Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Quasi Donna
Quasi Donna
Quasi Donna
Ebook258 pages3 hours

Quasi Donna

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Nina è una giovane ragazza che ha alle spalle una situazione famigliare complicata.

Un padre che pensa più a ubriacarsi e andare a donne piuttosto che a lavorare. Una sera, i padre, decide di non rientrare e così quella dopo, per poi, abbandonare definitivamente la famiglia.

Una madre che crede di essere sempre in credito con tutti, con idee rigide riguardo al futuro dei figli, e che vuol governare una barca che fa acqua da tutte le parti, senza esserne cosciente.

Il fratello grande che prende il posto del padre appena lui sparisce di casa, con il permesso della madre e inizia subito a tiranneggiare lei e il fratello piccolo, timido e introverso.

Lei si sente mancare il respiro in una situazione del genere.

Un giorno, per svagarsi, decide di evadere dalla città in cui vive e prender un treno per recarsi a Pisa e poter così passare qualche ora spensierata.

Passeggiando per le vie del centro storico, nota un cartello sulla porta di un bar; un’offerta di lavoro. Lei la prende come un soccorso da parte del destino, entra nel bar, parla con il proprietario ed è subito assunta.

A quel punto decide di andare oltre e trovarsi addirittura una stanza in città, dove abitare e dare un taglio, anche se non definitivo, con la sua famiglia.

Il padre, quando ancora viveva con loro, le aveva regalato un giorno, di nascosto dai fratelli, una macchina fotografica. Lei sorpresa per il regalo inatteso, subito, la nasconde nell’armadio, non sapendo bene che cosa farci, ma poi diventerà un oggetto estremamente importante per il suo futuro.

Punterà tutto su quell’oggetto, vuole fermamente diventare fotografa.

Andata via di casa inizia la sua nuova vita, la sua crescita, di giovane ragazza ancora acerba. Un giorno conosce un ragazzo cinese, da prima le sembra una conoscenza inutile e fastidiosa, poi invece, dopo un piccolo evento di erotismo, tra loro, decide di chiedergli di diventare il suo modello.

In seguito scoprono che nonostante la diversità di costumi e di razza, hanno una cosa in comune, che li farà diventare amici, la solitudine.

In tutto il romanzo è presente il difficile rapporto che ha con la famiglia; lei combatterà con tutta se stessa, per poter fargli capire la propria voglia di libertà.

Grazie alla fotografia, al voler inseguire i suoi sogni e ai suoi conflitti con la madre, nel cercare di farle capire le sue scelte, crescere, matura e riesce alla fine, a tagliare quel cordone ombelicale che ancora la lega alla madre.

Nel romanzo ci sono alcune parti di erotismo. Quell’erotismo che vive una giovane in crescita.
LanguageItaliano
Release dateApr 27, 2015
ISBN9786050375022
Quasi Donna

Related to Quasi Donna

Related ebooks

Fantasy For You

View More

Related articles

Reviews for Quasi Donna

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Quasi Donna - Diego Piccaluga

    Introduzione

    Introduzione

    Nina è una ragazza che ha alle spalle una situazione familiare complicata. Ha un padre che pensa più a ubriacarsi e andare a donne che a lavorare. Una sera, il padre decide di non rientrare a casa e così farà la sera dopo e così via, per poi abbandonare definitivamente la famiglia. Nina ha una madre che crede di essere sempre in credito con tutti e con tutto. Vuole imporre le proprie idee ai figli riguardo al loro futuro. Vuol governare una barca che fa acqua da tutte le parti, senza essere cosciente che sta affondando. Il fratello grande di Nina occupa il posto del padre, appena lui sparisce di casa, con il permesso della madre e inizia subito a tiranneggiare lei e il fratello piccolo, timido e introverso.

    Nina si sente mancare il respiro in una situazione del genere.

    Un giorno, per svagarsi, decide di prendere un treno e mettere qualche chilometro tra sé e i suoi problemi, la sua famiglia. Va a Pisa. Passeggiando per le vie del centro storico, nota un cartello sulla porta di un bar, un’offerta di lavoro. La prende come un soccorso da parte del destino. Entra nel bar, parla con il proprietario ed è subito assunta. Le sembra di volare, afferra tutto il coraggio che trova dentro di sé e decide di andare oltre, vuole trovarsi addirittura una stanza dove abitare e poter così dare un taglio, anche se non definitivo, con la sua famiglia.

    Il padre, quando ancora viveva con loro le aveva regalato, di nascosto dai fratelli, una macchina fotografica. Nina rimase talmente sorpresa per quel regalo così inatteso che decise di nasconderlo nell’armadio, non sapendo al momento cosa farci. In seguito, diventerà un oggetto estremamente importante per il suo futuro. Punterà tutto su quell’oggetto; prorompente verrà fuori la sua volontà di diventare fotografa.

    Dopo aver lasciato la casa materna inizia la sua nuova vita, la sua crescita.

    Un giorno conosce un ragazzo cinese. Dapprima le sembra una conoscenza inutile e fastidiosa, poi invece, dopo un evento particolare tra loro, decide addirittura di farlo diventare il suo modello. In seguito i due scopriranno, nonostante la diversità di costumi e di razza, di avere qualcosa in comune, che poi li farà diventare amici; la solitudine.

    In tutto il romanzo è presente il difficile rapporto che Nina ha con la famiglia. Combatterà con tutta se stessa per far capire alla madre il proprio bisogno di libertà.

    Grazie alla fotografia, al voler inseguire i propri sogni e ai propri conflitti con sé e con la madre, piano piano cresce.

    Diego Piccaluga

    Ero stata a trovare mia madre e i miei due fratelli, nell’incubo di quella casa in cui avevo vissuto sino a qualche tempo fa.

    Mio padre se l’era data a gambe da alcuni anni. Ricordo che in casa si vedeva poco, la scusa era il lavoro che lo teneva tante ore occupato. Quando rientrava, ad ora tarda, si sentiva l’odore forte dell’alcol misto al fumo emanato dal suo fiato, dal suo corpo.

    Tutte le volte la mamma, appena lui varcava la soglia di casa, insisteva nell’assalirlo con le solite monotone domande, alle quali riceveva sempre le solite vacue risposte. Ogni volta si perdevano per ore in lunghissime feroci litigate che rimbalzavano sulle pareti delle stanze e si diffondevano per tutta la casa, infilandosi prepotentemente nelle nostre tenere orecchie.

    Mentre Gill, il fratello grande, sembrava inattaccabile da qualsiasi cosa, il fratello più piccolo era paurosamente scosso dai loro litigi e così, ogni volta, s’insinuava tremante nel mio letto per cercare conforto e riparo da quella grandinata di parole che circolavano minacciose nell’aria. Sembrava impossibile sottrarsi a quel turbinio di voci. Per non sentire quelle urla, ci chiudevamo le orecchie con le mani, sino a quando il sonno non prendeva il sopravvento sui nostri gracili corpi.

    La mamma, col passare degli anni, era arrivata a detestarlo, mio padre. Sapeva benissimo la vita che conduceva fuori di casa: lavoro poco, puttane, vino e alcool e sigarette, tanto che il suo alto corpo era divenuto flaccido e con una prominente pancetta. La pelle di un colore malato emanava un odore strano, anche dopo lavata. La cosa peggiore, però, era il suo alito pesante,colpiva, mi colpiva come un pugno, era una tortura stargli vicino, soprattutto perché aveva il maledetto vizio di parlarti a dieci centimetri dal viso; dopo un tentativo forzoso di resistenza, dovevo inventare qualcosa per allontanarmi e cercare aria fresca, mi veniva da vomitare a stargli così vicina, viso a viso.

    Il suo lavoro era nel business, che vuol dire tutto e niente. So solo che la mamma era costretta a cucire sino a tarda notte e a finire in fretta i lavori per portarli ai clienti, per riscuotere e comprarci il necessario. Era tutto un debito e una rincorsa per pagare.

    Noi eravamo poco consapevoli di quello che accadeva veramente tra loro due, ma in compenso sentivamo bene quella cappa pesante che incombeva sulle nostre vite, di giorno e di notte e che non ci faceva vivere sereni.

    Mi sembrava di vivere le mie giornate sempre un po’ con la testa incassata tra le spalle, ero sempre pronta a sopportare un’improvvisa pioggia di parole sputate con cattiveria che ogni volta cadevano come grosse gocce fredde sulle nostre teste.

    Sinceramente non capivo il meccanismo masochista di questo rapporto che li legava. Ero troppo giovane ancora.

    I soli momenti di pace erano quando lui non era in casa. Tutto sembrava assumere un ritmo giusto, noi giocavamo o studiavamo, la mamma cuciva o sbrigava le faccende di casa e poi in un attimo, quando lui tornava, si scatenava il caos, quel precario equilibrio andava distrutto. La mamma, subito, si trasformava alla sua vista e diventava una iena, lo assaliva, lo metteva all’angolo, come fosse in un incontro di pugilato. Lui incassava mite, colpevole, quella scarica di domande, di odio che gonfiava in lei da tutto il giorno o forse da troppo tempo.

    Un rancore che era rimasto a sedimentare in lei per anni, accumulandosi in strati su strati sino a creare una diga, per quel disprezzo che lei cercava con tutte le sue forze di contenere, ma che ad un certo punto della sua vita, sentiva che il crollo sarebbe stato imminente.

    Il forte amore che aveva provato per lui, nel passato, non bastava più, l’odio premendo prepotente aveva fatto cedere la diga e il fiume nero ormai straripava impetuoso e smodato.

    Da lontano a volte osservavo tremando quello sguardo, quegli occhi fuori dalle orbite che aveva mia madre in quei momenti e la testa di mio padre che si piegava lentamente, sempre più, verso il basso; lo sguardo arreso a quella sopportazione, a quei giudizi taglienti.

    Il mio cuore piangeva a vedere quella loro trasformazione. Perché continuavano a stare insieme, mi domandavo.

    Anche se desideravo con tutta me stessa che quei litigi finissero, non avrei mai potuto concepire che uno dei due se ne andasse via per sempre. Erano mio padre e mia madre ed io li volevo entrambi presenti nella mia giornata, nella mia vita.

    Pregavo perché ritornasse quell’amore, quell’armonia del passato ormai troppo lontana, ma il mio desiderio s’infrangeva, ogni volta, che li vedevo scontrarsi.

    Forse, forse io ero la sua preferita, non so. Forse solo gli piaceva farmelo credere, oppure era talmente forte il desiderio di considerazione che a me piaceva crederlo.

    Una sera arrivò con una scatola e di nascosto dai miei due fratelli mi chiamò in camera sua e me la dette, dicendo che mi aveva comprato un regalo, solo per me. Io avevo sempre delle resistenze nel credergli, non riuscivo mai bene a capire se quello che sosteneva era la verità o un’invenzione nata dai fumi dell’alcool nel suo cervello.

    Titubante, presi tra le mani quell’involucro che non sapevo cosa contenesse e timidamente biascicai qualche parola di ringraziamento.

    Camminando a ritroso uscii dalla sua camera e mi diressi subito nella mia. Ero turbata e infastidita da quell’inatteso regalo, invece di esserne contenta, come lo sarebbero tutti i ragazzi della mia età che ricevono un regalo dal proprio padre, io sentivo una specie di prurito addosso, raramente nostro padre ci aveva portato qualcosa che somigliasse a un regalo.

    Appoggiai la scatola sul letto, mi sedetti accanto e rimasi a osservarla. Sopra non recava nessuna dicitura, che aiutasse a capire cosa contenesse. Rimasi a guardarla per un tempo lunghissimo, il mio cervello si era bloccato, non riusciva a comandare nulla alle braccia, alle mani, mi sembrava di essere una statua di marmo.

    Avevo timore ad aprirla, chissà poi perché. Non mi fidavo di mio padre e temevo uno scherzo di cattivo gusto, lo sospettavo di crudeltà mentale.

    Rinvenni dal mio torpore quando sentii che la mamma ci chiamava per la cena.

    Mi alzaidal letto dove ero seduta cercando di staccare gli occhi incollati a quella scatola. Feci un paio di passi in direzione della porta di camera ma poi un attacco di curiosità mi scattò dentro, prorompente, costringendomi a ritornare a sedere sul letto davanti a quella scatola di cartone. La presi in mano e frenetica la aprii.

    Un qualcosa era incartato in una velina bianca, era di un certo peso, tolsi la carta, strappandola per lo più e al mio sguardo sorpreso apparve una macchina fotografica, così bella che la sua vista mi fece battere forte il cuore. Subito dopo mi venne da pensare – chissà dove l’ha presa? –. Non mi venne in mente neppure per un attimo che l’avesse comprata, i soldi solitamente li spendeva per altre cose.

    Me la rigirai un po’ tra le mani, non capivo se ne potevo essere contenta o cosa provavo, forse ero solo colpita dalla curiosità che suscitava in me quell’oggetto nero a me, almeno per ora, indecifrabile.

    Intanto la mamma insisteva a chiamarmi per cenare. Mi alzai da sedere più pacificata. Istintivamente mi venne da nascondere quell’oggetto che mio padre mi aveva regalato, volevo che nessuno lo vedesse.

    Non ne sapevo niente di macchine fotografiche e di come usarle. Mentre la tenevo tra le mani però avvertii immediatamente una bella sensazione, una vibrazione particolare. Era nato subito qualcosa tra noi, sentii nel toccarla un’elettricità, come quando dai la mano a qualcuno e senti una scossa al contatto, come se ci fosse un destino già scritto in quest’incontro.

    Velocemente mi ripresi dalle fantasie e la nascosi nell’armadio e poi andai a cenare.

    Per mesi rimase nascosta e accantonata in un angolo della mia mente. E poi, un giorno, me la ritrovai davanti, aprendo lo sportello di sinistra dell’armadio. Ci guardammo per attimi, silenziosi. Muovendo il busto in avanti, verso di lei, la presi in mano e la nascosi nella borsa, come fosse un qualcosa di proibito, da tenere nascosto, e uscii da casa decisa a saperne di più su quell’oggetto.

    Nel quartiere c’era il negozio di un fotografo.

    Mentre uscita da casa ero risoluta sul da farsi, quando arrivai davanti alla sua vetrina rimasi un po’ incerta se entrare. Cercavo le parole da dirgli. Nella mia mente mi si affollavano idee che all’apparenza sembravano quelle giuste, che però dopo un secondo s’ingarbugliavano, creandomi titubanza. Rimasi un po’ a pensare, poi stanca di questi dialoghi tra me e me, spensi la mente ed entrai nel negozio. Lui mi accolse con un bel sorriso, che servì ad alleggerire notevolmente il mio stato d’animo. Riuscii subito a trovare le parole per dirgli semplicemente che mi avevano regalato una macchina fotografica e non sapevo come usarla.

    La presi dalla borsa e gliela mostrai.

    < E’ un ottima macchina > mi disse guardandola con interesse.

    < Organizzo dei corsi, la sera dopo cena, due volte la settimana, potresti partecipare per imparare a fotografare con questa macchina >.

    Mi sentii salire dallo stomaco un senso di smarrimento e balbettando gli dissi:

    < Non posso uscire la sera… > e poi mi afflosciai come un sacco vuoto.

    Lui mi guardò per qualche secondo in silenzio e poi mi disse:

    < Bene, allora potresti venire dopo pranzo, vorrà dire che due pomeriggi la settimana aprirò mezzora prima, così ti farò il corso solo per te, allo stesso prezzo di quello che tengo la sera… ti va bene? >.

    Feci un salto di gioia, lo guardai con gratitudine, spalancando gli occhi, avrei voluto abbracciarlo forte.

    Frequentai quel negozio anche dopo la fine del corso, per dei mesi, lui era sempre prodigo nel darmi suggerimenti e consigli che nel tempo, mi fecero crescere stilisticamente. Nacque un bel rapporto di simpatia, per cui ogni volta che avevo qualche dubbio, andavo a trovarlo e lui con pazienza mi spiegava il da farsi.

    Intanto le cose in casa sembravano procedere come fossero fatte in fotocopia, giorni tutti stancamente uguali.

    Una sera però lui, mio padre, non rientrò, e poi un’altra e ancora. Non riuscivo a capire e a fare a nessuno quella domanda che mi nasceva quando mi guardavo negli occhi allo specchio, perché? Dov’è lui?

    La mamma non protestò mai, non si allarmò mai, non si agitò mai, come sarebbe stato comprensibile succedesse per qualsiasi donna che non avesse visto più ritornare a casa il marito e non ne avesse saputo più nulla.

    Si chiuse a riccio in un silenzio impenetrabile, come si fosse creata un guscio intorno. Passava ore e ore a cucire, raccolta in se stessa, incassata nella sua poltrona, muovendo solo le mani con quei gesti sempre uguali, che davano l’impressione di un mantra.

    Era tanto se si alzava per organizzare un pranzo o una cena, con quelle poche cose che compravamo noi, un po’ a caso, o con quello che ci portavano i vicini, consci delle nostre difficoltà e dello smarrimento di nostra madre, proprio per non farci soffrire la fame.

    La mamma era assente, c’era un alone che si era creato intorno a lei non visibile ma ben percepibile e che si espandeva sempre più, risultando impossibile per noi ogni contatto con lei. Non usciva in pratica più, era persa nelle stanze buie della sua mente, nei suoi pensieri di dolore che ne immobilizzavano il più del corpo e ne devastavano il suo interno corrodendolo piano piano.

    Mi sembrava strano, guardandola, che ancora in lei esistesse il concetto di avere dei figli da allevare.

    Da parte nostra, cercavamo di essere il più invisibili possibile.

    La stanza in cui passava la maggior parte del suo tempo era diventata un tempio inviolabile. Il silenzio più pesante, regnava in casa. La luce che di giorno filtrava dalle persiane, che lei si ostinava a tenere chiuse, era poca.

    Mentre lei, silenziosamente elaborava il suo lutto, a me sembrava di vivere in una tomba. Lo percepivo dall’odore dell’aria, che via via, sapeva sempre più di chiuso, dall’umidità stagnante che invadeva le mie narici. La morte, sotto forma di ombre cupe, sembrava vagare frastornata per le stanze della nostra casa.

    La sera il clima rimaneva pressoché uguale, con quelle lampadine smorte che davano, come sempre del resto, l’impressione delle luci della strada, nelle notti d’inverno, quando la nebbia è fitta, e la luce si vede fioca; mi salivano piccoli brividi su per la schiena umida di sudore freddo.

    Nonostante quel rodersi dentro, lei non si dannò neanche un secondo nel cercarlo, mio padre. Accettò il fatto come un condannato, a testa bassa, accetta la sentenza per l’espiazione della sua colpa. Senza dire nulla, tacitamente ci intendemmo che era meglio così, che il babbo fosse uscito dalla nostra famiglia. Che non esistesse più. Per tutti noi.

    Io, la notte, abbracciata al fratellino piccolo, piangevo lacrime disperatamente, silenziose e asciutte. Era soprattutto la notte che sentivo la sua mancanza. L’assenza di quelle urla, tra lui e la mamma, che da una parte mi devastavano il petto, dall’altra mi davano la sicurezza che lui c’era ancora, che era tornato, che era presente nelle nostre vite, che comunque eravamo una famiglia.

    Per un po’ una parvenza di pace aleggiò nella casa. Si manifestava sotto forma di silenzi e di rumori trattenuti. Soprattutto da parte di noi figli che non osavamo dire nulla alla mamma, che sembrava ingoiare veleno a ogni ago che infilava nella stoffa, come se si trattasse invece del corpo di lui, come se ogni cosa che cuciva fosse una bambola woodoo.

    Io non riuscivo più guardarla negli occhie questo mi procurava un dolore tale che mi faceva perdere l’equilibrio. Malgrado non fosse stata colpa mia, che mio padre se ne era andato di casa, sentivo un fastidio inchiodato in un angolo della mia testa, nella mente, un senso di colpa assurdo che mi faceva stare a disagio, quando ero in casa.

    Gill, il fratello più grande, sembrava essere staccato da tutto questo. Evitava di entrare nelle situazioni di famiglia, come si evitano gli ostacoli che ci vengono incontro, gli bastava un leggero movimento della spalla per scansarli, senza affannarsi. Sembrava vivesse in un mondo tutto suo. Papà era il suo maestro, il suo eroe, lo si leggeva nei suoi occhi di bastardo, cosi cresceva giorno dopo giorno.

    La mamma, non ho mai capito perché lo amasse tanto più di noi, nonostante si vedesse bene quello che sarebbe diventato, un essere infido e maligno. Bugiardo. Forse proprio perché assomigliava al papà lo amava più di noi, lo aveva sostituito a lui nella sua mente.

    Lei ormai odiava quell’uomo, ma non le riusciva staccarsi di dosso l’amore che aveva provato e ancora, nonostante tutto, nel profondo provava per lui. Gli si era sempre aggrappata, nel disperato tentativo di ricevere amore. Amore per lei sconosciuto.

    Dalla nonna, sua madre, aveva ricevuto solo disprezzo e distacco e così lei cercava disperatamente di soddisfare quel bisogno furioso di ricevere amore da qualcuno, attaccandosi come una sanguisuga a mio padre.

    La nonna l’aveva avuta da un uomo che appena saputo che era incinta, l’aveva abbandonata senza indugiare. Non le aveva mai voluto bene, la vedeva costantemente come una vergogna da nascondere e invece, ogni volta, la sua vista quotidiana le ricordava quell’errore, quella colpa. Avrebbe voluto nascondere quella figlia, sperderla, per poter cosi dimenticarsene e cancellare quell’atto sconsiderato, dettato da un momento di debolezza o di amore.

    Oggi tutto questo non avrebbe il peso devastante che aveva a quei tempi e forse mia madre avrebbe ricevuto quell’affetto che le spettava. Ma le cose sono andate così e non si possono cambiare.

    Come dicevo, la pace durò poco, anche se era una pace solo di non suoni, Gill prese subito le veci di papà nel voler spadroneggiare. Si sentiva in diritto, anche grazie alla complicità silenziosa della mamma, di fare e disfare a suo piacimento.

    Iniziò anche lui a bere e andare a puttane, inoltre non faceva nemmeno quel poco di lavoro, che al babbo, portava un po’ di soldi. Lui li rubava direttamente alla mamma che si consumava dal lavoro.

    Dio quanto lo odiavo, soprattutto quando faceva il grande, il duro con il fratellino, che stava crescendo introverso, debole, fragile, spaventato. Si divertiva a umiliarlo, a vederlo piangere. Io cercavo di proteggerlo come potevo, anche mettendomi nel mezzo, tra loro, fisicamente, ma Gill era più forte di noi, e soprattutto più determinato nel suo essere… Bastardo.

    Un giorno che avevo voglia di evadere, non solo da casa ma anche dalla mia città, presi la macchina fotografica, la misi in borsa e uscii di casa in fretta, a testa bassa, come un toro determinato a caricare chiunque gli si para davanti.

    Mi avviai a grandi passi alla stazione e salii su di un treno, non importava se la direzione era nord o sud, non acquistai neanche il biglietto. Il primo treno che sarebbe arrivato andava benissimo, ero decisa a scendere alla prima fermata, mi bastava mettere qualche chilometro tra me e l’abitudine, la routine.

    Non andai molto lontano, per dir la verità feci solo 20 km, ma

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1