L'ultima sigaretta e altri racconti
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L'ultima sigaretta e altri racconti - Pier Luigi Camagni
giocatore
L'autore
Pier Luigi Camagni nasce a Milano nel 1960. Militante politico, blogger, social addicted, dice di sé «amante dei libri e della filosofia, idealista e con infinite contraddizioni... uomo insomma». Ha un figlio, Francesco, che gli rammenta sempre come l’unica nostalgia possibile sia quella per il futuro.
Nota dell’autore
Tutti i personaggi e gli avvenimenti narrati in questi racconti sono frutto di fantasia.
Vale in particolare per Americana, Compagni e Non è mica da un calcio di rigore che si giudica un giocatore.
Non cercate quindi di individuarvi il profilo di un certo politico o quello di un sicuro calciatore o le vere vicende calcistiche del Brescello, né pensiate che costituiscano un giudizio assoluto su un grande Paese, gli Stati Uniti, e il suo popolo.
La beltà nel seno dell’ombra
Il vecchio pescava nel torrente vicino al villaggio e guardava la vita scorrere nell’acqua che scivolava veloce verso valle.
Un refolo di vento strappò una pioggia di petali candidi dal ciliegio in fiore, che caddero lievi per essere trasportati dalla corrente, scomparendo nel turbinio di un mulinello, per riapparire poi più avanti.
Chiuse le palpebre, quasi accecato da quelle scintille di luce, la mente gli tornò a quando ragazzo abbandonò il villaggio per la bottega di Kouami Douchou, dove sarebbe stato iniziato all’arte dell’urushi.
Era un giorno di pioggia, il cielo scuro era percorso da tuoni e fulmini.
Quando i suoi occhi passarono dal buio alla luce, scoprì un mondo in cui allora, ancora giovane, lo colpiva la bellezza e la purezza delle opere dell’artista che lavorava la lacca e la polvere d’oro e d’argento con mirabile maestria.
Riaperti gli occhi, si accorse che il pomeriggio era passato, quasi che quel ricordo, invece che un istante, fosse durato ore. Prese la canna, il piccolo cesto di bambù per i pesci, vuoto, e si diresse verso casa.
Giunto al cancelletto, lo aprì, attraversò il giardino silenzioso e raggiunse la casa, le cui ampie gronde marcavano sul terreno un perimetro d’ombra di cui si sentiva signore e padrone.
Si tolse i geta, che depose vicino alla parete, e fece scorrere gli shōji.
Percorse silenzioso un lungo corridoio ed entrò nel piccolo vano che amava; originariamente doveva essere stata l’intima stanza dedicata alla cerimonia del tè, tanto che era ancora visibile la buca del robuchi.
Un chiarore dubbioso era originato dalle poche lampade del tokonoma.
Ancora una volta chiuse gli occhi, colpito dalla luce, la memoria, questa volta, andò alla sua prima bottega, quando esprimeva, con la forza dei simboli e dei disegni, tutto il mondo che sentiva dentro di sé.
Spense una lampada e si avvicinò alla tavola.
Sul piccolo tavolo basso lo attendeva la cena, ma prima si avviò al contenitore dove decantava l’urushi, per aggiungervi del ferro e ottenere così l’intenso colore scuro della lacca.
Prese un hanshi, di quella carta giapponese soffice, avvolgente, leggermente umida, che non respinge la luce con il suo candore, ma la beve lentamente.
Poi, ancora, il sumi nero fatto con il carbone, lo shitajiki e vari fude di diversa misura.
Sceltone uno, inginocchiato sul tatami davanti alla finestra, osservando l’avanzare delle ombre della sera, tracciò con mano sicura i versi di un haiku:
Leggi dell’ombra
in strati di oscurità
pagliuzze d’oro
La cena, frugale, era composta di pochi piatti: un poco di kamaboko, una ciotola di riso e la ciotola della zuppa.
Ne sollevò il coperchio e un leggero vapore caldo gli solleticò il viso e le narici.
La avvicinò alla bocca e, per un istante, ne contemplò il liquido pastoso, color argilla, che stagnava nell’oscurità impenetrabile del fondo, e le gocce minutissime che ne imperlavano il bordo, per poi sorbirla rumorosamente e soffermasi affascinato dal lucore della ciotola.
Conclusa la cena era finalmente giunta l’ora; l’ora dell’inizio del lavoro, perché lui, Saitō, il più grande makieshi del paese, lavorava solo la notte, per poter trarre dai ricami in oro e argento la luce più autentica per i suoi capolavori.
Notti e notti, incessanti, durò la sua opera, commissionata dalla più nobile delle case di geisha di Shimabara, il quartiere dei piaceri di Kyotō, ma non bastava.
Il vecchio, per tenere fede al proprio impegno, fu costretto a lavorare anche di giorno, passando strati e strati di lacca e polvere