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Lessico sentimentale
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Lessico sentimentale

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About this ebook

Una storia affascinante da leggere tutta d'un fiato !!
LanguageItaliano
Release dateJul 9, 2015
ISBN9786051766201
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    Lessico sentimentale - Gioia Ramaglia Ricci

    sentimentale

    Lessico sentimentale

    Quel giorno, mi svegliai alle otto, era giugno e faceva già un po’ caldo.

    Mi alzai. Avevo la camicia bianca da notte di piquet, ero talmen­te cresciuta che ormai mi arrivava quasi alle ginocchia.

    Andai in bagno, che stava dirimpetto alla mia camera da letto.

    Il bagno era di marmo bianco, sembrava fresco solo a guardarlo.

    I lastroni arrivavano a metà parete, il resto era di muro bianco e increspato. La vasca da bagno era sempre stata un problema per tutti noi, perché la nostra gatta siamese, Sciuscette, andava a farci la cacca dentro per dispetto: bisognava guardarci, prima di farci scende­re l’acqua.

    Sciuscette aveva tre anni, era grigia-beige e aveva gli occhi più celesti del mondo.

    Ormai era sempre così: quando restava sola in casa si vendicava e andava a sporcare nella vasca.

    L’avevamo sgridata, messa col muso sopra, mia madre ci butta­va l’aceto dopo aver pulito, ma non c’era niente da fare: Sciuscette ritornava sempre nella vasca.

    Il lavandino era a sinistra della porta; a destra, prima c’era il bidet, e poi il water; di lato al water, la finestra coi vetri opachi.

    La finestra era grande, a due vetri, e affacciava al primo piano del palazzo d’inizio secolo, di cinque piani più il terrazzo all’ultimo piano. Sotto c’era il Parco pieno di alberi, di arance e di mandarini.

    Dalla finestra la vista era bellissima: di fronte a casa la palma sbatteva le sue frasche per aria a ogni colpo di vento, il cielo era celeste chiaro, si vedeva a sinistra il Vesuvio, Capri di fronte e Posillipo a destra. Era una distesa verde che si allungava nel mare.

    Il Parco mi piaceva molto: ci andavo a scavallare, per ore, tutti i giorni. Mi sentivo così libera e felice, senza mai nessuna macchina che passava.

    Il Parco scendeva giù lungo e largo: del colore della terra battu­ta, si snodava per sei curve fino a congiungersi alla strada cittadina, ai lati era ombreggiato d’estate da alberi di acacie bianche e profumate, da cespugli di ginestre e di rossi ibiscus.

    Dopo la prima curva c’era un vecchio castello che attirava la mia attenzione: era nascosto da pini altissimi e si poteva guardarlo solo dall’esterno.

    Mi sedetti sul water.

    Non si sentiva nessuno per casa. Mia madre e mio padre, forse, dormivano ancora. La finestra era aperta e un bel sole entrava nel bagno.

    Me ne stavo seduta cercando di concentrarmi sulle mie funzioni mattutine quando udii forte, stridente, la solita sirena che annunciava l’allarme, le bombe, le case distrutte, la paura.

    Era la seconda volta che mi capitava quando ero in bagno e, anche adesso, mi bloccai per lo spavento. In qual momento arrivò mia madre: era già vestita, mi disse di scendere subito con lei nel ricovero. Cercai di spiegarle che non potevo alzarmi ma lei mi afferrò al volo e di corsa scendemmo giù.

    Faceva sempre così, tutto di corsa. Approfittava dei miei sei anni per trattarmi come un pacco. Decideva tutto lei. Mi faceva rabbia la sua sicurezza: mi ribellavo e non volevo cedere.

    E quando provavo a replicare, in due parole mi liquidava mostran­domi che sbagliavo. Però quella volta avevo ragione io: mi doveva lasciar finire. Tanto le bombe non c’erano mai cadute sulla testa.

    Il ricovero che stava in fondo all’androne del palazzo era un lungo cunicolo non tanto alto. Le pareti erano gialle, con delle panche di legno marrone addossate, e una lampadina fioca che pendeva dal soffitto a volta. La puzza dell’umido era tremenda. Dopo di noi arrivò mio padre: ci sedemmo tutti e tre su una panca mezza scassata aspet­tando rassegnati la fine del bombardamento.

    C’erano altre persone del palazzo, e tutti erano pallidi e tesi come noi. Quasi tutti erano scesi come si trovavano: chi in pigiama, chi si era infilato una giacca sulla camicia da notte; qualcuno si era portato una bottiglia con dentro il caffè. I bambini dormivano in braccio ai genitori e un cagnolino bianco non voleva mai stare a terra, ma voleva andare sulle panche, che però erano tutte occupate. Anche se queste persone le vedevo tutti i giorni al ricovero, non mi ricordavo mai i loro nomi.

    Anche lì dentro si sentivano gli scoppi delle bombe che cadevano. Sembravano vicinissime.

    Mia madre aveva le mani morbide, un poco cicciose, e io c’infilavo la mia e stringevo per sentirmi più tranquilla.

    Il ricovero attraversava tutto il palazzo, una lunga caverna al centro della terra, nessuno sapeva dove e quando finiva. C’era chi rac­contava che scendesse passando sotto la città e arrivasse al mare.

    Tranne la parte dove eravamo seduti noi, che era abbastanza alta da non dover camminare piegati, il resto del corridoio procedeva a curve, basso, e scuro alle pareti, per la muffa verde e appiccicosa. Una volta ci entrai con mio padre, era buio e noi non avevamo una pila: mio padre accendeva un fiammifero dietro l’altro e, quando finirono, dovemmo tornare indietro.

    Quando i bombardamenti divennero più incessanti andammo tutti a Positano. Lì nessuno ci pensava alla guerra: era il Paradiso. Adesso stavamo sempre per la strada... finalmente.

    Mio padre ci guardava andare coi suoi grandi occhi celesti, di malumore. Lui non partecipava mai: era chiuso, aveva un carattere introverso. Era geloso, si arrabbiava con mia madre, diventava violen­to e, per giorni, non rivolgeva più la parola a nessuno.

    Una volta fece volare la tavola apparecchiata, con sopra tutti i piatti. Mia madre taceva, lasciava correre, forse per non peggiorare una situazione già tesa.

    Lei era bellissima. Io la difendevo, ero sempre dalla sua parte, non sopportavo la violenza di nessuno e intuivo che mio padre sbaglia­va. Ma lui era così: assorto sempre nei suoi pensieri, che riguardavano lei: la osservava taciturno, con la sua bella faccia imbronciata e gli occhi intensi.

    Una volta mi arrabbiai anche io, non ne potevo più dei suoi urli: lei se ne stava seduta calma su una sedia della stanza da pranzo con i capelli rossi che le cadevano sul viso, mio padre continuava a buttare tutto all’aria: i piatti, i tovaglioli, le posate, e alla fine anche un tavolino che mi arrivò sulle gambe e mi fece male. Questo mi fece scatenare: afferrai dei bicchieri superstiti dalla tavola e guardandolo dritto negli occhi gli dissi: «Vuoi vedere che lo so fare anch’io?». E scagliai i bic­chieri il più lontano possibile. Ci fu un rumore fortissimo e i pezzi volarono per la stanza.

    Avevo avuto l’effetto desiderato mio padre smise di urlare e, dopo pochi minuti, uscì sbattendo la porta di casa. Finiva quasi sempre così e quando lui se ne andava, a farsi passare la rabbia, mia madre mi prendeva tra le braccia, mi faceva una carezza sul viso e poi, con calma, raccoglieva i cocci da terra. Dopo le sfuriate di mio padre me ne anda­vo in camera mia, mi stendevo sul letto e, guardando il soffitto, m’in­ventavo delle canzoni. Mi cantavo di barche che andavano nel mare, di uccelli sulle rive, di bambole rotte...

    Io della nostra casa di Napoli ricordo quasi tutto: i divani bian­chi di stoffa grezza e pungente, il marmo rosa striato di verde con i piedi arrotolati di ferro battuto incassato nel muro del corridoio, le due panche verde e oro dell’ingresso ma, soprattutto, la camera da letto di mia madre con il copriletto lilla chiaro di raso morbido, la toilette con il marmo bianco e lo specchio ovale incorniciato dal legno scuro, le spazzole di tartaruga nera con le iniziali in oro, la vestaglia di velluto rosso appesa nell’armadio a muro, che mi mettevo quando lei non c’era e mi ci addormentavo dentro.

    Vi erano due camere da letto, un salone, un corridoio lungo e largo, il bagno di marmo e la cucina che non aveva finestre. Nella cuci­na c’era la ghiacciaia di legno marrone e ogni giorno ci mettevamo un grande pezzo di ghiaccio avvolto in una striscia di tela di sacco. La cuci­na era divisa dal bagno da un muro che, a metà altezza, continuava con una vetrata ovale bianca e opale.

    In fondo al corridoio c’era una tenda grigia che, quando era chiu­sa, nascondeva il tavolo da stiro, una cesta per i panni puliti e un letto, per la cameriera - quando l’avevamo -, che stava nell’angolo di sinistra.

    La mia camera era più lunga che larga, col letto in fondo sulla sini­stra; di lato c’era l’armadio con gli specchi e più in là, a destra, un tavolo di legno celeste dove la sera mangiavo e di giorno facevo i compiti.

    Quando andammo a Positano, dovemmo regalare il gatto a una signora che abitava anche lei nel Parco: mi dissero che non potevo por­tarla con me perché c’era la guerra ed era troppo complicato.

    Sciuscette era la mia compagna di giochi, le preparavo da man­giare con quello che trovavo in cucina: certe volte la imboccavo con un cucchiaino e lei era contenta, me lo dimostrava ronfando e mangiando tutto in cinque minuti. Dopo veniva nel mio letto e si addormentava sulla mia pancia.

    Finiva che per non svegliarla mi addormentavo anch’io.

    Feci mille domande alla signora che la adottò: volevo essere sicura che il mio gatto sarebbe stato bene anche con lei.

    Lei era una donna piccola di statura con i capelli bianchi raccol­ti sulla nuca. Si prese subito Sciuscette in braccio e se ne andarono insieme.

    La casa di Positano stava all’inizio del paese, sulla sinistra scen­dendo: erano tre stanze, due camere da letto e un salotto che affacciavano su di un grande terrazzo senza fiori. Alla fine del terrazzo c’era un cancello che dava sulla strada.

    Era ammobiliata con dei brutti mobili rustici chiari, un divano di pelle marrone e sedie di vimini, ma a guardarla da fuori era una bella casetta con il tetto spiovente di tegole rosse.

    Di fronte a noi abitavano i nonni: eravamo tutti scappati dalla guerra!

    La madre di mia madre abitava in una casa a due piani, e il salotto dava su un giardino che era tutto un roseto, intervallato da piante di fichi d’india; le tre camere da letto affacciavano sul giardino e sul mare poco più giù.

    Mia nonna aveva divorziato da mio nonno e sposato un avvocato a cui ero molto affezionata.

    Non ricordo più quando mia madre mi diede la lettera che mi scrisse mio nonno, che viveva in Egitto: me l’aveva scritta che ero appena nata. Me l’ero fatta leggere già tante di quelle volte, che la conoscevo a memoria. Con la lettera, mi mandò una scimmietta col pelo marrone e gli occhi di vetro gialli. Mi mandava le sue fotografie che lo ritraevano a cavallo... era molto elegante: alto, magro, e portava sempre il monocolo.

    Mi ritenevo una bambina fortunata visto che avevo più nonni di quelli che mi spettavano.

    Dopo il divorzio da mia nonna, lui non è mai più venuto in Italia.

    Io pensavo spesso a lui ma, purtroppo, non l’ho mai potuto vedere, perché morì prima della fine della guerra.

    La mattina presto scendevamo di volata le scale di Positano: e io che non sapevo ancora scenderle bene usavo sempre lo stesso piede, mia madre si seccava della mia lentezza, mi afferrava dalla vita, mi poggiava di lato sul suo fianco e di corsa arrivavamo fino a giù, io col cuore in gola e lei ridendo per il mio spavento..

    La spiaggia era bellissima, vuota, tutta per noi; il mare, appena increspato, mi bagnava i piedi mentre cercavo le conchiglie rosa.

    Lei si metteva un costume a due pezzi bianco con un nodo lega­to sulla pancia aveva molti amici, sembrava veramente una vacanza per tutti perché la guerra in quella spiaggia non c’era.

    Avevamo una barchetta che dondolava legata vicino alla spiag­gia, ma mia madre non ci saliva mai: solo l’idea le faceva venire il mal di mare. Io, tenendo la fune con le mani, ci salivo, mi sedevo e mi affacciavo dal bordo a guardare il fondo: speravo di vedere il serpente di mare che avevo visto, una volta, strisciare sul fondo sabbioso.

    Al bar ci andavamo a mangiare le croquettes di pollo fritte che cucinavano tutti i giorni e che finivano subito.

    Mio padre andava e veniva da Napoli con qualunque mezzo riu­scisse a trovare: una volta arrivò a Sorrento con la macchina di un amico e poi affittò una carrozzella per venire da noi. Oramai di soldi ne avevamo pochi: tutti i lavori erano fermi per colpa della guerra e lui era sempre più nervoso.

    Un giorno - forse ero stata cattiva - si tolse la cintura dei pantaloni e me la diede sul sedere. Per la verità non mi fece molto male, ma quello che mi spaventò fu il gesto violento.

    Dopo, lui e mia madre litigarono.

    Andavamo spesso da mia nonna: lei bolliva le patate, le tagliava a fettine e le spalmava di marmellata. Non si trovava più molto da mangiare.

    Nel muretto basso che cingeva il giardino di mia nonna c’era un buco e dentro sapevo che si nascondeva una biscia. Ci andavo armata di un bastone per cercare di stanarla, e alcune volte usciva, ma andava subito a infilarsi in qualche altra parte. Mio nonno diceva che se le bisce fossero state due mi avrebbero attaccata.

    Mio padre non tornò più a Positano:, i miei avevano deciso di separarsi. Andò a vivere da sua madre, che abitava a casa di sua sorel­la. Quando mia madre me lo disse, radunai tutti i miei giocattoli davanti al cancello del nostro terrazzo e ad uno ad uno li scaraventai fuori. Vennero dei bambini e se li presero, e uno di loro mi diede una biglie verde.

    Mio padre adorava sua madre e sua zia: erano, credo, le uniche persone con cui andasse d’accordo.

    A me facevano impressione: arrivavano tutte vestite di nero con enormi cappelli, i volti nascosti dalle velette, le facce bianche di cipria. Quando si chinavano per baciarmi mi facevano starnutire.

    Erano due intriganti: quando venivano a casa nostra e mia madre non c’era, le vedevo che andavano a frugare in tutti i cassetti della casa.

    A Positano presi il tifo.

    Ormai, siccome stavamo quasi sempre a casa dei miei nonni, mi misero in una delle camere del secondo piano, in un letto enorme a fiori bianchi e blu.

    La camera era in penombra, gli scuri accostati lasciavano passare poca luce.

    Ebbi la febbre alta per molti giorni. Ogni tanto veniva il medico, ma le medicine erano poche.

    Vedevo i volti sfocati che si chinavano su di me, mi misuravano la febbre, qualcuno mi prendeva la mano, qualcuno mi accarezzava la fronte.

    Non so se era un sogno o la mia immaginazione, ma durante quella forte febbre avevo la sensazione di essere immersa in una luce lattiginosa bianca che, spesso, sfumava e diventava azzurra, e mi sembrava che tutta la stanza galleggiasse in questa nebbia.

    Quando finalmente guarii mi feci accompagnare allo specchio che stava di lato alla finestra, mia madre mi portò quasi in braccio: non avevo più la forza di reggermi. Barcollando mi guardai: non avevo più un capello in testa.

    Passai i giorni della convalescenza seduta nella poltrona accanto al letto, toccandomi di continuo la pelata. Mia madre cercava di rassi­curarmi: mi diceva che in breve mi sarebbero ricresciuti più folti di prima.

    Per colpa della guerra, molti altri ragazzi presero il tifo, alcuni come me guarirono ma tanti altri, figli di amici dei miei genitori, non ce la fecero.

    Finalmente la guerra finì.

    Io e mia madre tornammo a Napoli con una macchina in fitto, talmente vecchia e malandata che ci mettemmo quasi cinque ore.

    Napoli era semidistrutta, c’erano macerie ovunque: case spacca­te a metà dalle bombe, desolazione. Una nebbia di polvere acre avvol­geva le tante persone che andavano con qualunque mezzo - auto, carretti o a piedi - a recuperare qualcosa tra le pietre.

    La nostra casa, per fortuna, era intera.

    Ricordo la faccia di mia madre quando, entrate in casa, ci accorgemmo che non c’era più un mobile, un quadro, un oggetto.

    La casa era vuota.

    C’era rimasto solo il marmo rosa del corridoio, forse perché era cementato al muro. Mio padre si

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