C'era una volta una gatta...
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C'era una volta una gatta... - Silvana Agostini
senso!
I
Lunedì
Gettò la borsa sul divano, le chiavi sulla mensola. E finalmente si liberò delle lacrime. Lacrime di desolazione, solitudine, e sì, anche di rabbia. Poi, come un automa si spogliò e andò a letto. Con il lenzuolo cercò di coprire il ricordo di quella giornata straziante che sembrava non finisse mai. Ma fu inutile. Così andò sotto la doccia e mentre le lacrime divennero un tutt’uno con l’acqua, lasciò che il getto freddissimo la trafiggesse, al pari di una spada. Per parecchi minuti ogni cosa intorno a lei si nebulizzò come le gocce che allegramente si rincorrevano e poi sparivano. Solo quando cominciò ad avvertire brividi di freddo, chiuse il getto e si avvolse nell’accappatoio. I fiori impressi nella spugna la accolsero gioiosi. Ma contrariamente a sempre, non si fece coccolare. La disperazione perdurava. Così aprì l’armadietto e inevitabilmente si trovò a ingoiare le solite pillole. E fu solo dopo aver vuotato una bottiglia di minerale che si buttò sul letto. Attese che i suoi angeli custodi facessero effetto.
Non dovette aspettare molto prima di precipitare in un incubo nero abitato da parole distorte, da venti incontenibili, da musiche stonate, da volti inanimati…
Drin drin driiinnn. Lo strillo improvviso continuò impaziente e imperterrito. E prima che esaurisse il suo tempo, arrivò a segno. Fu quasi una detonazione. Valeria sobbalzò più volte credendo che fosse uno dei tanti suoni che avevano popolato i suoi sogni. Poi, rendendosi conto che era ben reale, aprì gli occhi e allungò la mano sul comodino. Non fece in tempo perché l’ostrica argentata si zittì. Si mise a sedere appoggiandosi al cuscino. Si toccò i capelli, il viso, si stropicciò gli occhi imponendo loro di aprirsi.
Si passò la lingua sulle labbra umettandone la secchezza. Che giorno era della sua nuova vita? Inforcò gli occhiali e il display le rimandò la scritta le otto, e, ancora, Ufficio. Capì che non poteva più negarsi. Pigiò il tasto e quel gesto la ripiombò nel presente.
Neppure l’attimo di uno squillo, che il suo vice, con voce gentile e un po’ dispiaciuta, la riportò al dovere, sorvolando volutamente sul suo dolore. Elencò una serie di cose accadute durante la sua assenza, la informò su procedure quotidiane da sbloccare, su fatti nuovi che avevano bisogno assoluto della sua presenza. Tutto quel dovere sembrò liberarla dalla abulia che come una fitta nebbia le aveva fatto perdere la cognizione di sé.
Almeno qualcuno aveva bisogno di lei.
Si trovò pronta quasi senza accorgersene. La doccia, questa volta calda, la liberò da ogni traccia di angeli custodi e si sentì leggera e più lucida, anche se la sua anima continuava a essere avvolta nel dolore.
Avrebbe sofferto ancora un bel po’, si disse.
Afferrò la borsa e se la mise a tracolla. Acchiappò le chiavi del motorino e chiuse la porta dietro di se. La scala era stranamente silenziosa.
Ormai quasi tutti erano usciti per mete quotidiane: scuola, asilo, lavoro. Pochi i rimasti. Giusto la signora Pina del piano di sopra che, in pensione da tempo, si trastullava con le ore per farle evaporare più velocemente. Giusto il Giuseppe che, in cassa integrazione da parecchi mesi, si crogiolava nella sua dorata frustrazione. Giusto la signora Renata che avvolta nella demenza più squallida e ahimè incontrollabile, continuava a infliggere ai familiari, ormai allo stremo, parole scurrili quando non offensive. Come in un film dell’orrore: ogni mattina, alla solita ora.
Si gettò nel traffico. Dribblò fra scatolette di ogni forma e colore. Clacson garrenti, sgassate, stridii di freni: ogni mattina la sinfonia del buongiorno.
E meno male che a smussare tutto quel casino c’era la sua pasticceria! Un profumino di cose buone la avvolgeva ogni volta e, ogni volta invariabilmente, le trasmetteva buonumore. Che quella mattina certo non provava. Entrata, si soffermò al solito sulla vetrina, ma i pasticcini ricamati come sete preziose dai colori e forme diversi la lasciarono indifferente. Ma anche le girelle, i torciglioni, i cornetti dagli occhi di morbida crema allineati come soldatini su grandi teglie appena sfornate, le sembrarono sirene senza voce. Si sentì risucchiare nel vuoto e il cornetto, appena addentato, scivolò nel cestino. Lo stomaco le si era chiuso del tutto. Mentre il ricordo di Valerio riemerse prepotente.
Uscì frettolosamente. I saluti che la inseguirono le sembrarono anch’essi velati di compassione. Come inizio non c’è male, si disse per il resto del tragitto e mentre arrivava a destinazione. Si tolse il casco e la coda di cavallo si imbizzarrì più volte prima di ritrovare la solita staticità. Si impose un respiro profondo, anzi, inspirò ed espirò più e più volte prima di affrontare i numerosi gradini. E mentre saliva si chiuse di nuovo nello scafandro virtuale quasi una cortina per isolarsi. Puntò dritta verso il suo ufficio.
Commissario Allegria.
La targhetta ha bisogno di una lucidata, pensò inconsciamente, prima di aprire la porta. Si è ingrigita; come la mia vita.
La stanza era ancora lì. Ma in quel momento le sembrò fredda e nuda nonostante i suoi effetti personali. Chiuse il battente dietro di se e vi si appoggiò. Doveva estraniare il suo sentire dalla realtà. Appoggiò la borsa sulla scrivania e in quel momento il telefono prese a strillare quasi come se avesse percepito il suo arrivo. Si ricompose prima di alzare la cornetta. La voce dell’ispettore Sorbetti la riportò al quotidiano.
Stroncò sul nascere ogni convenevole pregandola di passare da lei. Non prima di una mezz’ora, le impose.
Accese il computer e cliccò sulla posta elettronica. Una sfilza di messaggi che non finiva più si concretò in un secondo. Scorrendoli, si accorse che la maggior parte potevano essere di cordoglio. Anche se la parola era davvero impropria alla sua situazione. Li ignorò volutamente puntando il cursore sugli altri. E così, sdoppiandosi con la tenacia di sempre, fece riemergere la professionista quale era: seria, responsabile, attenta. Un lieve bussare le annunciò la Sorbetti che rispettata la mezz’ora, entrò sfoggiando un’aria di circostanza che davvero non le si addiceva.
Buon giorno commissario,
proferì allungandole un mucchio di fogli impilati così male che appena appoggiati sulla scrivania cominciarono a fuggire da ogni parte.
Vedo che niente è cambiato,
disse l’Allegria per alleggerire la tensione.
Con aria assai mortificata la Sorbetti si scusò, cercando di riacciuffare i fogli recalcitranti.
Va bene, va bene. Aggiornami sugli sviluppi. Velocemente per piacere. Magari ragguagliami solo sulle cose più importanti e certo più urgenti perché fra poco ho un appuntamento,
disse mentre faceva finta di scarabocchiare sull’agenda.
La Sorbetti cominciò. Ma, al solito, si dilungò talmente tanto che l’Allegria perse per strada la maggior parte delle informazioni. E non riuscì a capire cosa davvero c’era di urgente in tutta quella elencazione.
Guardò la sua collaboratrice e provò un po’ di invidia. Si era chiesta tante volte come facesse a mantenere il suo entusiasmo nel loro quotidiano, al più tappezzato di malvagità.
Non c’era dubbio che era ottimista di natura. Non c’era dubbio che era nata sotto un’ottima stella. Non c’era dubbio che alla venerabile età di trentacinque anni non era ancora convolata a nozze. E, infine, non c’era dubbio che cambiava fidanzati come i vestiti. Nel suo armadio diceva, non stazionava un vestito per più di una stagione. E dunque…
Okay. Lascia tutto qui per piacere. Ci penso io. Intanto chiama il questore avvertendo che sto arrivando.
E con questo la congedò pregandola di rimanere a disposizione. Nel tardo pomeriggio, magari.
Rimasta sola guardò con sgomento i tanti fogli. Meno male che per parecchio tempo avrebbe avuto abbastanza lavoro da non dover pensare alla sua desolazione. Si alzò e afferrata la borsa si accinse a lasciare la stanza. Ma non fece in tempo. All’improvviso la porta si aprì lasciando entrare una lingua di corrente seguita dal suo vice Massimo Grassini.
Stai per uscire?
le chiese ansimando su quell’atto così evidente che certo non aveva bisogno di domande. E così, riprendendo fiato le indirizzò un saluto avvolto in parole di dispiacere.
Come sai ho un appuntamento con il questore. Ma al mio ritorno ci possiamo incontrare per definire i sospesi. Intanto però volevo ringraziarti del lavoro fatto durante la mia assenza. La Sorbetti, al solito caoticamente, mi ha riassunto un po’ di cose lasciandomi diverse pratiche. Ma adesso debbo proprio andare. Sono in ritardo. Abissale.
Così dicendo uscì dall’ufficio lasciandosi alle spalle il Grassini che rimase fermo come un palo.
Non avrebbe mai creduto di dover sopravvivere a una devastazione dell’anima. Anche se di devastazioni era ormai esperta. Ma quelle di solito e fino ad allora appartenevano a chi, per un motivo o per l’altro, ogni giorno doveva perseguire. Normalmente cercava di mostrarsi più umana possibile con clienti caratterialmente fragili. Che poi erano quelli che più facilmente si facevano invischiare in problematiche laceranti spesso senza via di uscita.
Si mise il casco e si sentì subito meglio. L’isolamento dal rumore la ritonfò nel suo bozzolo. Non per pensare certo ma per riprendere fiato.
Si destreggiò nel traffico senza farsi contagiare dall’impazienza che invece avvertiva nei veicoli intorno a lei.
Si fermò al semaforo e subito un volto nero si precipitò a mostrarle la misera mercanzia. Lo riconobbe. Si riconobbero. Ormai erano diventati quasi amici dopo che lui era approdato in commissariato per un piccolo furto. Abdul come tanti, troppi, piantonava tutto il giorno e tutti i santi giorni quel semaforo. Certe volte, preso dalla disperazione per non riuscire a pagarsi neppure un panino, insisteva e insisteva facendosi prendere dal nervosismo. Da lì a reazioni sbagliate il tratto era breve!
Gli simulò un sorriso e appena il verde riprese a brillare partì a razzo. Non aveva voglia di farsi prendere dalla compassione. Per gli altri.
Parcheggiò e sfilandosi il casco si accorse che il cellulare suonava. Trafficò per riuscire ad acchiapparlo. Fece appena in tempo.