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Il piromane
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Il piromane

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About this ebook

La tranquillità di un piccolo villaggio islandese è minacciata da una serie di incendi dolosi. Per indagare sui fatti è chiamato dalla capitale il commissario Valdimar Eggertson, che passa in rassegna le poche famiglie che abitano il paese, essenzialmente tre: quella del capitano di polizia, del produttore di legname e del parroco, tutte unite da vincoli di parentela. Quanto più il commissario scopre tanto più la situazione diventa confusa: una rete opaca di voci e bugie intrappola questo ambiguo nido situato nella parte orientale dell'Islanda, dove il buio occupa la maggior parte della giornata e la cosa più chiara e luminosa sono gli edifici incendiati perché quasi nessuno a Seyðisfjörður è innocente e al di sopra di ogni sospetto.
LanguageItaliano
Release dateFeb 6, 2013
ISBN9788865640548
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    Il piromane - Jón Hallur Stefánsson

    Titolo dell’opera originale

    VARGURINN

    © Jón Hallur Stefánsson

    © Bjartur, 2008

    Traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini

    © Atmosphere libri

    Via Seneca 66

    00136 Roma

    www.atmospherelibri.it

    info@atmospherelibri.it

    Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it)

    Questo romanzo è ambientato nel paese di Seyðisfjörður. I personaggi descritti sono nondimeno frutto della fantasia dell’autore e non hanno alcun riscontro nella realtà.

    I edizione nella collana Biblioteca del giallo novembre 2012

    ISBN 978-88-6564-054-8

    This book has been published with a financial support of Bókmenntasjóður / Icelandic Literature Fund

    Dedicato a Birgir Andrésson,

    che mi ha invitato sul posto.

    1

    Inizia come una piccola, solleticante scintilla in una stanza buia. Poi diventa una macchia fluttuante, una fiamma che si dilata finché le pareti avvampano, e il pavimento, e il soffitto, e poi le stanze una dopo l’altra, finché l’intero edificio va a fuoco. Dopo di che mi ritrovo fuori ed è la fabbrica di conservazione delle aringhe che arde nel buio, il fumo nero e denso come quando si bruciano i copertoni delle auto, e a un tratto mi rendo conto che è solo la condizione naturale delle cose, è il fuoco che prende piede. Le fiamme si spostano sul vecchio pontile marcio che brucia immediatamente e si propagano anche alle rimesse che vi stanno sopra. Poi tocca al Museo della Tecnica, che oppone resistenza, com’era prevedibile. Le vecchie case di legno esplodono una dopo l’altra benché siano ben distanziate, ma i loro abitanti non si accorgono di nulla, rimangono seduti sulle loro poltrone di pelle che si consumano tra le fiamme e guardano la televisione, oppure lavano i piatti incandescenti in un bagno di petrolio che avvampa. E la Austurvegur è tutta illuminata dalle finestre ardenti degli edifici che la fiancheggiano, vedo un gatto in fiamme trotterellare verso la stazione di servizio che un attimo dopo è un rogo, un’auto avvolta dalle lingue di fuoco sbuca da Fossgata e si ferma accanto alla pompa; ne esce un uomo fasciato dal fuoco che inserisce la carta di credito nel distributore self service e comincia a fare il pieno, non nel serbatoio bensì dentro l’abitacolo che si riempie con una velocità sorprendente e quando la pira umana apre la portiera la benzina fluisce all’esterno e quello si limita a ridere, sale in macchina, abbassa tutti i finestrini e parte a gran velocità verso il centro, passa di fronte al vecchio albergo e la benzina che sgorga dai finestrini scorre lungo la strada come un ammasso di serpi infuocate. E il parcheggio di fronte al centro sociale Herðubreið brulica di torce umane che tracannano birra fusa e ridono a gola aperta, zampillanti lingue di fuoco. Poco più in alto la porta della piscina è spalancata, dei nuotatori in fiamme nuotano, sguazzano e scherzano nella vasca piena di benzina clorata. Sul campetto della scuola ragazzini in fiamme giocano a calcio sull’erba che divampa con una palla di fuoco.

    Quando le grosse lettere che formano la parola Seyðisfjörður sul monte che sovrasta il paese prendono fuoco capisco che a questo punto ogni singola casa è un rogo, e allora si sente una sirena profonda e familiare che impone il silenzio sul paese: è il traghetto Norræna che entra in porto, avvolto nelle fiamme da poppa a prua; e nello stesso istante si ode un fragoroso schianto, la nave si surriscalda in un attimo fino alla chiglia, l’acciaio incandescente stride a contatto con il mare e crea unenorme nube di vapore che cala sul paese e in un momento la oscura, d’un tratto non si distingue più il fuoco, nemmeno un’unica fiammella da nessuna parte, e il fumo è talmente denso che quasi non si riconosce la casa vicina, è calato un silenzio di tomba, si sentono solo i gemiti di qualcuno che si contorce nel proprio letto con lo stomaco annodato.

    LUNEDÌ

    2

    L’odore di bruciato era freddo e acre. Smári Jósepsson, l’ispettore di polizia di Seyðisfjörður, inspirò profondamente varie volte prima di varcare la soglia della casa del capitano di marina Þorsteinn Einarsson e di sua moglie Hugrún, che era stata divorata dalle fiamme la sera precedente. Teneva in mano una torcia potente perché la corrente era evidentemente saltata e il giorno non era ancora sorto. Attendeva l’arrivo di alcuni agenti specializzati inviati da Reykjavík, ma aveva comunque deciso di recarsi di persona a dare un’occhiata alla situazione.

    Il tanfo di carne carbonizzata gli riempì le narici appena entrò. Sentì le ghiandole salivari reagire, e allentò i muscoli della mascella evitando di respirare dal naso. Una volta aveva letto da qualche parte che l’odore in realtà è fatto da minuscole particelle della stessa materia che lo produce, ed era un dato che gli tornava in mente spesso aumentando il suo malessere ogni volta che sentiva un odore spiacevole. In quel caso era il pensiero dell’origine della puzza a dargli la nausea più che l’odore in sé, che gli ricordava in maniera disgustosa le grigliate e l’estate.

    La carcassa di un gatto stava proprio accanto alla porta d’ingresso che aveva resistito al mare di fuoco nonostante il parquet si fosse quasi interamente consumato. Immaginò la povera creatura cercare una via d’uscita miagolando per il terrore una volta che la casa si era riempita di fumo. I vetri delle finestre evidentemente erano esplosi solo dopo che l’animale aveva perso conoscenza, altrimenti la povera bestiola l’avrebbe scampata. Di sicuro quel gatto non aveva nove vite.

    Sulla sinistra rispetto alla porta c’era un attaccapanni di acciaio, ormai diventato blu, su cui stava ancora appesa una giacca di pelle; gli altri indumenti erano senz’altro bruciati sugli appendiabiti ormai appesi senza scopo. La parete dietro era quasi interamente carbonizzata, tanto che da uno squarcio si distingueva la stanza vuota sul retro.

    La vista del soggiorno aveva un che di ripugnante; sarebbe stato certo preferibile che le fiamme l’avessero distrutto totalmente, almeno sarebbe entrato in uno spazio nero come aveva immaginato. Ma per qualche motivo non tutto il materiale infiammabile aveva preso fuoco, il fascio della torcia aveva illuminato un orologio intatto appeso alla parete: il vetro del quadrante si era spaccato ma il meccanismo ticchettava ancora, come un monito brutale al potere supremo del tempo. La pittura sulle pareti si era annerita un po’ ovunque e in alcuni punti si era scrostata dall’interno scoprendo la pietra, ma di tanto in tanto si notavano aree bianche che il fuoco aveva risparmiato, e in mezzo troneggiava il caminetto in mattoni, esattamente com’era sempre stato. L’attizzatoio in rame era appeso a un gancio sulla parete accanto. L’ambiente naturale del fuoco. Un ricettacolo per il fuoco addomesticato, ben diverso dal fuoco selvaggio che si era scatenato per tutta la casa.

    Il pavimento era coperto da uno strato di poltiglia nera di cenere e acqua, risultato dell’intervento dei vigili del fuoco la sera precedente. Smári si chiese per un attimo se le sue impronte sul pavimento rischiassero di compromettere le indagini, ma poi alzò le spalle. Riteneva di no, perché ogni possibile indizio doveva già essere stato cancellato.

    Il divano e le poltrone di pelle grigia erano ancora al loro posto, strinati, e in qualche modo drammaticamente vuoti intorno allo scheletro del tavolino da fumo, la spessa lastra di vetro che lo ricopriva in frammenti sul pavimento fuligginoso. Vestigia di una quotidianità ormai sparita, perlomeno nella forma che aveva avuto fino a quel momento.

    Il televisore era un foro nero in un mondo carbonizzato, ma Smári si stupì di notare che i libri sugli scaffali che lo sormontavano non erano particolarmente malridotti, i più mantenevano ancora la loro forma benché fossero bruciati sulla costola e sui bordi, anzi alcuni sembravano praticamente intatti. Già, apparentemente il televisore non era scoppiato, contrariamente a quanto Smári aveva in parte sperato: la sua esplosione avrebbe spiegato in maniera chiara l’origine dell’incendio.

    Il pianoforte contro la parete di fondo aveva conservato la linea e da lontano poteva sembrare quasi intonso, ma avvicinandosi si notava che ogni centimetro quadrato del telaio era bruciacchiato e nero, i tasti bianchi erano deformati e in alcuni casi scrostati in superficie. Smári cercò di immaginare lo strumento in fiamme ma vi rinunciò subito.

    Tornò cautamente alla porta della cucina, di fianco all’ingresso. L’anta si era completamente incendiata sullo stipite, per cui si distingueva la piastrellatura del pavimento della cucina che sembrava essere stato quasi interamente risparmiato. Il sole del mattino illuminava il tavolo rotondo di un materiale plastico; non vi si notava nemmeno un granello di polvere o di cenere, nessun piatto sporco nel lavello, i piani inclinati dei pensili di colore giallo coordinati alla lavastoviglie incassata che era rimasta mezza aperta. Smári si recò verso l’angolo, aprì l’anta di una credenza e vide un ripiano pieno di cereali per la colazione. Il primo pacco era una confezione di corn flakes aperta, la stessa marca che anche lui acquistava abitualmente. Si chiese per un attimo se i corn flakes sapessero di fumo. Di certo non l’avrebbe mai scoperto, rifletté.

    La casa sorgeva al margine del paese, in fondo alla strada più alta, e le finestre delle camere da letto davano sulla collina. Lì il fuoco era divampato in maniera più intensa, o così sembrava a Smári.

    Si era svegliato di soprassalto allo squillo penetrante del telefono la notte precedente; gli era occorso un attimo per scrollarsi di dosso il torpore del sonno e afferrare il telefono. Erano le due e ventidue minuti, aveva dormito tre ore.

    «Smári».

    «Sì, ciao, sono Gylfi».

    «Sì... ciao. Grazie per la bella serata» aveva detto Smári trattenendo uno sbadiglio. Erano passate appena quarantotto ore da quando i due uomini, piuttosto alticci, si erano ritrovati a sparare gli ultimi fuochi d’artificio durante un animato veglione dell’ultimo dell’anno a casa di Gylfi.

    «Grazie a te. Senti, dovresti salire subito in collina, va a fuoco la casa di Þorsteinn Einarsson».

    «Arrivo immediatamente» aveva risposto Smári, d’un tratto completamente sveglio. «Sono già arrivati i vigili del fuoco?»

    «In questo momento» aveva detto Gylfi. «Ma mi pare di capire che non riescano a gestire la situazione. C’è un bel vento».

    «Dove sei?»

    «Sono in macchina, qui fuori. Vuoi che venga a prenderti?»

    «No, arrivo da solo. E che cazzo» aveva detto Smári, tra sé e sé piuttosto che al suo collega. Si era infilato qualche indumento in tutta fretta.

    La televisione non era accesa e c’era solo un lieve chiarore nella stanza di Bóas, come aveva notato mentre si era affrettato a uscire. Bene, aveva pensato inquieto. Era ora che il ragazzo riprendesse i ritmi normali dopo le vacanze di Natale.

    Aveva già messo in moto la jeep prima di valutare se non fosse più ragionevole coprire a piedi quel breve tratto. Come aveva immaginato parecchie persone erano accorse davanti alla casa in fiamme, i vicini erano stati svegliati dal baccano dei vigili del fuoco, alle finestre si erano accese le luci, si distinguevano profili umani contro il chiarore dell’interno, i bagliori del fuoco si riflettevano nei vetri della casa accanto. Alcuni assistevano allo spettacolo seduti in macchina; Smári aveva resistito alla voglia di strombazzare il clacson, aveva parcheggiato in fondo alla fila ed era sceso dalla vettura.

    Gylfi gli era corso incontro. Smári aveva bussato al finestrino laterale di una Opel blu stazionata vicino al rogo e con gesti enfatici aveva fatto segno al conducente di spostare l’auto e allontanarsi. In macchina c’erano quattro adolescenti, quello al volante si era affrettato a mettere in moto ma Smári l’aveva visto fare inversione in fondo alla strada e fermarsi lì senza spegnere i fari. La curiosità della gente non aveva limiti.

    «Finalmente sei arrivato» gli aveva detto Gylfi ansante.

    «Avresti dovuto telefonarmi prima» aveva risposto Smári brusco, superandolo a grandi falcate. Gylfi l’aveva seguito. Una volta raggiunta l’autopompa dei vigili del fuoco le fiamme uscivano già dal tetto della casa, dal lato del giardino. Un gruppo di giovani stava urlando a squarciagola contro il vento, Smári aveva bestemmiato energicamente. Gli era sembrato di vedere suo figlio in mezzo a loro. Gli avrebbe dato una bella ripassata.

    «Ordina a questi idioti di filarsela a casa» aveva urlato Smári a Gylfi. «Di’ loro che potrebbe essere pericoloso starsene lì in piedi».

    «Cosa credi che abbia appena fatto?» aveva ribattuto Gylfi, ma si era comunque affrettato a raggiungere i ragazzi.

    Si vedevano quattro pompieri, uno parlava al cellulare, un altro stava in piedi accanto all’autopompa, due tenevano la manichetta indirizzando il potente getto contro la casa. Il crepitio del fuoco e il rombo del getto della pompa sovrastavano quasi il gemito del vento e sembrava incredibile che le fiamme potessero resistere a tutta quell’acqua. Il capo della brigata aveva urlato qualche ordine ai suoi uomini, la pressione dell’acqua era diminuita in una delle pompe e il capo era andato in aiuto al pompiere che la manovrava per riavvolgerla, ormai floscia, al camion dove l’altro era salito sulla gru che si era alzata in aria. Non appena aveva aperto il beccuccio era tornata la pressione, e questa volta il getto era stato rivolto direttamente contro le lingue di fuoco che salivano dal tetto. Smári aveva fatto un timido tentativo di parlare con il capo della brigata, che gli era sfrecciato accanto in gran velocità; voltandosi, Smári aveva visto arrivare un’altra cisterna con i lampeggianti accesi. Probabilmente erano arrivati i rinforzi da Egilsstaðir, Smári si era sorpreso per la velocità con cui avevano attraversato la brughiera, il fuoco evidentemente infieriva da tempo, più di quanto aveva creduto.

    Era rimasto lì a dondolarsi senza sapere esattamente che cosa fare finché non gli si era avvicinato Gylfi, che non aveva ottenuto grandi risultati con i ragazzi; si trovavano di poco più lontani dalla casa, ma non sembravano affatto intenzionati ad andarsene. Qualcuno nel gruppo aveva fischiato forte, forse per richiamare l’attenzione dei suoi compagni sull’arrivo della nuova squadra di vigili, e a Smári era sembrato un po’ fuori luogo fischiare in queste circostanze.

    «Posso fare qualcosa?» gli aveva urlato qualcuno in un orecchio. Si era voltato di scatto. Era il reverendo Aðalsteinn con un lungo cappotto e un berretto di pelliccia. Smári si era trattenuto dall’urlargli a sua volta: «Sì, puoi filartene a casa tua a dormire!» Aveva provato un’improvvisa e inattesa ostilità nei confronti del pastore, e nello stesso tempo se ne era vergognato. In fondo quel vecchio gufo che l’anno precedente aveva perso la casa in un incendio cercava solo di fare del suo meglio per dare una mano.

    «Þorsteinn è alle Canarie con la famiglia» gli aveva risposto Smári. «Ovvio che bisogna chiamarlo e farglielo sapere, domani mattina. Saresti disposto a occupartene, magari?»

    Smári non aveva alcuna voglia di essere lui a dover dare la notizia a Þorsteinn. O a Hugrún.

    «Senza alcun dubbio» aveva detto Aðalsteinn annuendo con quella compostezza carica di gravità che stava tanto sui nervi a Smári. Sembrava un segno distintivo dei sacerdoti, anche il pastore che aveva preceduto Aðalsteinn aveva quell’espressione sempre pronta stampata in faccia; era arrivato di gran corsa con quell’aria grave sul volto in un momento della vita in cui Smári aveva più bisogno di stare solo con se stesso per riprendersi in tutta tranquillità, senza ulteriori sollecitazioni.

    «E se potessi convincere tutta questa gente ad andarsene a casa sarebbe una gran cosa».

    Il chiarore delle fiamme dal tetto per qualche istante aveva illuminato un uomo che, seduto a una buia finestra d’angolo nella casa accanto, se ne stava tranquillo a osservare l’incendio. Aveva avvicinato la mano alla bocca e la scintilla di un sigaro gli aveva rischiarato le labbra e le guance. Sì, era Sveinbjörn, il proprietario della fabbrica di parquet del paese, che se ne stava seduto a fumare. Un comportamento singolare vista la situazione, aveva pensato Smári.

    Per un attimo si era sentito stordito. La folla di curiosi, i ragazzi che fischiavano, il pastore vestito di tutto punto e il vicino che fumava nel buio, tutto si era confuso nella sua mente per rendergli l’immagine di una festa contorta, un grande ritrovo popolare, un falò di Capodanno tardivo.

    Dopo l’arrivo dei rinforzi le fiamme erano state domate in fretta e di lì a poco era sparito anche il fumo. Come prevedevano le norme la casa era stata messa sotto sorveglianza fino al mattino successivo e Smári si era presentato di buonora per valutare la situazione.

    Sembrava che l’incendio si fosse originato nella camera matrimoniale, dove tutto il materiale combustibile aveva preso fuoco. Un’apertura nella parete con una griglia di metallo deformato da un lato e dall’altro, un appendiabiti caduto a terra erano tutto quello che restava dell’armadio a muro. Del letto matrimoniale non era rimasto che un ammasso di molle. La finestra era rotta – ovvio, pensò Smári, ma poi rimase paralizzato.

    Sul pavimento c’era un sasso, una maledetta pietra proprio sotto la finestra. E avanzando tra la cenere del parquet notò con la suola dello stivale che c’erano dei frammenti di vetro. Alcune finestre della casa erano esplose per effetto del calore, ma questa era stata rotta dall’esterno e il sasso per terra non sembrava indicare che fosse opera dei pompieri, che possedevano strumenti appropriati per interventi del genere.

    Smári uscì a passi pesanti. Doveva chiamare immediatamente la capitale e coinvolgere la polizia scientifica. L’aria gli sembrò particolarmente tersa e pulita, era gradevole inspirarla dopo l’odore di bruciato acido e pungente che gli aveva riempito le narici all’interno della casa.

    3

    «Ciao, tesoro».

    Valdimar Eggertsson, l’agente della polizia investigativa, si era sempre rifiutato di prendere l’abitudine di guardare il display prima di rispondere al cellulare. Fino a poco tempo prima odiava sapere chi fosse l’interlocutore senza avere ancora risposto; adesso però aveva smesso di rispondere alla cieca, e sapeva esattamente perché.

    «Mi vuoi un pochino di bene?» gli chiese Elma malinconica.

    «Ovvio che ti voglio bene» disse Valdimar provando subito la sensazione che qualcuno gli stesse comprimendo la cassa toracica. Inspirò profondamente. «Che domande fai?»

    «Allora non puoi venire da me? Adesso? Ho bisogno di te...»

    Perché era entrato nella polizia investigativa, e perché non aveva ancora dato le dimissioni? Erano interrogativi che gli venivano in mente quando meno se l’aspettava. Sapeva che probabilmente suo padre Eggert gli avrebbe rivolto le stesse domande con un sorrisetto canzonatorio misto ad amarezza, come a lasciare intendere che le sue scelte professionali erano state determinate dal suo rapporto con lui, o che Valdimar fosse entrato in polizia quasi unicamente per punirlo.

    Un tempo Valdimar era stato suscettibile a queste argomentazioni logiche ma adesso non più, sapeva che la risposta non era così facile. Sicuramente crescere in una casa senza regole aveva avuto le sue conseguenze, ma il suo bisogno di dare una sorta di ordine al caos del mondo aveva origini più profonde. Avrebbe trovato davvero increscioso se fosse stata la testardaggine adolescenziale a decidere quale direzione imprimere alla sua esistenza; del resto il suo senso di giustizia e il bisogno di regole non erano legati solo alla sua professione, ma erano stati le forze che avevano plasmato tutta la sua vita. Ricordava bene, ad esempio, il momento in cui aveva deciso di non toccare l’alcol mai più. Quella decisione l’aveva isolato negli anni della gioventù, l’aveva reso una specie di smidollato, o perlomeno questa era stata talvolta la sua sensazione. Ma lui, semplicemente, voleva avere il pieno controllo dei suoi pensieri, lo terrorizzava l’idea di perdere il filo della sua voce più intima. Il polo opposto nella sua vita interiore era invece un desiderio di avventura insoddisfatto, se non altro il desiderio di dimenticare se stesso per un attimo senza doversi sempre guardare alle spalle. In un certo senso desiderava mettere a tacere la voce della ragione che sentiva in testa e lasciarsi guidare dalle emozioni verso territori inesplorati.

    Ma era troppo controllato per una cosa del genere. Anche l’amore, il re dei sentimenti, rappresentava per lui un fenomeno lontano. Le poche donne che aveva conosciuto nel tempo si erano sempre lamentate di una scarsa passione da parte sua, affermavano di non essere mai state realmente sicure di stare davvero con lui. E per quanto cercasse di esprimere verbalmente i suoi sentimenti il risultato era sempre troppo razionale e freddo; ogni volta riusciva a mettere in pericolo la relazione che avrebbe voluto consolidare, e le donne si allontanavano.

    Non erano certo da biasimare. Le frasi che raccattava, come passando tra le corsie di un supermercato delle parole per poi allinearle come meglio sapeva, suonavano terribilmente vuote. La verità era che i suoi sentimenti si facevano più forti quando la relazione diventava più a rischio, ma una volta in ballo cercava di nascondere quello che provava. In due occasioni la fidanzata di turno gli aveva dichiarato in faccia di essersi trovata un altro, e invece di essere fuori di sé per la rabbia o il dolore era stato comprensivo, perfino conciliante. Era talmente preparato alle delusioni che si sentiva quasi sollevato vedendo confermare la convinzione di non avere niente da offrire.

    Così si infilava nelle situazioni più disperate. L’ultima donna che aveva frequentato stava per divorziare, ma poi aveva cambiato idea. Dopo aveva conosciuto Elma.

    «Ho tanto da fare oggi» mormorò scusandosi, ma era una bugia bella e buona. Non c’era un cazzo da fare alla centrale. Però odiava gli ospedali, e oltretutto cominciava a provare un potente senso di claustrofobia solo a vedere quella donna, la prima ad avere tante pretese nei suoi confronti, la prima che sembrava adorarlo. Non la trovava affatto una sensazione piacevole.

    Era stato per semplice pigrizia che era entrato in un bar mezzo vuoto una sera, pochi mesi prima, e aveva ordinato una Pilsner. Elma era una bella donna, l’aveva guardata più volte senza nutrire alcuna speranza quando lei aveva fatto il primo passo e si era seduta accanto a lui.

    «Non ti preoccupare, non ci sto provando con te» era stata una delle prime cose che gli aveva detto. Lui aveva sorriso e controllato per un’amara abitudine se avesse la fede. Non aveva visto nemmeno il segno sull’anulare.

    Gli aveva detto che scriveva poesie ma che non aveva pubblicato niente, e che non ne aveva l’intenzione. Lui non aveva saputo che pensare, le poesie non erano esattamente il suo pane quotidiano. Di lì a poco gli aveva confidato che il suo fidanzato si era suicidato l’anno prima e che lei stessa combatteva contro un tumore al seno.

    «Oh, merda!» si era lasciato scappare.

    «Ecco, appunto. Merda» aveva ripetuto lei con un sorriso pieno di amarezza. Sarebbe stato meglio dire qualcosa per tirarla su e poi sparire, ma forse quella sera aveva bisogno di consolare qualcuno.

    La notte ammise, nonostante quanto aveva dichiarato, di essersi avvicinata per provarci con lui.

    «È una frase per rimorchiare, stupidone» aveva riso infilandogli un dito tra le costole mentre lui le stava disteso supino accanto e si chiedeva in che situazione si fosse cacciato.

    «I prefer handsome men» aveva aggiunto poi, «but for you I’ll make an exception».¹

    Non aveva idea del perché a un tratto si fosse messa a parlargli in inglese, e non trovava una risposta soddisfacente a questo commento antipatico.

    «Ah, ma dai, vieni» gli stava dicendo, e Valdimar sentì di nuovo quel peso sulla cassa toracica.

    «Verrò, se ce la faccio» rispose, e chiuse la conversazione.

    «Hai sentito il notiziario poco fa, Valdimar?» gli chiese Hafliði qualche minuto dopo mentre smanettava davanti alla macchina italiana per espresso che il dipartimento aveva appena acquistato. Valdimar non aveva ancora imparato a usarla, preferiva tracannare una tazza dopo l’altra di pessimo caffè bollito, più o meno a lungo, nella caffettiera grande.

    «No. Qualcosa di nuovo?»

    «Un incendio in un’abitazione a Seyðisfjörður».

    «Ah».

    «E questa volta è sicuramente doloso. Hanno appena telefonato da est».

    Era passato più di un anno dall’ultimo incendio a Seyðisfjörður, quando una vecchia casa di legno era stata praticamente ridotta in cenere. Era stata convocata la squadra investigativa e visto che Valdimar non era sposato era toccato a lui, come altre volte in precedenza, occuparsi del caso partendo in missione per quelle aree remote. Il pastore del paese e sua moglie erano a Reykjavík per trascorrervi il fine settimana quando il fuoco aveva distrutto la loro abitazione. Le indagini non avevano rivelato alcun dato utile, semplicemente c’era ben poco da analizzare se non un rudere che la squadra scientifica aveva cercato di esaminare e inventariare per quanto possibile, ma senza alcun risultato. L’unica cosa che Valdimar aveva ricavato da tanti sforzi era stato un presentimento poco piacevole.

    Da quella volta erano stati fatti due tentativi abortiti di appiccare il fuoco in paese: nel primo caso qualcuno aveva dato fuoco a un bidone della spazzatura vicino alla scuola elementare, e nel secondo erano state scoperte alcune tavole ammucchiate sul retro del Museo della Tecnica sotto le quali qualcuno aveva infilato dei vecchi giornali prima di darvi fuoco, ma il legno era umido e le fiamme si erano spente da sole. Valdimar aveva classificato tutte le informazioni relative a questi due casi in un file chiamato Seyðisfjörður e aveva sperato che fossero episodi scollegati e non premonizioni minacciose. Adesso però era accaduto qualcosa di veramente grave.

    «Che cosa hanno detto?»

    «Circostanze simili a quelle della volta scorsa, in realtà. Nessuno in casa, tutti ad abbronzarsi al sole delle Canarie. Sarà proprio un bel ritorno».

    Hafliði premette il pulsante argentato e lustro della macchina che rispose con un botto impressionante. Un esile e nero getto colò tristemente nella tazzina dal beccuccio di metallo.

    «Mi sa che dovrò tornare a est. Devo andare da solo?»

    «Sì, almeno per il momento. Là troverai sicuramente tutto l’aiuto di cui hai bisogno. Poi facci sapere se ti servono rinforzi» disse Hafliði mentre girava lo zucchero di canna bruno nel caffè e se ne

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