Feminae (vocativo plurale)
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Feminae (vocativo plurale) - Massimo Scalabrino
FEMINAE
(vocativo plurale)
Massimo Scalabrino
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27
62100, Macerata
info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-686-2
ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-577-3
Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand
Via Weiden, 27 - 62100 Macerata
Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.
Ogni riproduzione anche anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.
Copyright © Massimo Scalabrino
Prima edizione cartacea ottobre 2012
Prima edizione digitale ottobre 2012
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo riservati per tutti i paesi
Mi riporti
quell’odore di ciliege
il cammino tra le rupi
mi riporti il tempo
sul filo di una spada
come se le nostre tracce
fossero i soli sogni
la palpabile persistenza
Come fosse vivo
batte il mio cuore.
Immensamente
(Anamaria Del Re)
La genesi e l’uggia
Aveva quella che si potrebbe definire una sensazione di uggia, di certo non era stanchezza. Sapeva che non sarebbe stato un lungo sonno a renderle un minimo di serenità, sapeva benissimo che se si fosse assopita avrebbe avuto al risveglio un gran mal di testa.. Percepiva uno strano malessere, non localizzato, nemmeno tanto fisico, che tuttavia la rendeva pesante, sfaccendata, incapace di riprendere in mano le poche cose che le restavano da fare. Come quando uno è assalito da un potente raffreddore che arrivato al culmine tiene impegnate tutte le proprie facoltà reattive. Poi il pensiero di quelle due bimbe le creava uno stato di profonda ansietà. Bimbe ! Di certo non lo erano più tanto. Se le fosse stato possibile avrebbe voluto dimenticarle almeno per qualche attimo.
Così incostanti, così strane, con una mutevolezza di carattere impressionante. Non poteva assolutamente contare su loro. Le sue gemelle! Così assomiglianti al loro padre, con qualche guizzo, si diceva del nonno materno. Pover’uomo, le ragazze ne parlavano spesso del loro babbo e non l’avevano mai conosciuto; per di più molti pensavano che non esistesse proprio! In verità anche lei, di suo padre ne aveva sentito solo parlare dalla mamma e mai con molto affetto. Di certo sua mamma, così bella, così raffinata, libera e luminosa, non era stata fortunata: già, ma quant’era che non la sentiva, non si telefonavano neppure…oddio.. gran che non si erano mai dette, soprattutto poi quando si era opposta con tanta violenza al suo matrimonio.
Quanta ragione!…se avesse avuto il coraggio di darle ascolto! Ma come si fa! S’era innamorata come può farlo una ragazzina…il primo amore, e non aveva capito più niente, non aveva voluto più vivere senza di lui.
Ricordava quando lo aveva presentato alla mamma, che già prima di incontrarlo aveva voluto sapere tutto di lui, quasi a farsi confermare un sospetto che le era venuto sulla personalità del suo amore: ma lei non aveva saputo raccontarle nient’altro se non della sua bellezza, della sua imperscrutabile intensità. Così sognando non capì, non si rese conto dello scatto d’ira della mamma quando lo conobbe, quasi lo avesse riconosciuto. Ed ancora le restava inspiegabile quella frase, che in un misto di rabbia e di disperazione, riuscì a gridarle in faccia, non appena se lo ritrovò davanti.
Quello stupida
urlato con cattiveria, e guardandola fissa negli occhi… ..non vedi come assomiglia a tuo padre, vuoi essere infelice come lo sono stata io?
E quel violentissimo sbattere di porte, quell’urlo incredibile della mamma… no, il suo matrimonio non ebbe la benedizione di sua madre. Quanto al babbo non si fece vivo neanche in quell’occasione. Nella sua memoria sfumava l’immagine di suo padre. Forse l’aveva visto qualche volta, da piccola; o l’aveva intravisto nel mondo che sua mamma a volte, ma molto raramente, le descriveva, lasciandosi quasi andare con nostalgia a parlare di lui.
Era, pare, o era stato, il suo babbo, un personaggio molto potente.
Chi ne parlava lo faceva con grande rispetto ed a volte con grande paura. Non c’era mai, eppure si diceva che fosse a conoscenza di tutto ciò che accadeva; alcuni poi dicevano, i più tifosi, che lui sapeva le cose prima che accadessero.
Era molto più vecchio della mamma, e sinceramente non aveva mai capito lo strano rapporto che c’era stato tra loro. Nei momenti di buona, la mamma parlava di lui come un padre, forse per la differenza di età, raramente come marito, mai con parole d’amore vero, da innamorata.
La sua sorpresa fu quando trovò, in una cassapanca in soffitta, quella curiosa lettera di suo padre; la cosa che di più la colpì fu la bellezza della carta, la chiarezza, si disse, la luminosità della calligrafia e poi il testo della lettera! Scriveva alla mamma chiamandola amore mio
ed a volte figlia cara
. Dopo tanti anni ricordava a memoria quella lettera, che aveva letto e riletto cento volte senza capire perché amandola tanto l’aveva lasciata sola, con lei bambina così piccola. Rivedeva se stessa, seduta in soffitta su una pila di vecchi giornali rileggere quella strana, luminosa lettera di suo padre che diceva così. Energia, amore mio, puoi pensare che sia stato facile per me, dopo averti pensata, essermi così perdutamente innamorato di te: anche per me pensare non vuol dire vedere. Infatti solo dopo averti pensata e poi creata ti ho vista ed ho capito a fondo la tua straordinaria, potente e splendente bellezza. Così contravvenendo alle mie stesse regole, non mi è stato possibile non amarti profondamente. In tutta la mia esistenza nessuna creatura sarà bella come te. Figlia mia, se dovessi ancora viverti vicino, la tua forza s’imporrebbe a me stesso, e dal momento che sai chi sono destinato ad essere, non posso che lasciare la tua vita ed il mio amore nelle tue mani. Avremo una figlia. Avrai cura di lei, perché se da un lato sarà rappresentazione di te, è anche e soprattutto mia figlia. La chiamerai Materia, sorvegliala con amore materno perché di lei è l’universo. Ti bacio, per sempre, tuo Dio.
Così si firmava mio padre, Dio. Io non credo di averlo mai conosciuto, ed a tutt’oggi non so se sia mai esistito. Di sicuro mia mamma Energia non ebbe torto ad irritarsi quando conobbe Tempo, il ragazzo di cui mi ero innamorata, se aveva da subito intravisto qualche somiglianza con Dio e aveva capito quanto mi avrebbe resa infelice. Tempo era bellissimo, anche se un po’ sfuggente. Era senza età, e sembrava che gli anni non potessero mai intaccare il suo volto di fanciullo. Le sue burle erano atroci, soprattutto nei travestimenti esprimeva il meglio di sé. La mamma si spaventava tanto quando lui le appariva d’improvviso, nelle sembianze di un vecchio carbonaio, sporco non solo nella pelle e nei cenci, ma nello sguardo ambiguo e cattivo. Fu così che lo conobbi. Ero appena uscita dal collegio delle Orsoline, quando, alla mia prima festa di carnevale, mi si presenta un vecchio mendicante che sul piattino delle elemosine invece degli spiccioli aveva messo un biglietto su cui aveva scritto di fargli la carità ..di un ballo! La cosa mi fece sorridere ed accettai. Ballava benissimo! Subito dopo quel ballo ricomparve vestito da principe azzurro, bellissimo e m’ invitò per ballare un lento. Quando ci si metteva Tempo era lentissimo: tanto lento ed avvolgente…era il mio primo ballo, dopo anni di scuola alle Orsoline. Senza precauzioni e chi le conosceva! Restai subito incinta. Furono mesi bellissimi, fino alla nascita delle due gemelle. Benedette ragazze con quella sorta di follia. Senza un padre vicino: il loro babbo scomparve nel vederle, leggendo cosa aveva scritto sulla culla la mia mamma che voleva si chiamassero una Vita e l’altra Morte.
Tempo mi telefonò dicendomi che già era incerto sulla propria esistenza, ma poi l’idea di aver fatto nascere Vita e Morte lo terrorizzava. E se ne andò per sempre. Non so cosa Energia veda in loro di somiglianza col nonno o con il padre, certo è che la loro irrequietezza è sublime. Non hanno assorbito nessun principio morale, sanno essere dolci e terribili a capriccio, senza senso alcuno. Vivono in questa casa come se non ci fossero. Delle due non saprei quale scegliere perché sono uguali nella scelleratezza e nella tenerezza. Non si sa mai se tornano per il pranzo o per cena e spesso la sera mi tocca aspettarle fino a tardi.
Ed ecco che, per colmo della noia sta cominciando a piovere! Nel riprendere in mano il lavoro a maglia pensò che anche oggi sarebbe stata un giornata uggiosa.
La profondità del sentire
Francamente può non sembrare possibile! Certo appare molto dolce, pieno di sentimento, romantico, ma volendo anche un poco ridicolo. Se poi la cosa si sa in giro, troviamo solo un piccolo gruppo di persone disposto, conoscendo i personaggi, o meglio, di uno avendo una lontana memoria e dell’altro la simpatica sensazione che possa ospitare nel suo cuore un pizzico di follia, disposto si diceva ad accordare alla storia un sorriso di benevola accettazione. Altri potranno pensare che si sia voluto inventare una curiosa vicenda nella quale i personaggi, così diversi fra loro, così singolari, vengano fatti incontrare per dar vita a qualcosa d’insolito per suscitare un vago desiderio di sorriso di fronte ad un amore
infantile, mai dimenticato, mai nascosto e mai ritrovato. Tutto ciò perché siamo abituati a considerare come reale l’ordinario, l’abitudine, e quello che non lo è ci mette in tale stato di agitazione da costringerci a colpevolizzare l’evento diverso, prendendo a prestito dal consueto codice del perbenismo leggi di comportamento così lontane dal nostro sentire da sembrare nella loro stupidaggine, veri e propri monumenti ad un innaturale e doloroso imperativo morale.
Nell’ascoltare il dipanarsi del racconto, quasi prima che questo cominci, a riprova di quanto detto poc’anzi, si potrebbero invertire sul piano fisico alcuni termini del problema, e tentare un’analisi arrovesciata dei personaggi. Se la donna anziana fosse stata un uomo e l’adolescente maschietto una femminuccia, chi non sarebbe disposto a vedere nella storia un risvolto lolitesco, e addirittura riscriverla, magari con particolari pieni …di particolari.
Dotati di buona memoria ci sovviene, neanche fossimo Alberto da Giussano, un proverbio latino che più o meno recita come il discolparsi senza necessità sia un po’ come auto colpevolizzarsi!
Arrivato o meglio superata la metà della sua vita, il protagonista di questo racconto si accorse che dalla memoria dei suoi innamoramenti emergeva una sensazione di vuoto, come se vi mancasse un momento, un riscontro; e più ancora, gli amori vezzeggiati nel ricordo si sentissero quasi orfani, come se tra loro ne mancasse uno, l’originale, quello che nel tempo li aveva plasmati e fatti riconoscere.. Chiamarlo amore
non era facile, e dato il contenuto e l’abito che diamo di solito a questa parola, mal si addice all’insieme di sensazioni che nel corso degli anni la memoria tendeva a ricomporre. Tuttavia non sarebbe sbagliato rivalutare questa espressione approfondendone i contorni ed i contenuti per ridarle il suo senso più originale. In fondo nessuno sa cosa vuol dire amore
. Parola di misteriosa origine: potrebbe essere nata a-more, da -mors- mortis- come morte, stando a significare la sua eternità, senza morte. Chi ama non muore mai. Oppure a-more. Da -mos moris- come costume, legge, morale, non esiste limite all’amore e all’amare. Chissà?! Proprio per evitare che essa si possa applicare a stereotipi di comportamenti dove alla fine si potrebbe identificare in atteggiamenti mentali e fisici che stanno all’amore come la carta stagnola sta al cioccolatino. Conviene che si descriva questo straordinario personaggio di donna, la quale, così per raccontare, ad un certo punto della sua ultima malattia, decise che il colore e l’odore delle medicine prescritte per alleviarle il dolore non erano più di suo gradimento; quindi alzatasi dal letto le rovesciò tutte in un piccolo catino, augurandosi che il catino stesso non ne soffrisse, perché quel miscuglio era pestifero! Per quanto la riguardava preferì una cucchiaiata di ragù e una fetta di prosciutto!
Come agli antichi etruschi quando addobbavano i sepolcri con grano ed altre vivande, lei se ne partì con questa piccola e gustosa scorta per il suo più lungo ed apparentemente ultimo viaggio.
Al nostro disperato diciassettenne ragazzo, di fronte per la prima volta nella sua vita all’incomprensibile atto della morte, non restava che sedersi sullo scalino più freddo di una lunga scala di marmo e sfogare il suo solitario e profondissimo dolore, in un pianto dirotto.
Da quel momento in poi non ci fu che il ricordo da custodire o meglio da coltivare, non perché fosse un oggetto da museo, ma attraverso un’introspezione continua potesse ricercare tutti quei chiarimenti che, se da un alto mantenevano viva l’immagine di lei, dall’altro andavano scoprendo la vera essenza di un rapporto basato su una affascinante simpatia. Ora sul suo tavolo di settantenne, più o meno ben portante, tra libri antichi, pipe, candelabri e tra altre foto, giganteggia una sua immagine fotografica che la ritrae ventenne, nei primi anni del novecento, con un indescrivibile vestito pieno di lacci e fronzoli, il lungo collo scoperto, le labbra molto belle, piene, chiuse in un muto sorriso più che altro ricordato che visibile. Il dato fondamentale del suo essere era una dolce continua allegria ed una totale disponibilità di carattere verso il mondo, il tutto miscelato con una originale e sincera generosità.
Scoperta nel nipote una vena social-comunista e visto il suo accanimento giovanile nell’affermare le sue convinte idee, decise di farlo miracolare e se lo portò dietro per tutti i santuari d’Italia, non trascurando alla sera, nei dopocena, di erudirlo ai segreti del poker, nel quale lei era insuperata maestra! Chi avesse potuto, in quelle sere di primavera infilare il suo naso tra i vetri di quella finestra di quell’albergo di Assisi, avrebbe assistito ad un incontro all’ultimo bluff, in mezzo ad improvvisi scoppi di risa, tra quel mingherlino di un nipote che si divertiva da matti con quella adorabile matta di una nonna! Ma quello che lo affascinava di più era il sentirla raccontare dei suoi viaggi, di quell’America dei primi del novecento, vista con gli occhi di una ragazza che si era ritrovata a Boston dopo due tempestose storie d’amore. Vi aveva vissuto con il suo secondo marito, accompagnandolo in una lunga tournèe per i teatri delle grandi città americane, applaudito tenore. Parlava spesso del suo amore per Alfredo, suscitando sempre una punta di gelosia, per quel brillio degli occhi, quando il racconto s’ inteneriva nel riproporre, come attuali, sensazioni e sentimenti che da tant’anni riposavano vivissime nella sua memoria. E il ragazzino seguiva questo raccontare, concentrando la sua attenzione sulle mani grassocce e piene di efelidi della nonna che, nel loro muoversi, sembravano disegnare scenografie così care e familiari, sempre lì, pronte per essere nuovamente accarezzate, testimonianze attive, cornici mai dimenticate di momenti assoluti dai quali traeva non solo spunti per una fiaba dolce e romantica, ma insegnamenti decisivi sul come gli attimi di amore vadano vissuti con assoluta profondità perché possano essere strutture portanti di tutta una vita.