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Etica e Fair Play: nella Formazione della Prova Orale, nel Processo Penale
Etica e Fair Play: nella Formazione della Prova Orale, nel Processo Penale
Etica e Fair Play: nella Formazione della Prova Orale, nel Processo Penale
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Etica e Fair Play: nella Formazione della Prova Orale, nel Processo Penale

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About this ebook

Ogni meccanismo, per funzionare adeguatamente, esige un armonico contributo da parte di tutti i suoi ingranaggi.

Altrimenti si “grippa”.

Il processo penale non è da meno.

Anzi – dipendendo dal suo funzionamento da un lato la tutela del bene libertà individuale, dall'altro la tutela della società - l’esigenza quanto al fatto che quel contributo sia massimo è di grado superiore a quella che può sentirsi nei riguardi di qualsiasi altro strumento.

Quanto al sistema di giustizia penale italiano lo strumento “codice di procedura penale” che dovrebbe assicurarne il funzionamento può essere perfettibile, ma non sarebbe inadeguato.

Perché, dunque, il sistema dà un così cattivo esempio di sé?

Il lavoro analizza alcune delle cause incentrandosi, da un lato, sulle condotte che, secondo l’Autore, dovrebbero essere ottimali al fine di realizzare – nel processo penale - il conseguimento di prove quanto più oggettive e affidabili possibile e sviluppandosi, da altro lato, lungo l’analisi dei molti difetti presentati dal sistema di giustizia penale a causa di troppi discostamenti, da parte di troppi operatori, in troppe sedi dalle condotte dettate dal codice e comunque ricordate dall'Autore.
LanguageItaliano
Release dateJan 14, 2015
ISBN9786050348729
Etica e Fair Play: nella Formazione della Prova Orale, nel Processo Penale

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    Etica e Fair Play - Domenico Carponi Schittar

    Schittar

    IL LIBRO

    Ogni meccanismo, per funzionare adeguatamente, esige un armonico contributo da parte di tutti i suoi ingranaggi.

    Altrimenti si grippa.

    Il processo penale non è da meno.

    Anzi – dipendendo dal suo funzionamento da un lato la tutela del bene libertà individuale, dall’altro la tutela della società - l’esigenza quanto al fatto che quel contributo sia massimo è di grado superiore a quella che può sentirsi nei riguardi di qualsiasi altro strumento.

    Quanto al sistema di giustizia penale italiano lo strumento "codice di procedura penale" che dovrebbe assicurarne il funzionamento può essere perfettibile, ma non sarebbe inadeguato.

    Perché, dunque, il sistema dà un così cattivo esempio di sé?

    Il lavoro analizza alcune delle cause incentrandosi, da un lato, sulle condotte che, secondo l’Autore, dovrebbero essere ottimali al fine di realizzare – nel processo penale - il conseguimento di prove quanto più oggettive e affidabili possibile e sviluppandosi, da altro lato, lungo l’analisi dei molti difetti presentati dal sistema di giustizia penale a causa di troppi discostamenti, da parte di troppi operatori, in troppe sedi dalle condotte dettate dal codice e comunque ricordate dall’Autore.

    L'AUTORE

    Domenico Carponi Schittar, veneziano, è un avvocato con esperienze di studio e professionali in Italia e all’estero, nonché docente in diversi atenei e scuole di formazione e perfezionamento. Recentemente ha ricevuto l’incarico di contribuire alla formazione di giudici, avvocati, pubblici ministeri e organi di polizia per l’attuazione del processo di stampo accusatorio adottato in Serbia.

    E’ autore di numerose pubblicazioni focalizzate sulle modalità e sulla psicologia di raccolta della prova dichiarativa nell’ambito del processo penale accusatorio, tra le quali:Al di là del ragionevole dubbio (Giuffré , 2008), Il processo come arte (Giuffré, 2007), Il testimone vulnerabile (Giuffré, 2005), Esame e controesame (Giuffré, 2012).

    Collabora a numerose riviste, in particolare nel settore della psicologia forense. E’ attento osservatore dei problemi dell’ascolto del bambino in sede civile e penale nonché delle problematiche connesse con gli abusi sessuali e in particolare con la pedofilia al cui fenomeno ha altresì dedicato alcuni lavori.

    Indice

    IL LIBRO

    L'AUTORE

    Presentazione

    GLOSSARIO

    Capitolo primo: Le premesse di un fallimento: un sistema per l’amministrazione di una giustizia penale etica voluto, incompreso, osteggiato.

    1. Avant propos

    2. Premesse programmatiche

    In sintesi

    Capitolo secondo: Generalità

    1. L’etica della prova calata nell’etica del processo. Quale?

    2. Lo stato della giustizia penale italiana ante 1989 e la tendenza riformatrice

    3. Dove cercare i presupposti operativi.

    4. Il tò déon nel processo.

    In sintesi

    Capitolo terzo: Il pubblico ministero

    1. Fare? Cosa fare? Quando fare?

    2. Quali doveri per la pubblica accusa

    3. Il pubblico ministero tra fare e non fare

    4. Una prima conclusione

    5. Fairness, lealtà, imparzialità

    6. Dubbi sulla salute del sistema

    In sintesi

    Capitolo quarto: La polizia e la polizia giudiziaria.

    1. Generalità.

    2. La polizia, la polizia giudiziaria e l’indiziato

    3. La polizia giudiziaria e la confessione

    4. La polizia e la polizia giudiziaria e la persona informata sui fatti

    In sintesi

    Capitolo quinto: Gli avvocati

    1. Generalità

    2. Etica e gestione del cliente

    3. Prerogative

    4.Uso e abuso delle prerogative

    5. Momento della raccolta degli elementi di prova.

    6. Momento della raccolta degli elementi di prova. Parliamo di indagini difensive.

    7. Momento della raccolta degli elementi di prova. Un discusso colloquio con il testimone.

    8. Il momento della proposizione della prova

    9. La provocazione della prova

    In sintesi

    Capitolo sesto: Il perito, i consulenti, gli investigatori.

    1. Generalità

    2. Il perito.

    3. Il consulente del pubblico ministero.

    4. I consulenti delle parti private.

    5. L’investigatore privato

    6. Una considerazione conclusiva

    In sintesi

    Capitolo settimo: L’indagato–imputato, la parte offesa, il testimone

    1. .

    2.

    3. Testimone

    In sintesi

    Capitolo ottavo: l giudici

    1.Etica della giustizia

    2. Presenze inquietanti.

    3. Lingua, diritto, giustizia.

    4. Il giudice e la prova. Due don’t.

    5. Il giudice e l’assunzione della prova.

    In sintesi

    Presentazione

    Personalmente mi sono convinto, purtroppo, che noi italiani d’oggi siamo il prodotto di un susseguirsi di società per le quali, presi collettivamente,   non si direbbe che l’etica abbia rappresentato uno dei  valori da  collocare ai vertici della scala ad essi relativa.

    Non per nulla Cesare, nell’anno 59 prima della nostra era, se ne uscì con una legge (la lex de repetundis) a mezzo della quale avrebbe avuto l’ambizione di risanare una situazione caratterizzata dai privilegi, dagli stipendi scandalosi, dalle concussioni dell’ordine senatorio, dalla corruzione delle magistrature, dalle delazioni, dal commercio di voti, e così via; …ossia da un elenco di misfatti che riecheggia le letture dei quotidiani d’oggi.

    Mi sono anche convinto che il nostro dna si sia formato attraverso i condizionamenti concretati ad un livello della società dallo sforzo (attuato attraverso millenni, di padre in figlio e fino a noi)  di acquisire e conservare il potere o i beni o entrambi – e ciò chiunque fosse  ai comandi: signori italiani, imperatori tedeschi, sultani arabi, principi francesi, re spagnoli, papi corrotti -  e ad un livello sociale meno favorito dallo sforzo di sopravvivere adattandosi, piegandosi, blandendo, simulando, tradendo, denunciando. E questo essendo il tutto  giustificato alla fin fine,  per i potenti come per i miserabili, sotto profili evidentemente diversi e per lo più contrapposti, da un mors tua vita mea.

    Conseguentemente credo che non possiamo considerarci un prodotto naturalmente intriso di etica.

    Forse qualcuno ha davvero creduto nell’avvento di una stagione di rinnovamento sociale della quale hanno illuso prima l’unificazione risorgimentale, poi – attraversate le spaventose e devastanti esperienze di due guerre – la rinascita in una condizione di pace e di libertà che dura (cosa mai avvenuta) da settant’anni; e poi, chissà, anche da pararivoluzioni  dallo stampo fasullo di tangentopoli…..

    ….E invece siamo sempre e ancora al 59 avanti Cristo: l’illegalità è dilagante e le norme epigoni della legge cesariana sono come le ipocrite grida del Manzoni essendo sotto gli occhi di chiunque che – come ha scritto Roberto Esposito ne La prevalenza dell’etica in La Repubblica del 4.6.2012 - "l’etica pubblica e privata affondano sotto il peso di una corruzione ormai insostenibile"  mentre la "politica diventa un collettore di interessi privati" … e i custodi della legge alimentano la confusione.

    L’autore citato vede nella filosofia un contrappeso tendente ad "assumere un ruolo di supplenza a fronte di questo decadimento".

    Io mi chiedo se un modesto ma più concreto contributo nella stessa direzione potrebbe essere fornito  dallo scoprire finalmente, nell’ambito del processo – fenomeno destinato a spendere quotidiane influenze sul contesto sociale e (ma questo è contestato) sulla sua educazione – l’etica  ad esso sottostante che ne accomuna necessariamente tutti gli operatori nonostante la differenziazione delle funzioni.

    Scopertala, e compresone il comune denominatore,  forse potrebbe prendere le mosse proprio dal processo, o quanto meno anche da esso, un’efficace spinta alla rinascita sociale.

    Convinto che così sia mi sono dedicato a questo lavoro, commissionatomi dal mio tradizionale editore, finendo per produrre un testo che però mi è stato restituito e non sarà pubblicato  date le sensibilità che  è destinato a urtare per le     amare constatazioni che svolge a trecentosessanta gradi in ordine all’agire di quanti operano in sede giudiziaria e dunque per le critiche al sistema della giustizia penale che esse esplicitano più che implicare.

    Un sistema che sembra  segnato – come ha scritto recentemente Piero Ostellino (Tra Etica e Diritto, in Corriere della Sera 10.3.2014) – da "una concezione della Giustizia che si vorrebbe (iper)democratica ed è invece solo molto approssimativa e ben poco garantista. Con l’effetto di far scambiare per quella che emerge dalle sentenze dei tribunali  (ibidem)  e nel contempo con l’effetto di produrre una contrapposizione tra una magistratura presentata come serena e ideologicamente neutra (ma i miei lettori constateranno che le mie critiche non sono limitate a quella) - in quanto mutuata sia dalla definizione teorica del magistrato sia, per autocertificazione, da parte della stessa magistratura - e chi ne critichi le sentenze" (ivi).

    Se nel 1988 un autorevole giurista inglese (David P. Pannick) scriveva che "non è da meravigliarsi se l’ordine giudiziario, composto quasi interamente da ex avvocati, manchi di  conoscenza ed esperienza quanto alla più parte dei problemi che caratterizzano le esistenze  della gente che entra in una corte  come parte o come testimone, cosa può dirsi da noi dove la separatezza dei componenti la magistratura" dai problemi quotidiani di ogni altro mortale comincia dalle scuole elementari?

    Ostellino continua, "se non ci si mette in testa il semplice postulato che dubitare della giustezza di una sentenza è simbolo di civiltà, la credibilità del nostro sistema giudiziario sarà sempre debole e l’Italia non sarà mai un paese civile" (ivi).

    E’ per dare voce al mio personale sconcerto che, mancata la pubblicazione tradizionale del mio lavoro,   adotto il percorso della pubblicazione virtuale  per  divulgare, in particolare a quanti dei lettori delle mie precedenti opere avranno interesse a leggerlo, quello che, data anche la mia età, considero un viatico. Ossia un messaggio che ha l’aspirazione  di costituire – anche a mezzo dell’indicazione delle magagne che affliggono il sistema giustizia - uno strumento che quanto meno suggerisca una via verso la realizzazione, attraverso il processo, di un novus ordo  utile a farci progredire.

    Domenico Carponi Schittar, avvocato in Venezia 

    In memoria di mia madre (che cercò di apprendermi l’onestà), di mio padre (che morendo per questo Paese mi instillò il senso dell’onore), del mio padre adottivo (che con l’esempio mi instillò quello del dovere), dedico questo libro a quanti vorrebbero trovare tutti questi valori nella nostra giustizia.

    GLOSSARIO

    ¹

    Beati coloro che hanno sete di giustizia. Sennonché la giustizia non ha nulla a che fare con la legge. Sono due sorellastre, figlie di due padri, che si sputano in viso, si trattano da bastarde e vivono col coltello alla mano mentre la gente onesta, minacciata dai gendarmi, si avvelena il sangue attendendo che esse si mettano d’accordo

    Marie Bashkirtseff

    Azione morale: è intesa qui nel senso kantiano di l'azione compiuta con una coscienza di aver agito conformemente al dovere. Moralità e dovere sono concetti coincidenti.

    Azione legale: è intesa qui nel senso kantiano di azione compiuta per il rispetto della legge. Ossia l’accordo di un'azione alla legge senza riguardo al movente dell'azione. Pertanto moralità e dovere coincidono.

    Deontologia: oggi non è intesa nel significato attribuito da J.Bentham a questo termine da lui coniato. Può essere intesa in quello assunto da Rosmini in poi di disciplina che si occupa del dover essere; ossia di quelle cose su cui l’uomo ha il potere di intervenire, delle realtà che l’individuo ha la capacità e il potere di adeguare a quello che devono essere ("se rispetto alla maggior parte delle cose non possiamo nulla più che vedere semplicemente come esse dovrebbero essere ed operare, rispetto ad alcune poche abbiamo un potere maggiore: quello di renderle tali quali sappiamo che devono essere. Queste poche cose che rientrano nella sfera del nostro potere sono le nostre proprie azioni, dal cui buon moderamento discende la nostra perfezione"². In questo testo è letta anche – negativamente – nel significato attribuitole da Régis Debray³ di "una morale che tende a diventare diritto".

    Dikaiologia: normativa morale bipolare i cui principi riposano sul diritto e sulla giustizia.

    Dovere: è intesa qui come l'azione conforme ad un ordine razionale o ad una norma.

    Etica: è intesa qui come (i) scienza del fine cui la condotta degli uomini deve essere indirizzata e dei mezzi per raggiungere tale fine, e al tempo stesso come scienza del movente della condotta umana che cerca di determinare tale movente in vista di dirigere o disciplinare la condotta stessa.

    Eticità: è intesa qui nel senso hegeliano di realizzazione del bene in istituzioni storiche che lo garantiscono.

    Morale (aggettivo): è inteso come (i) ciò che è attinente alla dottrina etica, ovvero anche come (ii) ciò che è attinente alla condotta e quindi suscettibile di valutazione.

    Morale (Sostantivo): è inteso qui come sinonimo di etica, e anche come condotta disciplinata o diretta da norme (ossia l'oggetto dell'etica).

    Morale bipolare: dovere di condotta scaturente da un rapporto che rende non morale violare le legittime aspettative della condotta stessa.

    Moralità: è intesa qui come carattere proprio di tutto ciò e si conforma alle norme morali, tenendo conto del fatto che per Hegel moralità è la volontà soggettiva individuale e privata del bene e che per Kant la moralità consiste nell'assumere l'idea stessa del dovere come movente dell'azione.

    Olismo: (in questo lavoro) teoria per la quale un presupposto può costituire una regola guida per la condotta in un caso e un’altra o nessuna regola in un altro caso.

    Capitolo primo: Le premesse di un fallimento: un sistema per l’amministrazione di una giustizia penale etica voluto, incompreso, osteggiato.

    La libertà sta nei cuori degli uomini e delle donne; quando muore là, nessuna costituzione, legge o tribunale può salvarla. Ma nessuna costituzione, legge o tribunale può neppure aiutarla.

    Giudice Learned Hand

    Le regole attinenti la morale e l’etica costituirebbero, secondo alcuni, obbligazioni bipolari, poiché i comportamenti sono richiesti al singolo in quanto dovuti ad un altro individuo o ad una collettività. Allontanandosi dalla concezione olistica, nel sistema giustizia gli operatori dovrebbero comprendere la natura delle condotte dovute e adeguarsi quindi a ciò. La difficoltà a far questo in Italia nasce anche dal non aver ancora accettato del tutto lo stampo di natura accusatoria del nuovo codice.

    1. Avant propos

    Non sono un filosofo. Non sono un sociologo.

    Sono un avvocato da ormai cinquant’anni che cerca di orientarsi nei meandri delle tesi di costoro.

    Tesi che mi confondono – forse non soltanto me – quando si diffondono sull’etica che non è morale ma anche lo è; sulla morale che è unitaria ma convive con più moralità; sulla moralità che può essere deontologia ma che può essere anche qualcosa di assai diverso da essa.

    Allo stesso modo mi confondono i singolari percorsi seguiti anche in casa nostra – ossia nel nostro habitat giudiziario - per trascorrere dalle categorie astratte alle loro attuazioni concrete; percorsi che – forse a causa della mia insensibilità o forse a causa del loro criptico linguaggio – talora mi paiono letteralmente inventati.

    Ad esempio, parlando delle indagini difensive, sono state elaborate delle "regole di comportamento"⁴ che vengono definite "norme deontologiche applicabili"⁵, …. Ma, dico a me stesso, come possono essere tali?

    Il percorso naturale delle norme di carattere deontologico è dato dal diffondersi di modi operativi generali ("quello che fanno tutti) o esemplari (quello che si riconosce essere fatto dai migliori) che, consolidandosi nel tempo, divengono usi che dapprima, e a lungo, fanno soltanto sentire stonate" le condotte che vi si discostano.

    Come si fa – prima che una pratica (sviluppatasi adeguatamente ai principi normativi espressi o impliciti nel sistema) si sia consolidata in usi condivisi – a elaborare regole deontologiche su aspetti completamente nuovi di professioni antiche che immettono nelle stesse esigenze operative prima inconsuete che, tra l’altro, partecipano anche di altre professioni o competenze (nella specie quelle dell’investigatore e quelle dello psicologo)?

    Nel disorientamento nel quale persisto nel versare mi è tuttavia risultato chiaro, ed è da me condiviso, un concetto che riprendo qui, e riecheggerà poi in questo lavoro, perché attribuisco allo stesso di avermi consentito di comprendere finalmente la ragione di quello che mi appare come il fallimento – non da ora, ma che forse ora viviamo più intensamente – del nostro sistema di giustizia in generale e di quello penale in particolare.

    Cerco di ripercorrere, ad uso dei lettori, il cammino che ho compiuto io stesso per giungere alle mie pessimistiche conclusioni.

    La morale – sia essa l’ordine che viene dal nostro èthos o da Dio, ovvero il potere condizionante dei mores e delle consuetudini, o anche un’esoimposizione normativa o che altro – è quel qualcosa che ci fa sentire che un determinato comportamento è "dovuto".

    Per i fini limitati di questo scritto non importa se abbiano ragione Pufendorf⁶, e sulla sua scia Stuart Mill⁷, per i quali l’aver agito male, avendo violato un imperativo legittimo (che per costoro viene da Dio, ma ognuno ha interiorizzato), comporta come conseguenza un senso doloroso dovuto all’autorimprovero che fa sentire colpevoli⁸; oppure se sia nel giusto chi⁹ ritiene che il soggetto che agisce moralmente deve essere in grado di farlo in forza di una motivazione intima ad agire come sente di dovere, indipendentemente dal desiderio o dall’interesse di evitare la sanzione.¹⁰

    Quello che importa qui è che, in ogni caso, il dovere ha un fondamento relazionale. Lo ha anche quando – grazie alla capacità dell’uomo di fare astrazione – potrebbe sembrare che quel dovere non sia dovuto a qualcuno in particolare¹¹.

    E cioè la morale sottintende un rapporto obbligatorio tra almeno due soggetti (persone o enti: un individuo verso una collettività o viceversa; due individui o due collettività tra loro): uno che è obbligato e un altro verso il quale il primo è obbligato¹² in quanto ciò che è dovuto moralmente è quello che ha una giusta ragione per essere fatto poiché sarebbe moralmente scorretto non farlo.

    Sostanzialmente l’obbligazione – che Stephen Darwall definisce "obbligazione bipolare – è morale in quanto chi non si comporta secondo la stessa viola le legittime aspettative del destinatario della condotta dovuta. Il che implica l’acquisizione di una posizione di autorità", di una sorta di sovrapposizione gerarchica, da parte del soggetto destinatario del comportamento che gli è dovuto proprio in forza di essa.

    Da questa premessa Thompson¹³ ricava una conseguenza che ritengo significativa per quanto attiene alla linea di pensiero da me seguita in questo lavoro. Egli distingue tra una "normativa monadica che sarebbe contenuta nelle norme basate su principi deontologici e una normativa bipolare" che è implicata da quei principi che comportano una "relazione di diritto" tra soggetti (intesi come dianzi specificato).

    Questa normativa bipolare è definita da Thompson dikaiologica¹⁴ per distinguerla da quella deontologica in quanto i suoi principi informatori sono da rinvenire nella sua connessione concettuale con il diritto e con la giustizia.

    Per meglio comprendere questa distinzione attingo la tesi di Thompson dalla seguente illustrazione di cui è autore Stephen Darwall¹⁵:

    "Le categorie deontologiche monadiche caratterizzano il seguente ordine deontologico:

    Invece i principi dikaiologici caratterizzano il seguente ordine:

    Un ordine dikaiologico che stabilisce rapporti di diritto è bipolare per il fatto che i soggetti indicati sub (5) e (7) sono come i due poli opposti di un impianto elettrico" (che posti in parallelo assicurano che le cose funzionano come si deve, mentre toccandosi cortocircuitano il sistema).

    Ne consegue che il soggetto indicato come Y ha il diritto di reclamare il comportamento che gli è dovuto.

    "E’ il potere di alcuno pretendere" – secondo Joel Feinberg¹⁶ – "che conferisce ai doveri il valore morale".

    Sto parlando – o meglio: sto riferendo – di un dovere che non è circoscritto al soggetto Y dell’occasione. Esso si estende alla collettività in forza del fatto che il potere di Y di esigere esiste soltanto se egli abbia, per farlo, un’autorità che divide con altri. Sicché le relazioni sub (5) e (7) sopra delineate vanno lette anche nel senso:

    (5).1. X lede la collettività compiendo A.

    (7).1. La collettività ha verso X il diritto di pretendere che costui non compia A.

    Prima di trarre le conclusioni su queste premesse è indispensabile che da parte mia si stabilisca un’ulteriore pietra d’appoggio.

    Lo faccio prendendo spunto da un articolo di Jonathan Dancy¹⁷ che costituì il momento di avvio di un fecondo confronto sul particolarismo morale sviluppatosi nella individuazione di un "pensiero e giudizio morali che non si rifanno a principi morali" fatti risalire a un concetto generale sulle regole guida che l’autore chiama "olismo".

    L’olismo, secondo Dancy, è la teoria secondo la quale un presupposto può costituire una regola guida per qualcuno in un caso e nessuna regola, o addirittura una regola di segno contrario, in un altro caso.

    L’affermazione – lasciata in termini di astrazione – potrebbe sembrare astrusa.

    Per riscontrare che non lo è nella realtà – per quel che mi interessa: nella nostra realtà – e fugare l’impressione legittimata da quanto scritto fin qui, che il mio discorso non abbia i piedi per terra, vado a trovarne la riprova mettendo in parallelo due decisioni¹⁸ che fanno toccare con mano quanto l’olismo di Dancy sembri a volte calato negli artefici della nostra giurisprudenza:

    Le regole guida sarebbero dunque i presupposti che giocano a favore di una condotta o contro di essa. Sennonché nel quadro suddetto essi potrebbero allo stesso modo stabilire o inficiare le regole medesime incidendo così sugli orientamenti che adotteremmo o che dovremmo adottare senza perciò costituire essi stessi degli indirizzi vincolanti.

    Sulla scorta di queste premesse Dancy giunge a una conclusione ovviamente scettica in ordine al fatto che argomentando entro lo spazio delle regole guida possa tracciarsi una incisiva distinzione tra ciò che è morale e ciò che non lo è.

    Poiché questo scetticismo – che mi figuro sia provocatorio – è decisamente non costruttivo, il mio scritto si atterrà al presupposto che l’olismo sia un fenomeno negativo e che le obbligazioni morali consistano in quello che gli individui sono tenuti a compiere

    … Consapevolezza che, però, o si ha o non si ha. Ed ecco dove entra in gioco, per quello che ci riguarda, la cultura del processo, della nostra funzione nel processo, della nostra funzione nella società.

    C’è?

    Si dia il lettore stesso una risposta dopo aver riflettuto – è solo un esempio – su un recente celebrato (soprattutto dai media, coi media e per i media) processo, ponendo in parallelo

    Ed eccomi giunto alle mie conclusioni.

    Il sistema di giustizia nel quale siamo calati (sia operandovi attivamente che subendolo come cittadini) ha fallito perché si sono affievoliti, se non addirittura sono venuti meno – ammesso che siano prima sussistiti – due capisaldi fondamentali dell’agire nel suo ambito:

    con la conseguenza che nell’ambito di tale sistema – riprendo il discorso di Thompson (vedi addietro i punti da 1 a 7) sposandolo a quello di Dancy – a nostro modo siamo tutti olistici.

    Lo siamo perché

    … ed evidentemente non è tutto.

    Il "ciò non sempre avviene" comporta – anche se ci attenessimo al principio inadimplenti non est adimplendum – che i sinallagmi sono saltati.

    Ossia: le obbligazioni non hanno più reciprocità.

    E cioè la morale bipolare è venuta meno, sicché ognuno opera a modo suo – nel bene e nel male – indifferente al fatto che ogni condotta e tutte le condotte fanno convergere i loro effetti su una sola categoria di ordine superiore ledendola: la Giustizia con la g maiuscola. Con la conseguenza che quella A che dovrebbe non essere compiuta ricorre invece con una frequenza tale da apparire talora una costante.

    Le pronunce giudiziali – fino al livello di chi incarnerebbe il diritto vivente e dovrebbe fare opera di omogeneizzazione – sono caratterizzate da una variabilità che sfocia in una ondivaga incertezza del diritto anche là dove la lettera del legislatore è chiara e comprensibilissima.

    Gli amministrati – presunti innocenti e spesso tali – sono assoggettati a processi interminabili (contro ogni principio morale e dettato costituzionale o convenzionale) che sovente sarebbero evitati se non restassero variamente disapplicati – sempre, peraltro, sulla base di giustificazioni argomentate ineccepibilmente – principi informatori del codice di rito, … inclusi addirittura quelli che vi sono esplicitati inequivocamente e inequivocabilmente (vedi, a titolo di esempio, quelli portati negli articoli 129, 358, 425 del codice di rito e nell’articolo 125 delle disposizioni di attuazione)

    Gli avvocati fanno talora i Brunetto Latini della situazione predicando bene, al pari degli altri, e quando convenga razzolando male.

    Insomma alla fin fine se uno è morale verso l’altro, lo è soltanto di suo dal momento che presi invece nell’insieme i membri del sistema, non sentendosi bipolarmente obbligati, non alimentano il dovere alla reciprocità delle condotte. Conseguentemente, non osservando quelle che li vincolerebbero, sostanzialmente non hanno sempre o non hanno tutti – quanto meno sotto il profilo morale – la legittimazione a pretenderne il rispetto dagli altri.

    Si direbbe che questa conclusione finisca per coincidere – però per necessità, non per aspirazione – con il primo dei 50 dettati di David Hoffmann²²: "Io sono deciso a fare della mia coscienza – e non di quella altrui – la mia sola guida", il che ci riduce tutti alla condizione di cani sciolti laddove, per me, il sistema giustizia è invece paragonabile a una slitta per la cui conduzione necessiterebbe una muta di cani indispensabilmente ben affiatata.

    Resta, volendo, da risolvere il problema identico – in tema di disastri dalle immani conseguenze – a quello che ad esatti novantanove anni di distanza dallo scoppio della prima guerra mondiale è ancora senza risposta: "chi o cosa abbia innescato per primo questa corsa allo sfascio".

    Può essere che si tratti semplicemente di una difesa naturale. Secondo Freud, infatti, "l’esperienza insegna che per la maggior parte degli uomini vi è un limite al di là del quale la loro costituzione non può adeguarsi alla richiesta della civiltà. Tutti coloro che vogliono essere più nobili di quanto la loro costituzione non permetta soccombono alla nevrosi; sarebbero tutti più sani se fosse stato loro possibile essere peggiori"²³.

    Scrivendo sulla prova dichiarativa credo che sarò in grado di rendere conto della fondatezza del mio pessimismo quanto al frammento del fenomeno procedimento–processo preso in considerazione nel testo,… e anche del mio ottimismo quanto meno in ordine al fatto che sia raro che tra noi – operatori nel processo stesso – si soccomba alla nevrosi per l’eccessivo porci problemi di condotta.

    2. Premesse programmatiche

    2.1. Mi sento obbligato a premettere alcune considerazioni a quanto esporrò nel seguente lavoro.

    Troppe esperienze dirette e troppe letture – giurisprudenza, dottrina, carte dei doveri, ricette sul da farsi – mi lasciano convinto che, pur dopo ben venticinque anni dall’adozione del sistema accusatorio, si continui ad equivocarlo e a disapplicarlo per non aver cercato – o addirittura per non essersi (deliberatamente) sforzati a cercare – di penetrarne (adeguandovi l’operare) alcuni presupposti condizionanti che, nella mia arroganza intellettuale, mi figuro di aver compreso io.

    Quanto scriverò non intende sostenere che il sistema accusatorio costituisca il Sistema per eccellenza per l’amministrazione della giustizia penale. Tuttavia al tempo stesso affermo, invece, che mi par dovuto all’aver sin qui fatto astrazione da quei presupposti se il nostro attuale processo penale sia posto sostanzialmente nelle condizioni di non funzionare sebbene il suo impianto abbia notevoli meriti.

    Che non sia il sistema per eccellenza, o non lo sia ritenuto da tutti, è provato dal leggere voci straniere attribuibili sia all’uomo della strada²⁴ ma anche a sedi più autorevoli rispetto alla strada²⁵ che da tempo (prima ancora che noi adottassimo il nuovo codice) andavano sostenendo che "poiché il nostro processo penale fallisce la realizzazione delle proprie funzioni, la giustizia penale è negata". Sicché, procedendo controcorrente rispetto a noi, si guardava a un avvicinamento alle procedure continentali europee – e in particolare a quella francese.

    In sostanza proprio in quella che grazie a film, telefilm e romanzi appare oggi come la terra accusatoria per eccellenza – gli USA - si andava guardando al sistema inquisitorio per sondare se ci fosse un metodo migliore di quello in uso per i fini di produrre una attendibile giustizia.

    Osservazione attenta, nella medesima direzione, fatta anche proprio nella culla del sistema, ossia da parte del mondo giuridico inglese²⁶; … sebbene meno pessimisticamente, forse grazie al fatto che quel paese non condivide appieno i difetti e gli scompensi della società e delle istituzioni americane i cui nobili ideali e intendimenti si direbbe svaporino con la rapidità della nebbia al sole una volta posti alla prova dei fatti…. E non solo in materia di Giustizia.

    Peraltro, forse quelle attente riflessioni sarebbero giunte a conclusioni diverse se chi ci si dedicò avesse vissuto dall’interno le storture presentate in concreto – quanto meno da noi – da un processo il cui "dibattimento era una formalità destinata a fissare un esito già ampiamente segnato dalle carte dell’accusa durante la fase istruttoria" ……Non è un prevenuto pensiero mio. Sono le parole con cui un giudice italiano ha bollato il processo inquisitorio nel quale operava²⁷.

    Sennonché la scontentezza per il sistema – ragionevole o infondata che sia (forse chi si duole del proprio dovrebbe, ripeto, aver sperimentato il sistema inquisitorio quale lo abbiamo conosciuto noi prima di pensare di proporlo quale modello) – può solo comportare la conseguenza che un legislatore lo prenda in mano e, bilanciati meriti con demeriti, lo confermi, lo modifichi o lo aggiusti… Ma resta il fatto che finché questo sistema regge – e, dunque, mi calo nella situazione che ci riguarda direttamente: finché avremo un codice di procedura dall’impronta accusatoria – esso

    Il ripetuto non adeguarsi a tali regole – oltre a non essere leale né morale – ha comportato che²⁸ "partiti con l'ambizioso progetto di elaborare una via italiana al processo accusatorio, ci ritroviamo mestamente (...) con un processo farcito di compromessi, antinomie, pasticci, incongruenze, ambiguità. Si può dire che il codice di procedura penale nell'attuale versione ha il più grave dei difetti che può avere un codice: non ha un'idea guida che lo vivifichi (...). Per questo, penso, si dovrebbe essere tutti d'accordo che si tratta di un sistema scompensato, in instabile e precario equilibrio, (...) mai andato a regime. Lo hanno impedito, tra le altre cause, l'impreparazione organizzativa, strutturale, e culturale".²⁹

    Purtroppo sembra a me che nel nostro carattere sia profondamente diffuso l’uso – siamo o non siamo gli eredi dei fondatori del diritto? – del farci belli a parole e d’essere pronti a sederci in prima fila per far buona figura, salvo poi...

    Chi ci obbligava, ad esempio, a introdurre la regola del "al di là di ogni ragionevole dubbio"³⁰ (evidentemente obbiettivizzato) quando poi – andando al concreto – leggiamo dei veri equilibrismi tra l’esegetici e l’epistemologici per minimizzarla sostenendo l’equivalenza della formula con le ragioni del proscioglimento ex art. 530.2 sicché essa avrebbe carattere descrittivo più che sostanziale³¹ e per far quadrare questo nobile e rigorosissimo principio con la prova sufficiente a convalidare l’intime conviction du juge che caratterizza i giudizi d’oltralpe³²?

    Quando a deflettere da alcuno di quei tre principi o presupposti sono gli avvocati la situazione è biasimevole. Tuttavia, pur essendo essa critica – perché evidentemente zoppica il tavolino a tre gambe (costituite da magistratura, procura, avvocatura) che costituisce il contesto giustizia penale – non per questo si vedrà traboccare il vassoio che ci sta sopra.

    Lo stesso può dirsi, con biasimo un po’ più intenso, se quel claudicare è prodotto dalla condotta delle procure, dal momento che ancora la zoppìa procurerà danni ma saranno rimediabili.

    Il vero problema, i danni irreparabili, si concretano quanto ad essere più corta, di molto, è la terza gamba rappresentata dalla giurisprudenza.

    Talora si direbbe che lo scorciamento sia (o comunque: appare) dovuto a forzature della medesima per allineare la propria lunghezza alla lunghezza della gamba delle procure³³. Altrimenti ciò sembra da ascrivere alla sostituzione del pensiero dell’interprete all’espressione della legge (e dunque alla volontà del legislatore che è – ma, da noi, sovente possiamo soltanto dire che dovrebbe essere – espressione della volontà del popolo)³⁴. Ma può essere o anche soltanto apparire dovuto ad altre ragioni sulle quali non resta agli amministrati se non interrogarsi mestamente³⁵

    Volendo dare subito corpo ad affermazioni che potrebbero altrimenti apparire generalizzazioni arbitrarie, invito ad andare a rileggere, imprimendosele in mente, le contraddittorie conclusioni delle due massime che ho riprodotto qualche pagina addietro nell’avant propos a questo lavoro (sulle quali mi soffermerò anche nel seguito) dalle quali ritengo si indurrà la condivisibilità di quanto appena scritto.³⁶

    Non evidenziano la politica dei due pesi e delle due misure?

    Se la prima decisione fosse corretta, la seconda non parrebbe – e tanto basterebbe a renderla inopportuna – una vera e propria escogitazione strumentale a una determinata presa di posizione?

    Non siamo di fronte a una prova concreta dell’esercizio di un potere che, all’occorrenza, se lo voglia, può ( = ha il potere di) far quadrare il cerchio nella direzione prescelta nel momento?

    Non è questo l’olismo di Dancy?

    In questo libro, concentrandomi sul tò deòn quale emerge dal codice, non saprò trattenermi dall’evidenziare

    (a) quante volte, secondo il mio modo di vedere, esso sia disapplicato e

    (b) quante volte la lettura della legge possa non apparire falsata solo nell’ambito di una nomomachia condotta sul terreno della pretesa

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