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Il giorno in cui diventai un assassino
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Il giorno in cui diventai un assassino

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About this ebook

Trevor e Isabeau sono i protagonisti di una storia disperata e crudele dove l’amore, spinto dalla violenza degli uomini, si inabissa in un mondo fatto di odio e di oscurità.
Un labirinto senza via di uscita dove il protagonista si perde assaporando l’amaro gusto della vendetta e di una solitudine senza fine.
LanguageItaliano
Release dateJul 17, 2015
ISBN9786050387995
Il giorno in cui diventai un assassino

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    Il giorno in cui diventai un assassino - Domenico Schipani

    casuale.

    Trevor

    Infilò la chiave nel quadro e il motore riprese vita tossendo faticosamente.

    Rimase ad ascoltarne il rumore incostante con occhi vacui e lo sguardo perso nella ragnatela di gocce d’acqua che copriva il parabrezza della macchina e quando chiuse gli occhi, lampi di luce azzurrina, simili a scariche di energia in mezzo alle nubi minacciose di un temporale, guizzarono veloci contro le palpebre chiuse.

    Sentiva il sangue pulsargli forte nelle tempie e un dolore feroce stringergli la testa come una mano ossuta che con lunghe dita nodose stesse tentando di strappargli gli occhi dalle orbite.

    Poggiò l’indice e il medio della mano destra sull’arcata sopraccigliare, in mezzo agli occhi, spingendo forte, alla ricerca di un po’ di sollievo che sovente riusciva a trovare con questo sistema durante i suoi ormai frequenti mal di testa e imprecò quando si rese conto che il dolore non accennava a diminuire.

    Azionò il comando del tergicristallo e le spazzole si sollevarono come le grottesche braccia di una marionetta cancellando la ragnatela di gocce d’acqua che il temporale aveva disegnato sul vetro e l’auto, che ormai aveva smesso di ansimare, produceva un rumore che gli fece balenare nella mente l’immagine di un enorme gatto che stesse facendo le fusa.

    Stava spiovendo e fazzoletti di un cielo violaceo avevano iniziato ad apparire in mezzo al grigio uniforme delle nuvole e la strada, fradicia di pioggia, nelle ultime luci dell’imbrunire scintillava come fosse fatta di metallo.

    Provò a ricucire insieme i suoi pensieri, ma ebbe netta l’impressione di non avere la capacità di farlo, sentiva la testa come fosse un’enorme stanza vuota, fatta solo di oscurità, in cui neri spettri sorti dal pozzo oscuro che si era scoperchiato nel profondo della sua anima vagavano senza pace, portandogli all’orecchio parole crudeli che sovrastavano il rollio delle onde di dolore che si frangevano sugli scogli del suo essere cosciente.

    La vita è vana, la vita è dolore, la vita è solo inutile sofferenza.

    L’eco di quelle parole lo azzannò allo stomaco come un cane rabbioso, piegandolo in due, un pugile allo stremo delle forze che ora guardava le lacrime che non aveva nemmeno sentito arrivare scivolare sui logori tappetini di plastica della sua macchina.

    Chiuse gli occhi e afferrò forte il volante, quasi a volersi ancorare a qualcosa di reale per non precipitare in caduta libera nel pozzo senza fondo della disperazione.

    Si costrinse a rialzarsi e, quando riaprì gli occhi, il cielo aveva perso i suoi colori e le ombre si allungavano sulla strada, sentì le ultime lacrime scivolargli sul viso così come le ultime gocce di pioggia del temporale ormai passato scivolavano lente sulle facciate dei palazzi e gli parve che il mondo intero, in quel momento, stesse piangendo insieme a lui.

    Ingranò la marcia e con un sussulto l’auto si spostò in avanti ingoiata in fretta dal fiume del traffico, con gesti meccanici accese la radio e una musica dolce invase l’interno della vettura.

    Guidò verso casa, in una completa e assoluta assenza di pensieri che rappresentava per lui l’unico riparo per sopravvivere a quelle tempeste che, altrimenti, lo avrebbero cancellato via per sempre, l’unica strada per sfuggire all’orrido mostro della follia, nocchiero maledetto pronto ad accompagnarlo in un viaggio senza ritorno, traghettandolo sul mare dei suoi incubi.

    La luce dei lampioni avvolgeva ogni cosa in un innaturale color arancio proiettandogli sul viso lame di luce che si riflettevano nei suoi occhi azzurri fissi sulla strada senza alcuna espressione.

    Lontano un lampo squarciò in due l’orizzonte e il tuono crepitò come una salva di spari cancellando ogni altro rumore e restituendogli una vaga coscienza di sé.

    Aprì il finestrino e respirò forte riempiendosi i polmoni dell’aria di novembre, poi scalò la marcia e accelerò mentre l’ago del tachimetro si spostava veloce oltre i cento chilometri l’ora.

    Accostò la macchina al marciapiede, scese, chiuse lo sportello e si avviò verso la porta di casa compiendo ogni azione, ogni singolo gesto quasi senza rendersi conto di compierlo; poco lontano un gruppo di bambini rincorreva un pallone in un campetto di cemento pieno di pozzanghere innalzando al cielo un coro di grida stridule, egli però non poteva sentirli, da troppo tempo ormai percepiva tutto ciò che accadeva intorno estraneo, distante, limitandosi ad attraversare i giorni senza viverli, incatenato saldamente alle mura della cella del suo dolore.

    Infilò la mano in tasca e tirò fuori le chiavi e un attimo dopo la serratura prese a ruotare sotto la spinta delle sue dita mentre una folata di vento, più forte delle altre, lo investiva in pieno strappandogli un brivido e riempiendogli le narici dell’odore di pioggia che il temporale aveva lasciato dietro di sé come una bella donna che abbia lasciato come segno tangibile del suo passaggio l’odore dolciastro del suo profumo.

    Entrò in casa e, con fare distratto, appese il soprabito in maniera sbilenca a una delle grucce del piccolo armadio dell’ingresso, varcò la soglia del soggiorno e quando posò le chiavi sul tavolo si rese conto di non riuscire a formulare pensieri che andassero più in là di quei semplici gesti meccanici.

    Attraversò con lo sguardo la stanza soffermandosi su ogni singolo oggetto e i ricordi di un passato che gli era stato rubato senza che lui potesse fare nulla per impedirlo presero a danzargli intorno come folletti, sentì le mani della sua mente perdere la presa sui malfermi appigli che aveva a stento trovato tornando a casa, le gambe divenirgli molli e un senso di nausea impadronirsi del suo stomaco che pareva fosse investito da una gragnola di colpi, sopraffatto scivolò in ginocchio e pianse.

    Andava avanti così da quasi due mesi, da quando persone che lui non aveva mai visto né conosciuto prima gli avevano strappato via la sua vita, da quando il fato nelle vesti di un manipolo di assassini era sorto come un orrendo demone dalle profondità dell’inferno per divorargli l’anima e lasciare al suo posto solo sofferenza.

    Si alzò in piedi e asciugandosi le lacrime sulla manica della camicia s’impose di ritrovare la calma facendo appello a tutte le sue energie; Trevor Flint, progettista di software per un’importante azienda della new economy, bravo e apprezzato nel suo lavoro, che in quel momento aveva l’impressione di non avere più una vita da vivere.

    Aprì il mobile del bar e tirò fuori una bottiglia di whisky versandosene un’abbondante dose in un bicchiere con le mani che tremavano vistosamente, poi posò la bottiglia e afferrò il bicchiere rovesciando, nel farlo, parte del contenuto sul pavimento, si affrettò a bere avidamente ciò che rimaneva godendo del senso di calore che il liquido riusciva a regalargli scendendogli nel ventre e aspettando che facesse il suo lavoro stordendogli i sensi, afferrò la bottiglia con mani che ora tremavano un po’ di meno e bevve ancora.

    Non aveva mai bevuto prima o, almeno non più di qualche occasionale birra o qualche bicchiere di vino, ora invece si ubriacava di frequente e sembrava che le cose fossero destinate a peggiorare, beveva senza godere del gusto aspro dell’alcol, con l’unico intento di stordirsi per non pensare, svegliandosi il giorno dopo con la sensazione che qualcuno stesse scavandogli via il cervello dal cranio tanto era forte il dolore, tutto ciò gli impediva però di pensare, almeno in parte, e per lui andava bene.

    Prima che potesse rendersene conto il suo rendimento sul lavoro aveva iniziato a precipitare in caduta verticale, faceva molte assenze a causa di quei mal di testa, e sapeva bene che se le cose avessero continuato per quella strada non sarebbe passato molto tempo prima di ricevere una pacca sulla spalla e un calcio nel sedere che avrebbe segnato la fine della sua carriera, un lavoro che gli piaceva molto e che aveva sempre svolto con dedizione ottenendo ottimi risultati e se adesso, nonostante tutto, continuava ad averlo, era grazie proprio ai suoi crediti sul passato e alla comprensione che i suoi datori di lavoro parevano dimostrare per ciò che gli era capitato.

    Presto però i crediti si sarebbero esauriti e la comprensione non poteva durare in eterno, era consapevole di questo, anche se ormai ciò che sarebbe potuto accadere gli appariva estremamente relativo.

    Era arrivato a Francoforte due anni prima in una splendida mattina di Luglio, eccitato e felice per la promozione ottenuta grazie ai meriti che gli erano stati riconosciuti nello svolgimento del suo lavoro.

    Sarebbe dovuto rimanere in Germania un anno al massimo, così gli aveva detto Frank Davis, responsabile del personale nella sede centrale di Montreal quando lo aveva convocato nel suo ufficio pochi giorni dopo la notizia della sua promozione.

    Ricordava l’ufficio, grande e silenzioso, il pavimento di noce su cui le sue scarpe nuove scricchiolavano leggermente, e la grande libreria che occupava un’intera parete, colma di libri allineati come soldati a una parata militare.

    Frank gli era andato incontro accompagnando la stretta di mano con un largo sorriso, poi gli aveva spiegato che la società aveva qualche problema nel gestire alcune situazioni delicate nella loro sede in Europa e che lui era l’uomo giusto per risolvere quegli inconvenienti che si erano venuti a creare.

    Gli aveva spiegato che la sua permanenza in Germania non sarebbe stata lunga, solo qualche mese e, nell’eventualità più sfortunata, forse un anno, tutto sarebbe dipeso dalla velocità con cui lui sarebbe stato capace di risolvere il problema, e con un sorriso che si era disteso tanto da dare l’impressione di occupargli l’intera faccia Frank Davis gli aveva detto che aveva così tanta fiducia nelle sue capacità che non si sarebbe meravigliato di vederlo di nuovo lì il mese dopo, rise di gusto e Trevor rise insieme a lui.

    " I passeggeri del volo Alitalia 776 per Milano sono pregati di recarsi al cancello n° 17 e di prepararsi per l’imbarco……….."

    Ascoltava la voce dello speaker distrattamente, immobile, in un angolo dell’enorme aeroporto di Francoforte, sentendo le parole spegnersi una dietro l’altra in un’eco metallica che rendeva a volte difficile comprenderne il significato mentre osservava il fiume di persone che gli scorreva accanto.

    Sorrise senza quasi rendersene conto quando nella sua mente prese corpo l’immagine di sé bambino, in piedi ai bordi di un enorme formicaio, a guardare, ipnotizzato, centinaia di piccole formiche che correvano in tutte le direzioni senza un motivo apparente.

    L’immagine di quella splendida giornata di fine estate si arrampicò lungo i corridoi della sua memoria come uno scalatore esperto, regalandogli per un istante il calore dei raggi del sole che gli battevano sul collo mentre, accovacciato per vedere meglio, osservava gli insetti che, incuranti della sua presenza, continuavano a spostarsi veloci sul terreno indurito dalla mancanza di pioggia.

    Lontano sentiva la voce di sua madre che lo chiamava per la cena e i rumori dell’aeroporto parvero per un attimo scomparire.

    Uno scossone lo riportò alla realtà, e accettando le scuse della persona che lo aveva involontariamente urtato, si rese conto di essere rimasto per qualche minuto immobile, probabilmente con gli occhi vitrei, a fissare i suoi ricordi.

    Pensò all’immagine di sé che poteva aver dato in quel lasso di tempo e figurandosi immobile come una statua di sale nel mezzo di un aeroporto affollato non riuscii a trattenere un sorriso.

    Afferrò la valigia e s’infilò in mezzo alla folla continuando a sorridere, sentendosi anch’egli una piccola formica, quasi tentato, mentre si dirigeva verso l’uscita, di guardare in alto per controllare se vi fosse un enorme bambino con i pantaloni corti e i capelli arruffati che lo osservava curioso.

    Sapeva che qualcuno sarebbe venuto a prenderlo al suo arrivo, così si recò nel luogo convenuto per l’appuntamento e aspettò e dopo una manciata di minuti un uomo gli si avvicinò deciso, chiamandolo per nome.

    «Il signor Flint»?

    «Sì, sono io».

    L’uomo riprese dicendo

    «Sono Franz Bauer, lieto di conoscerla signor Flint. Sono qui per accompagnarla al suo albergo e dopo nei nostri uffici».

    Si scambiarono una cordiale stretta di mano dirigendosi verso l’automobile e durante il viaggio, che durò poco più di una ventina di minuti, Trevor cercò di evitare i lunghi silenzi che lo imbarazzavano nei nuovi incontri chiacchierando del più e del meno ma in gran parte chiedendo informazioni sulla città.

    Quando raggiunsero l’albergo, Bauer si accomodò nella hall aspettando che Trevor sistemasse i suoi bagagli e si preparasse per seguirlo nella sede della società e l’operazione, in verità, non richiese molto tempo.

    Trevor, infatti, sistemò alla meglio quello che aveva portato con sé spinto dall’impazienza di conoscere al più presto la natura dell’impegno che lo attendeva e dopo una decina di minuti era già pronto a seguire l’uomo che lo stava aspettando paziente.

    Varcarono la soglia del palazzo che ospitava gli uffici poco tempo dopo e quando passarono davanti al banco delle informazioni, l’uomo che vi stava dietro salutò Bauer che rispose al saluto con un gesto della mano.

    Attraversarono un ampio atrio con un pavimento di marmo così lucido che Trevor poteva vedere la propria immagine come fosse riflessa in uno specchio e, quando salirono sull’ascensore che li avrebbe portati al quindicesimo piano, Bauer ruppe il silenzio.

    «Ora andremo dal grande capo», disse «così sarà lui stesso a spiegarti i dettagli del tuo incarico».

    Pronunciò quelle parole con un’espressione assente e Trevor ebbe la sensazione che l’avesse fatto solo per riempire il vuoto che in quel momento si era creato tra loro.

    «Che tipo è»? chiese Trevor.

    «Una brava persona, svolge il suo lavoro con scrupolo e non soffoca i suoi subalterni».

    Si scambiarono uno sguardo di complicità e quando Trevor mimò il gesto di allentarsi la cravatta e tirare un gran sospiro di sollievo, risero rumorosamente e continuarono a farlo fino a che le porte dell’ascensore non si aprirono.

    Samuel Jackson dirigeva la sede di Francoforte da sette anni e da cinque aveva deciso di stabilirsi in maniera definitiva in Germania.

    Era un uomo alto, sulla cinquantina, in una forma fisica smagliante mantenuta tale dalle corse con cui non perdeva mai un appuntamento ogni domenica mattina e da un’ora di ginnastica serale che praticava ogni giorno nella sua palestra casalinga.

    Non si era mai sposato e viveva da solo, questo non perché non avesse mai pensato di farlo, ma solo perché dopo una serie di esperienze fallimentari, aveva improvvisamente deciso che quella era una battaglia persa nella guerra della sua vita; così aveva firmato una resa incondizionata chiudendosi lentamente in se stesso e convincendosi un po’ alla volta che l’amore, quello di cui si legge nei libri, non esisteva o, almeno, era certo che incontrarlo non fosse scritto nel suo destino.

    Si era concentrato in maniera ossessiva se non addirittura maniacale sul suo lavoro, divenendo un abilissimo programmatore informatico tanto da essere scelto, pochi anni prima, per essere messo alla guida della sede di Francoforte dell’importante società creatrice di software di cui Trevor faceva parte.

    Ora svolgeva il suo lavoro in maniera impeccabile, benvoluto, e considerato da tutti un uomo degno di stima, eppure non di rado la notte si girava e rigirava nel suo letto incapace di prendere sonno con nelle orecchie i gemiti disperati del suo cuore, prigioniero in un’orrida segreta della prigione di solitudine che egli gli aveva costruito intorno.

    Quando Trevor varcò la soglia dell’ufficio di Samuel Jackson, ebbe quasi l’impressione di camminare sull’erba tanto era morbida e folta la moquette su cui muoveva i suoi passi; un’enorme vetrata occupava quasi per intero uno dei muri dell’ufficio e incorniciava, come un quadro, i grattacieli, simili a enormi dita puntate verso l’azzurro del cielo.

    Samuel lo aspettava in piedi, accanto alla scrivania e la cosa che Trevor avrebbe ricordato in futuro ripensando a quell’incontro, sarebbe stata l’energia con cui aveva stretto la sua mano e i riflessi del sole che giocavano sulla pelle lucida del suo cranio mentre aggirava la scrivania per sedersi sulla sua poltrona questo, naturalmente, oltre al senso di assoluta sicurezza e controllo della situazione che egli riusciva a trasmettere con le parole e con ogni suo gesto.

    Samuel Jackson aveva sia le capacità che il carisma di un leader e Trevor ne rimase

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