non smettevano di suonare e la gente andava in delirio.

    Alcune brigate partigiane erano entrate in città il pomeriggio precedente, dopo aver travolto la resistenza delle ultime sparute unità tedesche e repubblichine. I nuovi arrivati non servivano più per combattere, ma per far pulizia.

    E la pulizia, da quanto si vedeva, era già cominciata. A ogni angolo di strada cadaveri crivellati, sangue tutt’attorno. Altri pendevano dai lampioni. La folla continuava ad applaudire, non si capiva se per scherno verso i morti, o per incitare i vivi a insistere con quell’estemporanea epurazione. E forse un po’ per entrambe le cose.

    Poco oltre la Gran Madre di Dio svoltammo in una via traversa, fuori dalla confusione. Chiedemmo a un passante dov’era via Asti, la caserma brigate nere di via Asti.

    La gente la conosceva bene e sapeva cos’avevano fatto i fascisti là dentro. Torture d’ogni genere, tanto che in Torino tutti rabbrividivano al solo sentire il nome di quella strada. Anche il tizio che avevamo interpellato rabbrividì, poi c’indicò il cammino.

    Arrivammo in pochi minuti. Davanti alla caserma facevano la guardia una decina di partigiani armati fino ai denti.

    Dissi a Teresa di aspettare in macchina, ma non ci fu verso. Volle venire anche lei.

    Dopo aver esibito i lasciapassare varcammo la soglia dell’inferno.

    Subito oltre il portone ci fecero entrare in una grande sala piena di gente, perlopiù donne. Quasi tutte piangevano. Chi non lo faceva, si vedeva dagli occhi rossi e dalle occhiaie livide, che avevano esaurito le lacrime da un pezzo.

    Un partigiano spiegò a Ghibli che le poverine cercavano notizie dei loro cari, i disgraziati portati lì dentro mesi addietro e non se n’era saputo più niente. Ma c’erano anche i familiari dei repubblichini capitolati il giorno prima. Madri e mogli di partigiani e di fascisti sedute le une accanto alle altre, unite ormai come sorelle nel dolore e nel pianto.

    «Per loro, le parenti delle brigate nere, c’è una notizia sola», concluse il partigiano, «kaputt, sono stati tutti fucilati quasi subito, gli sporchi bastardi», e sputò in terra con disgusto.

    Teresa mi strinse forte la mano con la sua che tremava. Il viso sempre più simile a quello di una statua, pallido, gli occhi vitrei, senza espressione.

    Ghibli trovò un ufficiale. Gli spiegò chi cercavamo. Quello – per buona sorte – si prestò volentieri ad aiutare i compagni venuti da lontano. Fece qualche domanda in giro, poi entrò con Ghibli in una stanza, a consultare alcuni documenti. Ne uscirono di lì a poco. Sentii l’ufficiale che diceva: «Lo hanno trovato in infermeria mentre medicava dei feriti. Nessuno gli avrebbe sparato, come di norma con quelli della sanità… almeno non prima di sapere di chi si tratti. Ma lui ha voluto fare l’eroe, povero stronzo. Ne ha steso uno con la Beretta e avrebbe continuato, se non gli avessimo scaricato addosso mezza dozzina di mitra. Peccato, perché dopo abbiamo saputo che non era un vero bastardo, anzi aveva perfino rischiato la pelle in più occasioni per frenare quelle sadiche iene dei picchiatori».

    Teresa aveva sentito tutto, eppure non ebbe la minima reazione. Non mi strinse nemmeno più la mano.

    «Lo abbiamo scaricato in Po», continuava l’ufficiale, «insieme a tutti gli altri. Facciamo così per igiene, dato che fra ieri e oggi, con questo macello, non è stato possibile seppellirli come Dio comanda. Nell’acqua, se non altro, i cadaveri si conservano per qualche giorno senza decomporsi e puzzare. Domani vedremo, perché così non può mica durare, non ti sembra, compagno?».

    Ghibli concordò che non poteva durare. Ringraziò e salutò portandosi il pugno sinistro alla spalla. Ci prese sottobraccio, io da una parte e Teresa dall’altra: «Andiamo, figlioli», disse.

    Uscimmo senza una parola in più.

    • • •

    Intanto s’erano fatte le tre del pomeriggio. Un sole tiepido illuminava la via di luce dorata. I partigiani di guardia davanti alla caserma fumavano sonnecchiando, o parlottavano a bassa voce.

    Dall’altra parte della strada, due ragazzetti sui sette otto anni giocavano alla guerra. Avevano entrambi moschetti-giocattolo e a tracolla veri nastri di mitragliatrice con i bossoli vuoti trovati in giro. Uno si defilava dietro il furgoncino Balilla. L’altro nel portone di una casa. Fingevano di spararsi addosso, imitando con la voce gli schioppi dei fucili e dei mitra, bang, bang, ratatatà… L’avevano visto fare il giorno prima, sbirciando l’entrata della caserma dalle finestre di casa. Avevano il musetto serio, tirato, perché sapevano benissimo cosa significava quel gioco.

    Smisero vedendoci avvicinare al furgoncino. Con occhi avidi ammiravano le nostre armi, le armi autentiche che ci pendevano dalle spalle.

    Aprii lo sportello e aiutai Teresa a salire. Improvvisamente mi si afflosciò fra le braccia. Ghibli, tempestivo come sempre, accorse e mi aiutò a collocarla sul sedile della macchina. Era pallidissima, di cera, la fronte imperlata di sudore freddo.

    «Cristo, oh Cristo!», imprecai.

    «Non ti preoccupare, è solo svenuta», disse Ghibli senza perdere la calma. Sfilò di tasca una borraccetta piatta, piena di branda: «Questa la farà rinvenire», disse, «però bevine prima una sorsata anche tu. Te la stai facendo addosso».

    Presi la bottiglietta tremando. Mandai giù un po’ di liquore, che bruciava come il fuoco. Mi sentii subito meglio.

    «Danne a lei, adesso», disse Ghibli, «povera figliola, svenire è il minimo che le potesse capitare. Là dentro è stata un gigante, non so come abbia fatto a resistere. Perfino a me veniva la nausea».

    Versai qualche goccia di branda fra le sue labbra, mentre Ghibli continuava a ripetere: «Adagio, non farle male, adagio».

    L’effetto fu immediato. Teresa sbatté due o tre volte le palpebre. Alla fine spalancò gli occhi. Vedendomi, riuscì anche a sorridere.

    «Dio, che sciocca», disse con un fil di voce, «devo essere svenuta, vero?».

    Le presi una mano e la baciai. Un groppo in gola m’impediva di parlare.

    «Ora mi sento meglio, figlioli», disse facendo il verso a Ghibli, «vogliamo andare o no?».

    Io

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