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Costituzione, Stato e crisi - Eresie di libertà per un Paese di sudditi
Costituzione, Stato e crisi - Eresie di libertà per un Paese di sudditi
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Costituzione, Stato e crisi - Eresie di libertà per un Paese di sudditi

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Questo libro – in alcuni passaggi volutamente provocatorio – pone sotto processo uno dei miti della nostra società: quella Costituzione «nata dalla Resistenza» che, benché sia stata concepita ormai molti decenni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire, agli occhi di molti, qualcosa di sacro e intoccabile. L’Italia è un Paese saldamente ancorato allo statalismo che ha paura del mercato, della concorrenza, della competizione; che teme le normali dinamiche di una società libera e di un’economia libera. Si preferisce restare nel Medioevo economico, con la Costituzione a sigillare questa paralisi. È prioritario affrancarsi dall’idea che lo Stato sia la soluzione: lo Stato è il problema. Prefazione di Carlo Lottieri. Postfazione di Guglielmo Piombini.
LanguageItaliano
Release dateMay 4, 2015
ISBN9786050376517
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    Costituzione, Stato e crisi - Eresie di libertà per un Paese di sudditi - Federico Cartelli

    Federico Cartelli

    Costituzione, Stato e crisi

    Eresie di libertà per un Paese di sudditi

    UUID: d2c3ade2-b580-11e7-a94b-49fbd00dc2aa

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Prefazione

    1. La Bibbia laica

    2. L'indottrinamento di Stato

    3. La libertà derisa e dimenticata

    4. Lo Stato imprenditore

    5. Il lavoro non è un diritto

    6. La ricchezza non è una colpa

    7. L'illusione della sovranità

    8. Dal finto federalismo al neocentralismo

    9. Quale futuro?

    Postfazione

    Note

    Prefazione

    di Carlo Lottieri

    Questo scritto di Federico Cartelli pone sotto processo uno dei miti della nostra società: quella Costituzione «nata dalla Resistenza» che, benché sia stata concepita ormai molti decenni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire, agli occhi di molti, qualcosa di sacro e intoccabile. In particolare, la prima parte della Costituzione è spesso considerata un concentrato di verità assolute da imporre agli italiani fin dalla loro più tenera età.

    Come Cartelli evidenzia, il testo uscito dall’Assemblea Costituente ha in sé ben poco di liberale, e la storia successiva si è incaricata di mostrarlo. In particolare, non bisogna farsi illusioni sulla capacità di tale Costituzione di proteggere veramente i diritti individuali: il testo è semmai orientato a promuovere quelle libertà positive che, nei fatti, favoriscono la più ampia espansione dell’intervento pubblico. Il fallimento della Costituzione italiana, a ogni modo, s’inquadra in un fallimento ben più generale. Anche quando sono state concepite a tutela delle libertà, spesso le costituzioni si sono rivelate largamente inefficaci. La storia degli ultimi due secoli (perfino in quell’America che per prima e con più determinazione ha scommesso sulla carta costitutiva) è stata, infatti, segnata da norme costituzionali in vario modo ignorate, liberamente interpretate, modificate. Per giunta, se una costituzione come quella americana fu essenzialmente concepita quale strumento a limitazione del governo e degli altri apparati di Stato, nei tempi successivi la visione del costituzionalismo è mutata radicalmente. E da molti decenni la costituzione è solo un modo d’organizzare il potere, e non certo limitarlo. Per questa ragione, quanti volessero metter mano alla Costituzione al fine d’allargare gli spazi di libertà dovrebbero anche chiedersi davvero se e in che misura l’attuale ordine giuridico sia schierato a protezione dei singoli, e di quale visione di tale libertà ritengano di farsi interpreti i nostri ceti dirigenti.

    Riguardando i princìpi generali e gli obiettivi che s’intendono perseguire, la prima parte della Costituzione italiana obbliga a fare i conti col senso stesso che si vuole attribuire alla convivenza civile e agli istituti incaricati di proteggerla. E, se per i liberali la Carta avrebbe il compito di porre le premesse per una tutela quanto più possibile ferma e rigorosa dei diritti di proprietà, per gli statalisti d’ogni colore e bandiera sono altri gli scopi da raggiungere. Nata da un compromesso tra forze assai differenti (e nel corso dei lavori preparatorî uno dei costituenti, l’on. Meuccio Ruini, la definì come il risultato di «un anelito che unisce insieme le correnti democratiche degli immortali princìpi, quelle anteriori e cristiane del Sermone della Montagna e le più recenti del Manifesto dei Comunisti»), la prima parte è a pieno titolo figlia di un’età che era dominata da ideologie variamente collettiviste e nella quale perfino molti tra quanti si dicevano liberali non mostravano alcun vero interesse per l’autonomia dell’individuo di fronte al potere.

    Nel trattare i rapporti civili, quelli etico-sociali, quelli economici e quelli politici, la Costituzione manifesta l’assoluta incapacità di prendere davvero sul serio la dignità della persona. Ogni principio affermato a tutela della libertà, infatti, è sempre accompagnato da qualche riserva («salvo che», «purché», «se non in base alla legge», e via dicendo). In questo quadro, per giunta, i diritti non sono altro che attributi legali, ed essi sono costantemente definiti e limitati dal potere pubblico e orientati all’interesse del «gruppo» medesimo. In particolare, l’articolo sulla proprietà (§ 42) muove da una definizione della stessa che sovverte la logica autentica di tale diritto, nel momento in cui inizia con un’affermazione («La proprietà è pubblica e privata») che non solo antepone la proprietà statale a quella privata, lo Stato agli individui, ma al contempo equipara le risorse detenute dall’apparato statale grazie alla tassazione e i beni legittimamente posseduti da quanti li hanno prodotti, scambiati o ricevuti in eredità.

    Muovendo da tale premessa, la carta del 1947 adotta una prospettiva del tutto «legalista», che fa della proprietà nient’altro che il prodotto della volontà arbitraria dei legislatori. Ciò che è ancor più grave, tale incapacità di comprendere il senso e il valore autentico della proprietà è il frutto del consolidarsi dei miti più funesti della modernità statale, che la Costituzione italiana esibisce in quasi ogni sua forma. Sia per ciò che riguarda l’idea di sovranità (le cui origini vanno fatte risalire a Jean Bodin e, nella versione democratica e moderna, a Jean-Jacques Rousseau), sia per ciò che concerne l’idea d’unità e indivisibilità, frutto di logiche nazionaliste. Nel costituirsi quale potere egemone, lo Stato ha dovuto dotarsi di tali protezioni ideologiche, tali da rendere possibile il solido controllo esercitato dal potere politico sulla società e sull’economia.

    In questo senso sarebbe fondamentale che un ripensamento in senso liberale delle istituzioni muovesse proprio dalla contestazione della nozione di «sovranità» (l’idea che il potere possa legittimamente sovrastare la società stessa) e quindi dalla contestazione stessa degli obblighi politici: quegli obblighi che non derivano dal dovere di non aggredire gli altri o di rispettare gli impegni assunti, bensì dalla necessità d’obbedire al potere costituito. E, perché altre istituzioni più aperte e liberali si affermino, sarebbe utile che si aprisse finalmente una discussione sulla sacralità dell’unità territoriale, poiché una vera competizione istituzionale può affermarsi solo se viene riconosciuto a ogni comunità il diritto di farsi autonoma, facendo sì che sboccino mille fiori e che le logiche centraliste lascino il posto a una sana competizione tesa a ridurre l’invasività delle norme e il gravame fiscale.

    Una classe politica attenta alle ragioni della libertà dovrebbe considerare inammissibile larga parte del testo costituzionale, e impegnarsi in una vera riscrittura. A tale proposito, queste pagine di Cartelli hanno allora il merito di richiamare l’attenzione su ciò e mettere in discussione un mito: contestando una religione oppressiva e incapace di rispettare l’uomo nella sua dignità.

    1. La Bibbia laica

    «La causa prima della servitù volontaria è l'abitudine.»

    (Étienne de La Boétie )

    Il modo migliore per accreditarsi presso l’intellighenzia più rinomata e occupare un posto libero nei salotti buoni del politicamente corretto è tessere lodi smodate nei confronti della Costituzione. Dallo sconosciuto blogger ai più stimati giuristi, passando naturalmente per schiere d’illustri giornalisti, è da tempo in atto una gara a chi meglio la incensa, a chi trova gli aggettivi più enfatici per definirla, a chi si dimostra più fedele ai suoi dettami. Un ballo delle debuttanti dove si sprecano applausi, inchini e fiumi d’edulcorato inchiostro, ad alimentare un inestinguibile flusso di metafore, similitudini, iperboli. La Costituzione bussola, che segna i punti cardinali della democrazia; stella polare; sana e robusta; via maestra; e così via. Sfilate lessicali a uso e consumo del peggior esibizionismo intellettuale, dov’è labile il confine tra egocentrismo e servilismo. Che cosa rimanga, in concreto, d’incontestabili pareri e stucchevoli ruffianerie, è presto detto: resta la sensazione d’essere spettatori di un’abile messinscena, dove gli attori sono diventati una ripetitiva parodia di sé stessi. La propaganda propone ossessivamente, da tempo, il medesimo copione mal recitato; ciò nonostante, essa è alla perenne ricerca di nuovi interpreti da scritturare, perché c’è da accontentare un vasto pubblico d’ aficionados, nonché da sedurre le nuove generazioni. L’aura di solennità e il misticismo di cui s’è soliti ammantare la Costituzione sono la più fulgida espressione di quella moderna religione che ha elevato lo Stato agli onori degli altari, trasformandolo nel deus ex machina delle nostre vite. Dietro le quinte, il Leviatano ha continuato – e continua – a ingrandirsi, favorito da chi, per convenienze elettorali o semplicemente per errate convinzioni, si lascia irretire da tanti cattivi maestri che pontificano sulla necessità di radicali cambiamenti senza però mai mettere in discussione il potere smisurato dello Stato.

    Nel crepuscolo dei nostri tempi, i freddi apparati amministrativo-burocratici sono cresciuti, silenziosamente, a dismisura. Un’ipertrofia senza fine, che ha radici antiche, e che ha finito per contaminare non solo la politica, l’economia e la società, ma anche la cultura. Non deve sorprendere, dunque, che abbia assunto le sembianze di una confessione; e, come ogni confessione che si rispetti, ha uno o più testi sacri di riferimento, nei quali trovare comandamenti, precetti, litanie. La Carta è così divenuta una Bibbia laica, da leggere col timore reverenziale e l’accezione mnemonica che in genere vengono riservati a una millenaria verità rivelata. Un’agiografia costituzionale è stata sapientemente coltivata e diffusa, creando schiere d’obbedienti proseliti pronti a schierarsi come una falange in sua difesa. Immaginando la religione statalista come una piramide, alla sommità troveremmo senza dubbio il culto della Costituzione, divulgato e protetto da integerrimi sacerdoti, scudieri occasionali e giullari nazionalpopolari. Un culto cui aderiscono, più o meno consapevolmente, milioni d’italiani. Mettere in discussione quella che Roberto Benigni ha definito « la nostra mamma» equivale a un atto sovversivo; poiché sùbito, dai pulpiti impolverati dei pontefici della Repubblica, si levano forti gli strali e le scomuniche, quasi si fosse oltrepassato un confine invalicabile e si fosse entrati in territorio proibito. Tale è, infatti, l’isterismo che coglie molti settori della politica e dell’opinione pubblica quando si tenta di dibattere sulla Carta e di metterne in luce i (macroscopici) difetti, tantoché sembra d’avere di fronte gli adepti di una setta, integerrimi custodi di una reliquia da preservare e consegnare all’eternità.

    Spettacoli televisivi di prima serata, manifestazioni di piazza, ampollose dichiarazioni di giuristi, politici, commentatori che non perdono occasione di ricordare il carattere inviolabile e intoccabile della Costituzione: un’autentica liturgia, volta a indottrinare le menti e rafforzare la devozione. Anno dopo anno, abbiamo appreso che la più bella del mondo va amata senza se e senza ma, non criticata; va imparata, non discussa; va portata in corteo come vessillo, tra vecchi slogan mai sopiti, come salmi responsoriali che riecheggiano nelle navate di una cattedrale. Prove di una fede incrollabile, che non risparmiano neanche il passato: quelle opere – anche le più datate – di celebri studiosi che avevano esposto legittime perplessità sul dettato costituzionale vengono ristampate, ma introdotte dall’adulatoria prefazione di un qualche venerabile giurista aderente al

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